Mese di agosto XIII – Viens gentille dame

Louis-Antoine-Eléonore Ponchard, star dell’Opéra-Comique e creatore della Dame blanche di Boïeldieu, avrebbe dovuto essere il protagonista del Robert le Diable, prima che Meyerbeer mutasse la destinazione e di conseguenza la natura del proprio lavoro, affidato da ultimo alla più prestigiosa fra le scene nazionali, quella dell’Opéra. Basterebbe questa nota biografica per capire quanto Ponchard fosse diverso da quei tenori esili, in ogni senso, che dagli anni Cinquanta in poi hanno, con sparute eccezioni, monopolizzato il repertorio del tenore di grazia.

In realtà la genealogia vocale che fa capo a Ponchard (che fu, tra l’altro, insegnante di canto ed ebbe allievi del calibro di Jean-Baptiste Faure, Rosine Stoltz, Henri-Bernard Dabadie e persino Giovanni Matteo de Candia, in arte Mario) si può ricostruire con sufficiente precisione, visto che alcuni dei maggiori tenori in servizio presso l’Opéra-Comique nei primi decenni del XX secolo hanno inciso la cavatina di Georges Brown.
Il brano, nella tonalità di mi bemolle maggiore, composto da una sezione lenta in quattro quarti (Andantino con moto) e da una più veloce nella curiosa misura di cinque quarti (Allegretto), esprime il rapimento estatico del protagonista, che nel diroccato e a lui ignoto maniero di famiglia attende l’apparizione della misteriosa dama eponima. Non c’è un autentico scarto fra cantabile e cabaletta, l’uno trapassando nell’altra nel momento in cui l’impazienza ha il sopravvento nell’animo del giovane e valente ufficiale. Il brano, giocato su una tessitura piuttosto alta (in particolare sul secondo passaggio di registro, sul quale “battono” numerosi attacchi), sale a più riprese al la bemolle e al si bemolle acuti, per poi scendere, nelle fioriture con cui è variato il tema di apertura, prima al mi bemolle basso e quindi, nella cadenza che precede il ritorno del tema nel suo enunciato originario, al re sotto il rigo. Nella cabaletta compaiono, oltre a nuovi acuti (fra cui un do opzionale), fugaci ma non facilissime terzine e quartine di agilità, scale discendenti, un salto di decima (dal fa basso al la bemolle acuto), fino al si bemolle acuto che corona il brano, prima dell’intervento dell’arpa (preludio all’entrata in scena della Dama bianca) e della ripresa (“dolcissimo”) del tema, ancora una volta chiuso da un si bemolle acuto con tanto di corona.
I tenori attivi all’Opéra-Comique e documentati dal disco rispondono ai nomi di Edmond Clément, René Lapelletrie, David Devriès e Miguel Villabella. Loro parente prossimo, e star della Monnaie di Bruxelles, è André d’Arkor, che di tutti i precedenti ha forse il timbro più caldo e pastoso, seguito a ruota da Villabella, voce di grande bellezza (sia pure afflitta da qualche nasalità e da un eccesso di portamenti, che ne sminuiscono, e non poco, il fascino, oltre ad “irrigidire” l’esecuzione e provocare una realizzazione un poco stentata delle agilità della cabaletta).
Quel che è comune a tutti i precedenti, salvo in parte, come detto, Villabella, e che doveva evidentemente essere il tratto distintivo della tradizione e della memoria storica dell’Opéra-Comique e teatri analoghi, sono le “buone maniere” vocali, che consistono essenzialmente in un’emissione di scuola, che rende la voce morbida e fluida nei vocalizzi senza che risulti stimbrata e afonoide, e che di conseguenza permette al cantante, indipendentemente dalla gradevolezza del timbro, di inserire nel canto quelle sfumature, in difetto delle quali non avremmo più l’elegia di un amante impaziente, ma uno scomposto vociferare ovvero, in difetto di qualità timbriche, un rauco e ben poco piacevole mormorio. Si ascolti invece come questi cantanti riescano a differenziare il senso delle frasi e a scandire i momenti dell’attesa del personaggio, affrontando gli acuti previsti (e altri aggiungendone all’uopo: per tutti valga il si bemolle inserito, in luogo del si bemolle centrale scritto, su “émue”), acuti risolti ora in falsettone, ora (tipicamente alla cabaletta) a piena voce. La dolcezza dell’attacco di Clément, la grande facilità di D’Arkor nell’esecuzione delle scale discendenti nella cabaletta, le variazioni generosamente profuse da Lapelletrie fin dal primo enunciato del tema del cantabile sono impressionanti, anche se l’esecuzione più seducente, perché più sfumata, è opera dal meno conosciuto Devriès, che risolve la pagina con un sapientissimo gioco di variazioni agogiche e dinamiche, tali da valorizzare, assieme al testo, la dote timbrica, di per sé non irresistibile.
Preme inoltre sottolineare come tutti questi grandissimi tenori avessero in repertorio Barbiere di Siviglia, Manon e Contes d’Hoffmann, ma anche Faust, Werther, Carmen, Butterfly, e ancora Lucia di Lammermoor e Bohème (D’Arkor), Traviata e Tosca (Devriès), persino Fanciulla del West (Lapelletrie). Consuetudine che testimonia una solidità al centro, un mordente e una proiezione vocale, tali da rendere agevole l’esecuzione di ruoli spinti, senza che venisse meno la facilità, e quindi l’espressività, del canto. Per altri, forse, un simile elenco testimonierà quanto il pubblico di ieri fosse facile ad accontentare, all’opposto, magari, di quello di oggi. Le registrazioni, di ieri e soprattutto di oggi, smentiscono però fatalmente l’assunto.
Quella francese, rectius francofona, non è l’unica grande tradizione di canto applicata alla cavatina di Georges Brown. Se ascoltiamo Hans Buff-Giessen (formidabile esecutore di trilli, come quello aggiunto in chiusa), e più ancora Leo Slezak (immenso interprete wagneriano e verdiano, fra l’altro), udiamo, fatte le debite differenze in quanto a dote naturale, analoga proiezione della voce, prodigiosa capacità di controllo del fiato, identica scansione delle agilità, risolte di forza, ma senza che il cantante debba bofonchiare o peggio. Tanto per non smentire la nomea di passatisti che ci accompagna, potremmo affermare che, fra i tenori di area mitteleuropea del presente e del recente passato, nessuno sfoggia, neppure nel repertorio più frequentato (che non è sempre il più consono, anzi), l’autorevolezza e lo squillo di uno Slezak, di fronte al quale impallidisce persino Rosvaenge (alquanto svogliata e piatta la sua esecuzione).
In tempi a noi più vicini, fronte di un ridotto numero di tagli rispetto a quanto previsto dallo spartito (ma con i tagli, spesso resi inevitabili dalla durata standard dei vecchi dischi, spariscono anche variazioni e abbellimenti, che testimoniavano una precisa prassi storica), l’interpretazione perde vigore e smalto, a volte a favore di un’esecuzione graziosa, magari un poco inerte (e nella cabaletta il fuoco, l’impazienza dell’amante, deve avvertirsi, pena il precipitare della tensione drammatica), altre volte a vantaggio di un’esecuzione che mira a mettere in evidenza, in via esclusiva o quasi, la bellezza di un timbro o la facilità di estensione in alto (a prezzo di qualche rantolio o strozzamento di gola: si veda ad esempio la maldestra, per non dire peggio, realizzazione di Kunde). Certo l’assidua pratica rossiniana consente a Rockwell Blake di venire a capo di gran parte delle difficoltà tecniche del brano, ma il confronto con i cimeli a 78 giri neppure si pone, per vaghezza timbrica e più ancora per qualità del legato, oltre che per numero e pertinenza di sfumature.
Chi si contenta gode, asserisce il proverbio. E dato che la Dame blanche pare essere titolo sconosciuto ai signori sovrintendenti e direttori artistici (anche a quelli di origine transalpina), forse, per restare in tema di proverbi, non tutto il male viene per nuocere.

Gli ascolti

Boieldieu – La Dame blanche

Atto II

Viens, gentille dame

Hans Buff-Giessen – 1905
Leo Slezak – 1905
Edmond Clément – 1916
René Lapelletrie – 1919
Helge Rosvaenge – 1928
David Devriès – 1930
Miguel Villabella – 1930
André D’Arkor – 1931
Alessandro Ziliani – 1935
Fritz Wunderlich – 1960
Nicolai Gedda – 1965
Rockwell Blake – 1992
Gregory Kunde – 1997


4 pensieri su “Mese di agosto XIII – Viens gentille dame

  1. Carissimo don Antonio,
    di Buff-Giessen oltre all'aria della Dama bianca ho trovato solo le seguenti: "Addio Mignon", "Parmi veder le lagrime", "De' miei bollenti spiriti", "Un'aura amorosa" e la cavatina del Conte d'Almaviva. E' però abbastanza per farsi un'idea sul grande cantante che doveva essere.

Lascia un commento