Quest’anno correva anche il 400° anniversario dal “Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi, composizione scelta per inaugurare la rassegna il 29 Luglio, che ha proseguito con “Faust”, “Forza del destino”, “Lombardi alla prima crociata”, allestiti allo Sferisterio ed il dittico “Juditha triunphans” di Vivaldi e “Attila” di Verdi ospitati in forma “cameristica” (traduzione: orchestra ridotta e scena essenziale e fissa per entrambe le opere) nella bomboniera del Teatro Lauro Rossi.
Si parlava prima di sfortuna: alla prima del “Faust” una pioggia birichina ha fatto slittare la recita alla data successiva, lasciando alla “Forza” l’onore di aprire lo Sferisterio…purtroppo!
Nei primi anni 2000 sul palcoscenico del Festival di Macerata allestimenti sfarzosi, fantasiosi e sperimentali come la “Traviata” e la “Lucia di Lammermoor” con le scene di Svoboda, la “Butterfly” firmata Brockhaus, “Aida” e “Turandot” di De Ana lasciavano presagire futuri spettacoli del medesimo livello; con Pizzi siamo invece alla fiera del riciclaggio di se stesso e delle scene.
In periodo di crisi tale scelta può essere vista come una amministrazione intelligente e anzi auspicabile, dei mezzi a disposizione; il problema è che il palcoscenico diventa sempre più rachitico, sempre più anonimo e prevedibile, la regia, se di “regia” si può parlare, dilettantesca o imbarazzante, quindi: le passerelle inclinate già viste in “Europa riconosciuta”, “Maria Stuarda”, “Norma”, “Macbeth” etc., vengono solo rivestite di legno e cartapesta, ridipinte di ocra e spostate di posizione; i costumi vengono ripescati da “Gioconda” (Arena di Verona), “Il crociato in Egitto” (Venezia) e dagli allestimenti sopracitati.
Evidentemente la “Forza del destino” è un’opera che Pizzi non apprezza molto: una grande croce lignea sovrasta le tre aperture del gigantesco e spoglio muro dello sferisterio; due passerelle inclinate, scomode e scivolose (quanti capitomboli sia dei poveri coristi, sia di un po’ tutti i malcapitati cantanti) scendono dalle due aperture più piccole a cui lati due rialzi a forma anch’essi di croci formano l’unica decorazione della scena eccezion fatta per un tavolo di legno posto al centro del palco.
Mortificante la scena, mortificante l’incapacità di gestire le masse, mortificante la regia “faidate” dei singoli, limitati ad entrare, passeggiare o schierarsi al proscenio in un noioso, assurdo vuoto, imbarazzante la bandiera di luce proiettata sul muro dello Sferisterio durante il “Rataplan”, inutili i costumi evocanti il primo conflitto bellico e nulla possono fare le coreografie da sagra paesana ideate da un Gheorghe Iancu non particolarmente ispirato.
In un 2010 in cui l’aumento degli sponsor-mecenati, e quindi degli introiti e degli investimenti, è cresciuto a discapito del numero dei biglietti venduti, si poteva, anzi, doveva fare qualcosa di più per esaltare la strombazzata, a sproposito, qualità artistica che il Festival si sforza di raggiungere, e non sto parlando solo della pochezza scenica e pubblicitaria, ma anche di quella musicale e vocale.
Mettere insieme un cast sufficiente a sostenere un’opera come la “Forza del destino”, che pretende almeno sei voci vere, oggi è davvero una impresa temeraria a cui Macerata non si è sottratta:
insufficiente l’Alvaro di Zoran Todorovitch, sicuramente una voce importante e schiettamente tenorile, massacrata però dalla rozzezza di una emissione che prevede l’apertura innaturale delle vocali alla ricerca di una maggiore ampiezza, calante negli acuti per giunta, tutti rigorosamente sforzati, e deficitario nel fraseggio, ricondotto ad un lamento muscolare dal sapore molto vecchio e monocorde.
Prima vittima della “maledizione” il baritono Marco di Felice previsto nel ruolo di Don Carlo di Vargas, costretto al ritiro a causa di una indisposizione e sostituito praticamente all’ultimo momento da Elia Fabian il quale ha eroicamente salvato la serata “leggendo” il ruolo nella buca dell’orchestra e doppiato in scena da un mimo. Onore al merito dunque. Questo episodio fa però riflettere su un particolare: un teatro che punti alla qualità dovrebbe assicurare un adeguato sistema di copertura in caso di indisposizione nel rispetto dei cantanti e del pubblico, non ricorrere, se non in casi eccezionali, a soccorsi dell’ultimo minuto.
Tornando a Fabian, si fa ammirare per il timbro scuro, lo sforzo di rispettare la partitura, ma anche lo sforzo della linea di canto, l’acuto periglioso e la correttezza dell’interpretazione; peccato che la posizione lo rendesse quasi inudibile in alcuni momenti nei posti più estremi dello Sferisterio.
Seconda vittima della “maledizione” Elisabetta Fiorillo scritturata per il ruolo di Preziosilla, ma colpita da una indisposizione che ha costretto le maestranze a sostituirla con Anna Maria Chiuri.
Voluminosa la voce della Chiuri avvolta in un gigantesco e svolazzante camicione da notte dall’indefinibile colore, ma anche fissa e stonata nelle note sopra al rigo e gutturale nei centri e nelle note gravi; spigliata però nel fraseggio e riesce a coprirsi di gloria in un “Rataplan” diretto in maniera maldestra da Callegari ad una velocità semplicemente folle, in cui la cantante riesce con virtuosismo estremo ad inserirsi nell’agogica limitando i danni del registro acuto e riuscendo a cantare tutte le note previste: complimenti!
Più recitante che cantante il Fra Melitone del divertente Paolo Pecchioli e rispetto al suo Padre Guardiano fiorentino, Scandiuzzi sembra molto più solido e timbrato, anche se denota una certa durezza nell’emissione e qualche sbandamento nella regione acuta riuscendo però giustamente solenne e paterno nelle tre scene in cui è previsto.
Discreti Giacomo Medici (Trabuco) e Paulo Paolillo (Alcade), duro e intubato Luca Dall’Amico (Calatrava) ed emerge la voce sonora e sensibile di Annunziata Vestri nel ruolo di Curra.
L’unica vera sorprendente nota positiva è stata la prova del soprano Teresa Romano!
Irriconoscibile rispetto alla mediocre, verista, durissima Vitellia napoletana, la Romano dimostra, alla prima, di avere un ottimo controllo della propria voce sia nei centri che nei gravi ed un volume di tutto rispetto: buona la proiezione che permette alla voce di espandersi naturalmente, dolcissimo il timbro da soprano lirico che finalmente fa vibrare la corda adolescenziale nella voce di Leonora e timbratissime le note gravi e sotto il rigo che suonano sonore e rotonde.
Particolarmente riusciti momenti come “Me pellegrina ed orfana” in cui oltre ad uno puntuale ed espressivo legato si apprezza anche l’intimismo del fraseggio, che torna velato di nervosismo sia nella scena del convento che nel finale.
Tallone d’Achille, a volte pesante, rimane il registro acuto, tagliente e perennemente crescente, che non si salda affatto al registro centrale e rende spigolose ed aspre le note sopra al rigo.
Peccato.
Le auguro di essere costante, di non impelagarsi in ruoli troppo pesanti per la sua vocalità così lirica, di aggiustare la coloratura se vuole affrontare ruoli di tal genere e l’emissione del registro acuto, avremmo una bella conferma: per ora è una giovane promessa.
Funzionale e preciso il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” che supera con somma professionalità la difficoltà di ascoltarsi quando è in maniera scellerata schierato lungo tutta la lunghezza del gigantesco palcoscenico senza perdere omogeneità e coesione.
La direzione di Daniele Callegari ondeggia tra tre poli agogici: lenta, veloce, velocissima.
Lenta per le arie e per aiutare i cantanti in difficoltà, veloce per tutti i duetti, velocissima al limite dell’incantabilità in tutte le scene in cui è prevista Preziosilla, il coro o Fra Melitone. A livello espressivo è sicuramente molto nazzionalpopolare, ma tale incoerenza di tempi unita ad un’orchestra in serata svogliata (agghiaccianti le stonature dei flauti!) si ripercuote sulla resa finale nonostante un preludio di ammirevole fattura ricco di energia e spigolosità volutamente sensuali e drammatiche.
Dalla pochezza della “Forza del destino” alla sorpresa de “I lombardi alla prima crociata” per la prima volta sul palco dello Sferisterio: una serata davvero ricca di interessi, finalmente, si riconosce addirittura la zampata del regista scenografo Pizzi e una maggiore attenzione alla scelta delle voci.
Prima di tutto la scena, ancora più scarnificata rispetto all’opera precedente, eppure resa più evocativa dalla felice ricchezza di idee:
ai lati delle due passerelle inclinate due piscine d’acqua evocano i bagliori del Siloe, al centro della scena un pulpito ligneo sarà il fulcro dei momenti più concitati o intimi e fungerà da piedistallo su cui adagiare una sottile croce lignea.
Condivisibile ed elegante la volontà di creare dei veri e propri “tableaux vivents” ispirati a certe pitture rinascimentali filtrate attraverso il gusto francese di David o all’essenzialità del Caravaggio grazie alla magnifica direzione delle luci di Sergio Rossi.
Pizzi sfrutta l’idea di grande suggestione di identificare le sofferenze del Cristo sulla croce con la sofferta evoluzione psicologica di Giselda, Arvino e Pagano i quali prendono il posto del simbolo religioso direttamente su quel pulpito durante i loro monologhi più intimi; Pagano addirittura diviene l’ombra stessa della croce morendo in posizione speculare al Redentore che lo sovrasta ricevendo il perdono del fratello.
Commovente la sequenza onirica del IV atto affidata ad un balletto in penombra che evoca gli amori di Giselda e Oronte ed il loro addio; soluzione semplicissima, ma al tempo stesso coinvolgente, che fa il paio con il “passo a due” tra la ballerina Anbeta Toromani e l’ottimo violinista Michelangelo Mazza, risolvendo l’intermezzo virtuosistico che Verdi ha dedicato al violino attraverso una coreografia che vuole rappresentare il tempo che scorre sulla storia; complimenti Maestro Iancu! Infine, “O signore dal tetto natio” vive dei bagliori del Siloe in cui il coro si immerge scambiandosi amare carezze e giocando con i riflessi, gli stessi che torneranno a concludere l’opera e che disegneranno sul muro dello Sferisterio le cupole lontane di Gerusalemme. Struggente.
Ingenue purtroppo le scene di combattimento al rallentatore e prive di interesse, oppure lo sbrigativo incendio al primo atto, ma sono particolari trascurabili di fronte alla voglia di fare un teatro semplice, ma palpitante e non banale avendo pochi (?) mezzi a disposizione e credendo nel lavoro, nell’opera e nel compositore.
Molto più equilibrato ed omogeneo il cast schierato:
emerge nel bene e nel male Dimitra Theodossiou, la quale ha negli anni scavato e approfondito il personaggio di Giselda, trasformandolo in uno dei suoi cavalli di battaglia cantandolo con i pregi e difetti che fanno ormai parte della sua organizzazione vocale.
Il timbro è come sempre leggermente acidulo, ma dalle pregevoli sonorità liriche, la buona proiezione permette agli armonici di espandersi con potenza e intensità nell’arena, il fraseggio ovunque non è mai becero né eccessivamente esteriore o plateale, anzi, come già dimostrato nei “Lombardi” fiorentini è capace di inflessioni dolcemente patetiche e fanciullesche, come nella splendida preghiera “Salve Maria” in cui la tessitura che gravita attorno registro centrale, nonostante il perenne sospetto di emissione “falsettante” in puro stile Caballé senescente, viene risolta con un attento controllo della linea di canto e del legato; stesso discorso per “Oh madre, dal cielo soccorri al mio pianto” in cui l’impiego dei pianissimi e della mezza voce, un po’ insistiti e ruffiani, hanno una loro efficacia sia canora che espressiva e si adattano benissimo all’angoscia della fanciulla; ma già dalla micidiale “No!… giusta causa – non è d’Iddio” i problemi diventano palesi e non mascherabili con un falsetto o un pianissimio: lo sforzo di dare mordente e precisione alle colorature è encomiabile, ma non sufficiente alle esigenze verdiane anche se il direttore Callegari stacca un tempo leggermente più lento per aiutare la cantante; purtroppo manca totalmente nel registro acuto rigorosamente strillato e costantemente urlato. La Theodossiou dimostra però grande temperamento sia in quest’aria, sia nel bellissimo duetto con Oronte in cui l’artista da sfogo alla sua vena più rilassata e romantica, che in “Non fu sogno!.. in fondo all’alma” aria acutissima, dunque semi urlata, ma di sicura efficacia.
Francesco Meli, Oronte, ammalia grazie alla bellezza personalissima del suo timbro, dolce e virile, allo scavo della dizione che offre alla parola uno sfaccettato bagaglio espressivo, all’abilità del ricchissimo fraseggio; meno per quanto riguarda certe emissioni di gola e per la mancanza di autentico squillo tenorile. Eppure la voce è potente, il personaggio romantico e accattivante fin da “La mia letizia infondere” e nella successiva “Come poteva un angelo” in cui sia il legato sia il registro centrale risultano solidi e l’accento assolutamente giusto; meno bene l’emissione degli acuti e la risoluzione del passaggio decisamente più duri e ingolfati. Molto meglio vanno le cose sia nel duetto con Giselda, sia nella scena della conversione e morte coronato da un terzetto con la Theodossiou e Pertusi al color bianco quanto a intensità e timbratura vocale.
Pertusi nel primo atto fatica non poco soprattutto nell’emissione delle note centrali che risultano traballanti e sfuocate come dimostrano l’aria ed il concertato del I atto; molto bene invece nel prosieguo in cui, se permane qualche durezza nell’omogeneità del registro centrale, la solidità della linea di canto sempre cauta, ma concentrata, riesce a risolvere le asprezze del III e IV atto arrivando freschissimo al finale. Si vorrebbe, magari, un fraseggio più variegato, ma il personaggio non fatica ad emergere per carisma e pertinenza.
Sfuocato e fragile l’Arvino di Alessandro Liberatore, come l’Acciano gutturale di Luca dall’Amico; funzionale Enrico Cossutta nel brevissimo ruolo del Priore, mentre da tenere d’occhio il Pirro di Andrea Mastroni dalla voce morbida e fonda.
Annunziata Vestri e Alexandra Zabala offrono gande rilievo scenico e vocale ai personaggi di Sofia e Viclinda dimostrando sicurezza di proiezione e luminosità timbrica.
Il Maestro del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, David Crescenzi compie autentici prodigi nella “Forza del destino” visti i problemi che gli pongono la regia e la direzione, mentre accoglie qualche sbandamento soprattutto al I e II atto de “I Lombardi” soprattutto tra le fila dei Tenori e dei Bassi; ma si fa perdonare attraverso la sensibilità autentica dimostrata nei due atti successivi culminanti in un “O Signore, dal tetto natio” ed in un finale d’opera di cristallina purezza.
Se la sera precedente Callegari aveva parzialmente deluso, ne “I Lombardi” sia il direttore che l’orchestra risultano totalmente trasformati in meglio!
Poche le stonature nell’orchestra, non eccelsa, ma duttile e puntualissima grazie al grande senso narrativo atti ad esaltare i preziosismi rinascimentali di Verdi e non solo quelli più propriamente patriottici della partitura, trasformando l’opera in un romanzo popolare avulso da intellettualismi o inutili turgori bellici:
dunque agogica serrata, ad un passo dalla banda, ma è un rischio solo sfiorato in cui i momenti corali assumono elettrizzante carattere protagonistico e le arie quasi si distaccano dal contesto per assumere connotati più tardo romantici e strumenti come arpe e archi si coprono di gloria sotto la bacchetta ispirata di Callegari con un inedito gioco di continui richiami e sovrapposizioni.
Ingiustizia ha voluto che il pubblico accorresse numeroso per un titolo, in questo caso, completamente mancato come la “Forza” (con una sola eccezione) e disertasse in massa l’opera più riuscita; mi spiace per chi non c’era e non ha potuto partecipare all’entusiasmo finale, ed al successo personale della Theodossiou… nel senso che in un impeto di protagonismo si è letteralmente lanciata al proscenio, staccandosi dalla schiera degli artisti, per “rubarsi” il trionfo: uno “spettacolo” nello spettacolo. Che classe!
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
I Lombardi alla prima crociata
Atto I
Te, Vergin Santa, invoco – Maria Vitale (1951)
Atto II
O madre, dal cielo…Se vano è il pregare…No, no giusta causa – Maria Vitale (1951)
La forza del destino
Atto I
Me pellegrina ed orfana – Susan Dunn (1988)
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine – Mirella Parutto (1963)
Atto IV
Pace, pace mio Dio! – Caterina Mancini (1963)
Non imprecare, umiliati – Zinka Milanov, Richard Tucker & Cesare Siepi (1956)