Sono i soprani, che, oggi, nei teatri del mondo si esibiscono nel repertorio verdiano.
La disamina delle loro esecuzioni offre l’opportunità di riflettere sui cambiamenti di gusto e di tecnica del canto. Voglio credere possa offrire elementi di riflessioni superiori alla sterile polemica a coloro che ci invitano a rinnegare il passato ed al tempo stessi a quelli che vorrebbero vedere le scene (tavole pittate, naturalmente) calcate da Rosa Ponselle piuttosto che Anita Cerquetti. Ognuno alla fine trarrà le proprie conclusioni.
Quando al convento arriva Deborah Voigt, accompagnata con energia dal maestro Noseda e destinata ad incontrare quel che resta della voce di Samuel Ramey, abbiamo la perfetta radiografia di una voce pronta per lo sfasciacarrozze. Basta sentire i suoni duri, spigolosi e privi di vibrazioni emessi sul fa di “son” o quelli ingolati e vuoti sul successivo sol di “giunta” per sincerarsi che riposo ed affetti familiari sarebbero la corretta attuale occupazione della cantante.
Quando, poi, arrivano le frasi orizzontali di “e mio fratel” insomma le medesime ove si spiegavano turgore ed opulenza vocale delle Cerquetti e Caniglia sentiamo una voce secca ed acida, che sa solo gridare. Stranamente in tutta la performance questa Leonora di Calatrava emette, sempre nel genere suoni stimbrati e di fibra, acuti decenti compreso il si nat, che chiude il recitativo di entrata.
Nell’aria per una voce in queste condizioni il direttore stacca, giustamente un tempo velocissimo, per evitare difficoltà e debiti di fiato; naturalmente cantante e direttore omettono il rispetto dei numerosi segni di espressione previsti da Verdi, segni che imporrebbero altra voce e soprattutto differente controllo del fiato. All’indicazione “con passione” che introduce il “deh non m’abbandonar” sarebbe opportuna la modifica “senza nessuna passione”, per rendere quel che viene eseguito. Quando arriva una frasetta medio alta “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” ovvero il momento in cui Leonora comincia ad entrare nell’ottica della penitente e dove le solite Cerquetti, Stella e Ligabue profondevano tutta la pietosa retorica del caso sorge il dubbio che Mrs. Voigt non abbia capito il significato della frase o forse si trovi in difficoltà con il fiato e l’esigenza, non rispettata, delle due forcelle indicate dall’autore. Quando alla ripresa orchestrale, che coincide con la chiusa del brano “deh non m’abbandonar” Verdi indica “animando sempre più” la prescrizione è rispettata dalla sola orchestra: la cantante non riesce ad implementare ampiezza e volume e, persino, manca all’appuntamento con il piano e la smorzatura (questa di tradizione) del “pietà Signor”, che normalmente riesce anche a voci che di Leonora non hanno il tonnellaggio. Credo di ravvisare il motivo dell’omissione nel problema di individuare dove prendere fiato, ripresa che lo spartito, in effetti, non prevederebbe.
Le cosa non vanno certo meglio al duetto con il Guardiano che è, appunto, quel che avanza di Ramey, ballante e privo dell’ampiezza che canto e retorica verdiana della situazione scenica imporrebbero. Poi per la cronaca quando arrivano gli acuti possiamo anche verificare che è l’unico basso dopo Pinza, Pasero e Vaghi che sappia come emetterli.
Dirò subito, ripetendomi, che in tanta condizione vocale da ritiro la Voigt azzecca i si nat sparati della parte. Che siano, poi, suoni morbidi e rotondi proprio no, ma rispetto a quelli immediatamente precedenti ed alla ottava centrale vuota e da faringite cronica sembrano una meraviglia. Ovvio che le condizioni vocali della Voigt non consentano di rispettare l’indicazione di dolcissimo del “più tranquilla l’alma sento” o tutte le indicazioni di forcella e crescendo che dovrebbero condurre progressivamente la voce al fortissimo del secondo si nat “sua figlia”. Le difficoltà tecniche si trasformano (more solito) nell’inespressività della frase “ah si del ciel qui udii la voce”, che la cantante non riesce (e si tratta di omofonia) ad eseguire legata. Una voce priva di smalto, rotondità non può certo rendere per sola virtù di timbro e capacità di accento l’indicazione “sottovoce e misteriosamente”.
Quando alla chiusa del brano arriva una minima difficoltà vocale rappresentata dal “mi toglierà” conclusivo che prevede il passaggio della voce dal do 3 al la 4 per poi scendere al fa e l’indicazione “dolce poco rallentando e morendo” abbiamo un’esecuzione disastrosa e dilettantesca, tipica della cantante ormai priva e di dote vocale e di dote tecnica. E’ vero che per la prima volta in tutta la scena la Voigt si riscatta dicendo la frasetta “andiamo” che introduce la stretta. E’ proprio cercare il pelo nell’uovo a favore di una cantante, che trascina fra un urlo ed uno strillo la sezione conclusiva del duetto e che arrivata alla famosa Vergine degli Angeli, applaudita dal devoto pubblico del Met (ben diversa era devozione al rudere vocale di Zinka Milanov) rende felice l’ascoltatore che l’atto sia terminato e la penitente Leonora de Calatrava avviata alla volontaria espiazione.
La seconda penitente, che approda al convento virtuale è Daniela Dessy. I rapporti della signora Dessy con questo titolo verdiano sono stati limitatissimi. Anzi una sola recita nel teatro di limitae dimensioni di Montecarlo. Il soprano italiano ha avuto anche un rapporto occasionale con l’Amelia del Ballo in Maschera e la circostanza è assolutamente ovvia, atteso che la signora Dessy vero soprano da tardo Verdi, quello gagliardo per usare la terminologia di Giacomo Lauri-Volpi proprio non lo è. Il suo repertorio sarebbe stato quello, che in epoca di maggior disponibilità di cantanti e più ponderata scelte fu di Mafalda Favero. Non di più, anzi, qualche titolo pucciniano in meno. Invece oggi la Dessy è sistematicamente Tosca, Adriana, Francesca, occasionalmente Fedora, spesso Aida, sull’errato presupposto che la schiava etiope sia un lirico come Manon. Ha pagato questo repertorio pesante con acuti sempre progressivamente meno sicuri anche se, a differenza di molte colleghe, anche più giovani, conosce bene l’arte di destreggiarsi in ruoli al di sopra delle proprie possibilità tecniche e naturali.
Che si tratti di una Mimì neppure al massimo della freschezza vocale lo si percepisce dall’incipit il “son giunta” dove la cantante spinge per esibire il volume e l’ampiezza da soprano verdiano. Ma se il volume lo si può anche trovare e si riesce a rispettare il ff sul fa diesis di “cielo” è l’ampiezza del recitativo che è estranea alla Dessy, la quale spesso spinge, forza ed emette suoni aperti come accade sempre nel recitativo di ingresso. Che si tratti di una cantante che sappia come gestire l’accento è evidentissimo sul si nat che chiude il recitativo che è qualitativamente discreto e dove la Dessy, pur con una presa di fiato non prevista riesce anche nel tentativo di smorzare la nota. Nell’incipit dell’aria la voce suona un poco indietro ed ingolata e l’interprete, che non rispetta i copiosi segni di espressione, piatta. Credo che, in realtà sia in affanno per una scrittura vocale ed un peso orchestrale maggiori di quelli dei titoli congeniali, tanto è che quando cominciano le serie di “deh non m’abbandonar” la Dessy prende un paio di brutti fiati e se smorza emette suoni falsettanti. All’ultimo “pietà Signor” prima dell’ingresso del coro dei claustrali, però, canta piano e allora è colorita e varia e le riesce, pure, la frasetta “che come incenso ascendono”. Quando, però, alla chiusa dell’aria è irrinuciabile lo slancio si percepiscono su frasi medio alte suoni tesi (vedasi il “non ricuserà”) o addirittura lo sforzo del si bem di “pietà Signor”. Ovvio che il soprano da Manon sia, nonostante gli anni capace di smorzare come di tradizione il conclusivo “pietà Signor”, previa presa di fiato fuori ordinanza, peraltro.
Suonata la campana Daniela Dessy è accolta da uno sgraziatissimo Fra’ Melitone (Roberto de Candia), che imita maldestramente altro maldestro Frate Portinaio, ossia Bruno Praticò, con suoni malmessi, parlati, che fanno assurgere al rango di fini dicitori e stilisti persino Capecchi e Corena. Non è essere nostalgici, è sentirci!
Nel canto di conversazione la Dessy è proprio ispirata e nobile vedi “Mi manda il Padre Cleto”. Saper dire, quando la scrittura non comporta difficoltà, è una delle qualità del soprano bresciano in questa fase di carriera.
La vera ed assoluta disgrazia nella quale inciampa questa Leonora e che le dovrebbe consigliare altro romitaggio è lo sciagurato Padre Guardiano di Paata Burchalazde. Tutti i difetti che può avere l’esausta voce di un basso slavo, che canta nel basso ventre sono puntualmente presenti. E mi fermo, ma mi domando e giro la domanda per quale motivo debba essere concesso a simili can-tanti di calcare i palcoscenici.
Nell’allegro agitato “Infelice, delusa” puntuali compaiono e la difficoltà a cantare con vigore in zona medio grave e ad affrontare gli acuti di slancio (il solito si nat della “figlia a maledir”) nonché suoni non ben controllati e sostenuti nella frase “darmi a Dio”. Al di là delle condizioni sono le dimostrazioni che Daniela Dessy non è un soprano drammatico e neppure un lirico spinto. L’assunto viene ulteriormente confermato all’allegro mosso “se voi scacciate” per la carenza di quell’enfasi che la retorica verdiana esige mentre le cose vanno meglio sulle frasi, che richiedono accento ispirato e castigato come “salvati all’ombra” o alla chiusa della sezione “mi toglierà”. Va anche rilevato che certi attacchi sul do grave o addirittura sul si danno luogo a suoni aperti nelle note immediatamente successive e, perdonate la ripetizione, come la sezione conclusiva del duetto “Tua grazia” attaccato sul mezzo forte per dare senso e significato al successivo “plaudite o cori angelici” manchi di slancio e, pur con questa carenza, gli acuti estremi siano difficoltosi. Una chiosa, poi, che vale anche per la prestazione di Deborah Voigt. Tradizionalmente veniva tagliata la coda in modo da risparmiare alla Leonora di turno un paio di si bem e consentire, poi, di chiudere con volume il duetto. Sarà anche stata una delle tante manifestazioni della deprecata “forbice di Serafin”, ma quando il soprano stenta in alto ed è stanco per la lunghezza della parte non riesco a ravvisare (salvo nel fatto che oggi i direttori non sappiano lavor di forbice) la necessità dell’esecuzione integrale del passo.
Rivestita del saio della penitente Daniela Dessy trova il suo elemento naturale nella preghiera conclusiva, anche se talvolta, proprio per il repertorio pesante e non consono alle proprie doti naturali e capacità tecniche, non risulta spontanea e facile nell’attacco della Vergine degli angeli -un re centrale- e si sente una certa difficoltà a controllare il regolare flusso del fiato nelle frasi successive dove per il salto mi3-mi4 ricorre anche ad un portamento per facilitare l’esecuzione del passo nel corso del quale, però, rispetta i segni di espressione previsti.
Terza ed ultima penitente della rassegna Norma Fantini, che pur in carriera da vent’anni è una outsider dei teatri italiani o quasi e cantante dal repertorio tutt’altro che esteso.
Qui anticipo le conclusioni sulla voce e sull’interprete, poi, proverò ad esemplificare con questa Forza del destino. Doverosa premessa: ho sentito in teatro una sola volta Norma Fantini, per giunta annunciata malata, ma dotata di voce ampia e sonora. Quanto basta per Manon di Puccini.
Ho riascoltato, però, curioso più volte questa ed altre performance. Io credo che Norma Fantini sia un soprano lirico di quelli, per esemplificare stile Rosetta Pampanini ovvero con una voce di buon volume in natura. Questo oggi è sufficiente per essere applicate costantemente al tardo Verdi ed a certo Puccini come Tosca e Manon o alla Maddalena di Coigny, mentre quei soprani, fra il 1920 ed il 1940, avrebbero cantato Butterfly, Manon di Massenet, Mimì, le Margherite di Gounod e Boito, magari Traviata e oggi, invece, possono fare i drammatici nel repertorio fra Bellini ed il primo Verdi a condizione di eseguire senza difficoltà i passi di agilità.
Basta sentire quello che accade nel recitativo e nell’aria “Madre pietosa Vergine” in prima ottava Norma Fantini è composta e non emette suoni aperti (unico suono un po’ enfatico e spinto il si nat grave di “perdei”), ogni tanto si ha il sospetto che qualche nota, proprio per paura di enfasi e verismo, sia piuttosto chiusa. Ad un certo punto, però e sistematicamente, sul mi4 fa4 accade qualche cosa ovvero i suoni diventano spinti e per conseguenza vibrano in una voce che altrove non è vibrata. Basta sentire proprio l’attacco “sul giunta” il fa diesis mi di “sangue”, sempre al recitativo e ancora nell’aria al “vergine perdona al mio”. Moderando il suono “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti” piuttosto che alla chiusa “pietà Signor” il difetto si attenua e non poco.
Per contro nelle note immediatamente precedenti la fine del passaggio superiore il timbro è dolce e consente accento ispirato, consono al personaggio dolce e remissivo. Anzi qualche volta Norma Fantini eccede in dolcezza e mitezza e finisce con il richiamare personaggi da dramma borghese come in “alcun potria sorprendermi” o nelle battute che precedono il duetto con il Guardiano. Insomma una Mimì o una Butterfly, piuttosto che Leonora di Vargas, anche se gli acuti presentano in maniera molto ridotta il difetto dei mi e fa acuti. Tutto questo, però, non può che far concludere per una cantante che canta esibendo il volume a discapito della qualità del suono.
Esattamente lo stesso accade al duetto: durante tutta la prima sezione la cantante modera il volume e riescono solo un poco spinti (nella media di tutte le Leonore de Vargas) gli acuti estremi e l’accento per la penitente in nuce è quello giusto, come accade nelle differenti ripetizioni di “ah tranquilla l’alma sento”, stranamente eccede nella frase “voi mi scacciate”, che è pur vero prevede l’indicazione “declamato”, ma qui si declama un po’ di enfasi di troppo.
Alla sezione conclusiva, quella che richiede impeto e slancio, i mi ed i fa suonano spinti se cantati a piena voce e pregiudicano la qualità degli acuti estremi. L’attenuante è quella di sempre ovvero dell’inizio delle riflessioni: può essere che stia cantando Forza del destino piuttosto che Butterfly o Bohème. Mi domando però, anche se la riflessione esula dalla Forza del destino, che possa accadere cantando poderosamente e con compiacimento di certe zone della voce il repertorio del primo Romanticismo, che sappiamo è un vero ballo sulle punte.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
2006 – Deborah Voigt (con Samuel Ramey & Juan Pons – dir. Gianandrea Noseda – Met, New York)
2007 – Norma Fantini (con Alexander Vinogradov & Enrico Marabelli – dir. Julien Salemkour – Staatsoper unter den Linden, Berlino)
2008 – Daniela Dessì (con Paata Burchuladze & Roberto de Candia – dir. Alain Guingal – Opéra, Monte-Carlo)