Comincio, reduce e dall’aver seguito la trasmissione con lo spartito Ricordi del 1850 e dalla lettura del testo “Divas and scholars” di Philip Gossett, definito “immancabile” per il rossiniano doc dalla rossiniana doc Marilyn Horne, con l’esternare perplessità e dubbi. Nel dettaglio:
1) ho sentito sistematicamente recitativi eseguiti privi di appoggiature ed a metronomo e persino con scarsa attenzione alla dizione. Eppure gli esecutori erano italiani, salvo Olga Peretyatko, russa, eppure la più varia ed eloquente. Accento, scansione larga e fiera sono a tutti ignoti e sconosciuti e questo è particolarmente negativo in titolo che prevede una farragine di recitativi, eseguiti ab integro. Ci ricordiamo l’utilizzo della appoggiature di Garcia, proposto da Merritt, nell’Otello del 1988.
2) Abbiamo imparato quanto inattendibile la storiella che Rossini, esasperato dagli inserimenti ed abbellimenti di Velluti nel dicembre 1813 abbia deciso di scrivere la coloratura in extenso. Ciò nonostante quando Rossini nello spartito inserisce quelle che in gergo si chiamano “notine” non significa che le stesse debbano essere eseguite alla lettera, rappresentano, invece, una proposta, uno scheletro di inserimento ed ornamentazione del testo. In difetti ritorniamo agli anni ’50, quelli della “forbice di Serafin”, per riprendere Gossett, privi, però del braccio e dell’esperienza del maestro di Cavarzere.
3) Quando, poi, una frase musicale ricompare identica e l’autore non abbia provveduto a variarla, come accade nella seconda aria di Ladislao sulle parole “mi inganna” deve provvedervi esecutore o concertatore. In difetto, come accaduto in questo Sigismondo siamo ancora al Rossini ante Horne, per dare dei riferimenti cronologici.
4) Quanto, poi, all’esecuzione di un titolo del primo Rossini, notoriamente avaro di segni di espressione e di dinamica ( ce lo ripetono da cinquant’anni proprio i padri spirituali del Festival: Alberto Zedda e Philip Gossett) questo non significa limitare la dinamica al forte ed al mezzo forte ed eliminare stentando ed accelerando salvo che (cavatina di Sigismondo) non li abbia indicati l’autore limitandosi ad un accompagnamento metronomico e meccanico. Altra scelta da “forbice di Serafin”
5) Quando, poi, le variazioni nei da capo, di cui ignoro l’autore, parsimoniose e di poca fantasia sono la regola, questa è assolutamente inammissibile ed antirossiana specie se riferita ad un titolo del primo Rossini a coloratura lata e non minuta.
E così arrivo alla direzione d’orchestra, proponendo un ulteriore spunto di riflessione. Sigismondo, come tutti i titoli del Rossini giovane vennero utilizzati a piene mani dall’autore per parodie ed auto impresti. I principale e nella certezza della incompletezza: la Sinfonia verrà impiantata nell’Otello, la cabaletta della prima aria di Ladislao è un mix fra quella di Norfolk ed il “marito di tal fatta” di Donna Fiorilla, alla cabaletta di sortita Sigismondo intona il “voce che tenera” del numero alternativo, pensato per Tancredi, il coro dei cacciatori diverrà quello che introduce don Magnifico in cantina, il tema della calunnia compare nel duetto Ladislao- Aldimira, la quale, travestita, intona il tema di Fiorilla, anch’essa travestita, del finale primo del Turco, al loro primo incontro Sigismondo e d Aldimira cantano Cenerentola e don Ramiro, Ladislao, straziato dai rimorsi nella propria ultima aria intona, pure sulle medesime parole quella che diverrà la cabaletta di Matilde ossia di Seide in Adina ed in fine Sigismondo anticipa in parte il Norfolk di Elisabetta, ossia canta quel che diverrà l’aria di Josephine Fodor, Rosina.
Tutto questo, aggravato dalla circostanza che ciascun brano venga parodiato ed autoimprestato in situazioni drammatiche differenti dovrebbe inspirare la direzione a colori e dinamiche, che elidano nel pubblico l’idea del pedissequo autoimpresto, altrimenti mandiamo all’altro mondo un altro dogma dell’estetica rossiniana, ossia che trattasi di arte tutta ideale. Se ascoltando l’autoimpresto del Turco il pubblico sente sempre l’opera comica ch dirige e concerta ed anche chi canta ha fallito il proprio compito e tradito l’autore. Concittadino, per giunta, come se la circostanza rappresentante il quid pluris ed il fondato motivo della scrittura.
Sul direttore Michele Mariotti prendo a prestito il giudizio di Barbara Marchisio, riferito al recente Barbiere e spiego quella frase precisandola ed esemplificandola: questa direzione manca, a partire dalla Sinfonia, del colore ampio e solenne che compete all’opera tragica, non si distinguono mai gli strumenti cui attribuito il tema da quelli, cui affidato l’accompagnamento, che gli accompagnamenti degli ensemble (finale primo e stretta dello splendido quartetto all’atto secondo) sono pesanti, e che per contro talune sonorità e tempi (cabaletta di Sigismondo all’atto primo) sono da farsetta ossia che manca lo slancio e l’abbandono, il tutto a favore della esecuzione, rectius noia metronomica, che ha permeato tutta la serata.
E qui mi fermo precisando che alla stretta del quartetto, complice l’esecuzione maldestra di una puntatura di Aldimira e Ladislao fra palcoscenico ed orchestra c’è stato lo scompiglio. L’opera, ripeto prevede, poi, due soli concertati.
Daniela Barcellona con questo ruolo credo abbia superato il numero di parti rossiniane nel repertorio persino di Marilyn Horne. Quantità non significa qualità. Il canto di Daniela Barcellona è la più esauriente negazione del canto rossiniano. Nella parte centralizzante di Sigismondo, scritta per Marietta Marcolini, che non passa per scrittura un sol acuto, che non prevede acrobazie stratosferiche abbiamo sentito una voce aperta in basso(la e si bassi) , scarsamente immascherata al centro (a partire dal do centrale), priva di eleganza, astrattezza e stilizzazione, che sono la qualità irrinunciabile del belcantista. In ogni zona della voce si sente quello che in gergo si definisce la fibra, segno manifesto del canto non di scuola. I recitativi sono “buttati lì”, privi di senso, perché il problema è eseguire le note, ancor peggio nei cantabili dove il legato è periclitante perché la voce è nel fiato e non sul fiato e quanto alle agilità sono spesso strascicate e non scandite (duetto del secondo atto). Sempre al duetto del secondo atto a Sigismondo è affidata una frase, che anticipa quelle di Calbo o di Erisso e la Barcellona non sa fare altro che emettere sgraziati e malamente sostenuti suoni di petto. Il tasso emozionale della frase è irrimediabilmente perso e con esso personaggio, stile e gusto. Il pubblico può anche applaudire questa potenziale Ulrica, che mai oggi più che ieri ha avuto pertinenza con Rossini. Eppure la voce in sé era di qualità e di autentico mezzo soprano
Le parti scritte, come Aldimira, per Elisabetta Manfredini sono le prime che caratterizzano la scrittura vocale rossiniana. Inutile ricordare che presentano note acute soprattutto sol e la scoperti, che non escludono accento scandito ed imperioso e prevedono passi vocalizzati piuttosto lunghi come accade al finale dell’aria del secondo atto ( identica situazione per tutte le altre arie “a rondo” scritte per il soprano bolognese in Tancredi, Adelaide, ad esempio). Allora peso e colore della signora Peretyatko sono quelle della soubrette da farsa, gli acuti estremi non sembrano facili a piena voce, un po’ meglio se emessi flautati come accade negli andanti, spesso le note sul passaggio superiore suonano schiacciate (duetto con Ladislao) e la vocalizzazione non è fluidissima perché la voce non suona alta nella maschera. Unico pregio conferisce senso ai recitativi ed accenta, soprattutto nei momenti più intesamente drammatici con vigore, senza averlo però nella voce.
La parte più difficile e più onerosa dell’opera è quella dell’antagonista Ladislao, cui sono riservate ben tre arie oltre che al duetto con Aldimira, scritta per Claudio Bonoldi, tenore baritonale e piuttosto versato nel canto d’agilità stando a quanto previsto soprattutto nella seconda e nella terza aria. Il primo problema nelle parti di tenore baritonale (psicologicamente il cattivo, l’antagonista) è l’accento che deve essere scandito, di chiaro richiamo neoclassico, poi, arriva l’esigenza dell’ampiezza nei cantabili di scrittura molto centrale e la precisione e l’accentazione dei passi di coloratura. Siccome Antonino Siragusa nasce ed è un tenore chiaro di colore, anche se dotato di un buon volume, parte perdente e non è certo stato aiutato perché, quando la scelta è per forza di cose (non ci sono più tenori baritonali) quella che è stata fatta, la parte deve essere provveduta dalla prima all’ultima nota di accomodi, che consentano di simulare le caratteristiche del tenore baritonale ovvero di rendere un servizio al cantante ed all’autore. Autore cui dedicato il Festival !
Basso nel duplice ruolo di Zenovito ee Ulderico ossia Andrea Concetti ingolato e duro. Imitare i bassi russi, come scritto in chat, nelle opere di Rossini è una prodezza e dei comprimari taccio.In Rossini, però, anche i comprimari sono destinatari di numeri solistici e questo è un serio guaio, almeno per gli ascoltatori.
Solo un piccolo appunto: la Sinfonia non è proprio uguale a quella dell´Otello. Il secondo tema è diverso, ed entrambe sono basate sull´introduzione presa da quella del Turco in Italia, con l´assolo affidato all´oboe al posto del corno.
Saluti.
Pubblico di seguito il commento del lettore Cesconegre, che non riesce a inserirlo con la solita modalità. AT
Di ritorno dalla trasferta a Pesaro ove domenica 15 agosto ho assistito alla terza recita del titolo inaugurale del ROF – il Sigismondo -, riassumo qui schematicamente le mie impressioni e valutazioni, meditate attraverso l’ascolto diretto, dal vivo, così da fugare – o eventualmente confermare -, nelle mie possibilità, i dubbi espressi da qualcuno circa la validità e l’affidabilità del mezzo radiofonico.
Procedo mediante una scaletta parlando prima della direzione dell’orchestra e del coro, poi dei solisti e infine dell’allestimento.
A proposito della direzione, tralascio tutti gli aspetti da voi già esaurientemente trattati riguardanti le variazioni e gli abbellimenti che direttore e cantanti semplificano, scrivono male o addirittura ignorano; sono particolari che non abbisognano della visione dal vivo per essere confermati, basta e avanza l’ascolto radiofonico. Anzi, se interessa posso riferire che alla terza recita sotto questo aspetto non si è fatto niente di meglio, e così pure sotto tanti altri aspetti di cui se riesco dirò dopo.
Quel che la mia presenza in teatro mi permette di aggiungere a quanto da voi già osservato è la descrizione della gestualità di Mariotti, gestualità che invero esercita un fascino notevole sul pubblico per via dell’impiego di movenze tanto volatili e aggraziate da arrivare a ricordare quelle di Claudio Abbado, del quale evidentemente il giovane Michele cerca di fare una propria curiosa imitazione. Imitazione della mera forma, sia chiaro, perché se si va alla sostanza si potrà solo constatare quanto invece Mariotti sia del tutto incapace di emulare, ma che dico emulare, anche solo di evocare da lontano il carattere e la fantasiosa creatività del maestro milanese. E difatti l’orchestra ha un suono che non è pulito ma che invece è grattato arido secco vuoto farsesco, i tempi sono neutri e sempre metronomici – salve poi le solite accelerazioni improvvise, sbrigative e sempre uguali in chiusura dei numeri musicali -, routinario è l’accompagnamento al canto, di cui fin da subito emerge la pesante monotonia, i colori sono praticamente banditi, manca del tutto una qualche minima organizzazione delle voci nei concertati, che risultano tutti miseri guazzabugli di voci mal emesse, e che scadono inevitabilmente nella monotonia e nella noia più grigie, in quanto meccanici e ripetitivi nel tempo e nelle dinamiche. Basta solo la sinfonia per rendersi conto dell’inadeguatezza di questo direttore: mai un colore che è uno, frasi melodiche che si susseguono identiche mai variate nella dinamica, incapacità di orchestrare un vero rossiniano ‘crescendo’, solo tante accelerazioni disordinate e pasticcione, interventi dei fiati che a stento si evidenziano sopra quello che dovrebbe essere l’accompagnamento… Ci sarebbe da andare avanti all’infinito, qui solo mi preme segnalare come Mariotti, infine, sia assolutamente incapace di trarre da questa musica il carattere serio che dovrebbe esserle proprio, tanto che non si riesce a capire se quello che si sta ascoltando sia Sigismondo o Cenerentola o il Barbiere o il Turco e via dicendo…
L’orchestra nella buca è soverchiata per metà dalla ribalta del palcoscenico, per cui il suono dei fiati, posizionati in fondo, fatica a riempire il teatro e resta come schiacciato nella buca. A parte questo, resta comunque la netta impressione di un’orchestra imprecisa e sbavante, forse per il basso livello tecnico dei suoi membri, forse per mancanza di preparazione, forse per via del direttore, chissà… L’impressione è comunque quella di un’orchestra di basso profilo, soprattutto se rapportata al contesto di un festival che pretende d’essere un evento musicale di grande prestigio internazionale e prima qualità. Va beh che oggi di voci non ce ne sono più, però francamente da questo ROF ci si potrebbe aspettare qualcosa di più, perlomeno sotto il versante di orchestra direzione e coro.
(1-segue)
A proposito del coro, che in radio suonava così male, posso dire che dal vivo migliora un po’, ma che comunque resta lontano anni luce da quella perfezione accademica che io invece considero imprescindibile in Rossini.
CANTANTI SOLISTI:
Per quanto riguarda la prestazione della protagonista nominale Daniela Barcellona, prima ancora di esprimere una valutazione tecnica vorrei esprimere la mia impressione riguardo le doti presunte di fine dicitrice e raffinata interprete che i tanti critici e i tanti spettatori – stranieri – da anni le attribuiscono. In tutta franchezza, la signora Barcellona ha annoiato tremendamente, risultando sempre uguale a se stessa (lo scorso autunno la sentii quando fece Tancredi: sembrava lo stesso personaggio); l’espressione viene risolta ogni volta con i soliti toni agitati, ansiosi, schizoidi, ansimanti, tant’è che obiettivamente sembra che dica sempre la stessa cosa: dopo cinque minuti di ascolto tutta questa ossessiva ripetitività diventa tediosa, stucchevole. Poi, se ci abbassiamo (o meglio, ci innalziamo: se è la fonte ad essere inquinata come può essere pura l’acqua a valle?) ad un livello più tecnico, i problemi diventano ben più importanti, e soprattutto si appalesano quali causativi delle suddette gravi tare espressive. Infatti la Barcellona, con la scusa di voler rappresentare l’ansia psicotica di Sigismondo – il quale, inutile dirlo, non sembra mai essere un re, ma arriva piuttosto a somigliare ad un adolescente neanche depresso, ma affetto invece da grave ritardo mentale -, risolve la propria parte in un ‘canto’ fatto di suoni sempre sospirati, boccheggianti, gutturali, fibrosi, pieni d’aria e privi di corpo, dai quali inevitabilmente scaturisce una linea frastagliata e priva di musicalità, vista l’assoluta incapacità d’eseguire un autentico legato. La coloratura e le agilità (nel Sigismondo nemmeno tanto trascendentali) sono eseguite con grande spreco di fiato, senza il controllo del quale è inevitabile che dalla bocca esca tanta aria calda e poco misero suono. E difatti nei passi d’agilità le note sono tutte staccate, aspirate, e l’aria che si sente tra una nota e l’altra risulta davvero fastidiosa oltreché antimusicale. E anche nei momenti – pochi – in cui Sigismondo deve cantare per davvero, la voce della Barcellona non riesce mai a librarsi nello spazio della sala ma è sempre come prigioniera di una gola rigida ed isterica, chiusa come la sua bocca, dalla quale escono solo suoni tesi, duri, piatti (se vi piace la sinestesia, a me la voce della Barcellona evoca il colore e la consistenza tattile di una rozza porcellana biancastra, semilucida e graffiata). Non si è mai sentito un solo suono uscire ampio e arricchito dalle cavità dei risuonatori facciali, mai un canto sciolto e legato, nemmeno in quei pochi punti in cui la parte lo prevede. Quella voce è sempre ingabbiata, come trattenuta, non riesce mai ad ergersi libera, sul fiato, e ad espandersi rotonda in alto. Alla fine quindi, oltre alla noia straziante, anche un senso di insoddisfazione per non aver potuto godere di una voce che invero dà l’idea di poter essere assai bella se solo venisse bene educata.
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Olga Peretyatko: qui senza mezzi termini mi permetto di dire che la radio non solo non peggiorava niente, ma anzi falsava in meglio la prestazione della cantante russa. In teatro questo soprano dalla voce piccola e assai poco bella – il fisico ed il volto sono da top model, ma Olga fa la cantante non la velina – si riusciva a stento ad udire: un flauto bastava a coprirla. Gli acuti sono stridenti (certo non ai livelli della Moreno), tutti presi a fatica in un pianissimo ingolato e tagliente, la coloratura è imprecisa e vistosamente sfiatata, il suono è stretto e schiacciato, incapace di espandersi attraverso l’impiego dei risuonatori – difatti, non scherzo, l’accompagnamento di un paio di violini bastava a renderla del tutto inudibile, acuti strillacchiati a parte, ovvio -, la dizione è pasticciata, e va così a mortificare un fraseggio in cui si percepisce invece una qualche intenzione – che solo intenzione resta però – di variare l’accento e di ricercare sfumature, un’intenzione lodevole anche se disattesa, e che invece è del tutto assente nell’ossessiva monotonia della collega Barcellona. In definitiva, un’Aldimira dall’aspetto angelicato ma dalla voce inadeguata e soprattutto male impostata. Ha fatto un po’ meglio nei passi d’agilità dell’aria del second’atto, dove il suono è sembrato acquisire un po’ più di corpo e dove l’appoggio è sembrato più sicuro. La prestazione nel complesso evidenzia comunque una cantante non degna di calcare i palcoscenici di un festival così blasonato.
Andrea Concetti è colui che più di tutti mi ha fatto angosciare: penoso, sgraziato, noioso, ingolfato, legnoso, stomachevole, vergognoso: INASCOLTABILE. I pochi elementari passi vocalizzati hanno stimolato più il mio naso che non le mie orecchie; l’emissione così scorretta ed infossata produce suoni che sanno di fumo ed evocano indigestioni di stomaco; nei pezzi concertati, quando non era completamente inudibile, Concetti latrava come un vecchio cagnone sfiancato. La tecnica problematica per non dire inesistente gli preclude tra l’altro qualsiasi sfumatura d’accento e di dinamica, ed il risultato, quindi, nel complesso o nel particolare, è un’autentica vergogna.
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Antonino Siragusa: è scontato dire che l’unica voce e l’unico artista sul palco la sera di Ferragosto era lui. Si badi bene, Siragusa in natura non è che un leggero tenorino contraltino o poco di più. Eppure la sua era l’unica voce capace di riempire il teatro, che cantasse stando sulla ribalta o sul fondo della scena, la sua voce piena e sonora arrivava alle orecchie che era una meraviglia. E’ risultato sempre udibilissimo a tutte le altezze, anche nelle note più gravi, dove, se è vero che l’impaccio era assai evidente, tuttavia non mancava mai il giusto sostegno e proiezione. Al centro poi – a grandi linee in zona LA2-FA3 – la sua voce acquisiva uno spessore violento, entusiasmante, probabilmente dovuto però ad un’emissione piuttosto spinta ed appesantita che, se contribuisce a rendere meglio una parte centrale come questa, per contro finisce con il procurare al tenore siciliano un evidentissimo vuoto a partire dal passaggio di registro e nei primi acuti, un vuoto cui Siragusa di questi tempi cerca di ovviare inventandosi un’emissione diversa, un diverso modo di far risuonare la voce che risulta quindi fastidiosamente disomogenea anche se sempre sicura e ben udibile. In più la parte di Ladislao è molto parca per non dire priva di acuti estremi, per cui Siragusa non ha mai modo di sfogare la propria natura di contraltino, se non in qualche veloce acuto interpolato dove la sua voce, superata la fascia SOLb-SIb, inizia a riacquistare una certa lucentezza. Comunque sia, Siragusa sfrutta questo strapotere vocale nel medium per scolpire i recitativi in un declamato vibrante ed autoritario ma al tempo stesso molto musicale, adottando un fraseggio come suo solito chiaro e scandito, colorato da un accento misurato e contenuto ma assai appropriato e, proprio perché estraneo alle stucchevoli esagerazioni della Barcellona, assai efficace. I passi di agilità sono risolti con un’emissione alleggerita ma sempre salda e sicura, da cui una coloratura quadrata, precisa, scorrevole. I momenti in cui Siragusa dà il meglio di sé sono però i quartetti nei due finali e la sezione cantabile dell’aria del second’atto “Giusto ciel che i mali miei”, dove il tenore siciliano stupisce ed emoziona adottando un’emissione aerea e leggerissima su cui fa galleggiare una mezzavoce delicatissima e trasognata. L’aria del second’atto, così sussurrata a fior di labbro, è risultata di gran lunga il momento migliore della serata, un autentico e squisito momento rossiniano. Nei quartetti e nei concertati dei due finali, tra la perfetta inudibilità della gutturalissima Barcellona, gli umori fognari di Concetti e gli strilletti della Peretyatko, Siragusa ci ha deliziati mantenendo anche qui la dinamica sfacciatamente sospesa tra il piano ed il mezzoforte, ed è molto significativo osservare come quella lievissima mezzavoce emergesse autorevolmente in primo piano elevandosi nella sua svettante aereità al di sopra di quel minestrone indigesto di voci abortite ed attraversando lei sola, come un dardo, tutto lo spazio della sala, per giungere con impressionante chiarezza di suono di linea e di dizione alle orecchie di tutti gli spettatori (io tra l’altro ero ben distante dal palcoscenico, al quale mi trovavo di fronte nel terz’ordine di palchi, imprigionato sul fondo dietro a due file di sedie). Ascoltando le buone maniere vocali di Siragusa e confrontandole con il non-canto dei suoi colleghi, la domanda sorgeva spontanea: chi sarebbe il cattivo?? In definitiva quindi, tutti i miei complimenti a Siragusa per questa sua maiuscola prestazione, che lo appalesa, ripeto, quale unico serio professionista della serata. Se non fosse stato per lui non sarebbe valsa nemmeno la pena di andare a Pesaro.
Per quanto riguarda infine i comprimari Enea Scala e Manuela Bisceglie, non voglio sprecarmi in eccessivi commenti: si consideri quanto ho detto a proposito di Concetti e della Peretyatko e lo si elevi all’ennesima potenza, basterà per farsi un’idea del malcanto di questi due impostori sprovveduti.
(4 – segue)
REGIA
Sigismondo è già di per sé un’opera infelice, noiosa, assurda, insensata, priva d’azione, teatralmente un autentico aborto. La regia di Damiano Michieletto riesce nell’impresa che io pensavo impossibile di rendere la vicenda ancora più lenta e tediosa, e, soprattutto, ancora più incomprensibile. Un unico cambio di scena tra un atto e l’altro: il primo ambientato tra i letti allineati del dormitorio di un manicomio, il secondo in quella che inizialmente pare una sala da pranzo in disuso con sedie e tavoli ricoperti di lenzuola contro la polvere, e che poi invece si rivela essere quella che a me è parsa come la sala del consiglio amministrativo della clinica – sala del consiglio che, secondo la visione del regista e dello scenografo, corrisponderebbe alla corte reale di Sigismondo -. Una rete metallica segna sul fondo il confine dei due ambienti, a significare credo lo stato di prigionia in cui sono reclusi i pazienti e la loro appartenenza ad un mondo altro, incomunicabile con quello dei sani di mente. L’atmosfera al prim’atto ricorda l’ambientazione del pluripremiato film ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, vista l’assoluta prevalenza del colore bianco e l’impiego della luce chiara neutra e naturale che contribuisce a rappresentare l’asettico ambiente ospedaliero. La trovata del manicomio, a dire il vero nemmeno tanto originale, risulta abbastanza compatibile con la sequenza iniziale dell’opera, che vede tutti preoccupati per l’integrità mentale del re colto da delirio. Poi però continuare a non rispettare le indicazioni didascaliche del libretto significa dar luogo ad inspiegabili incongruenze e contribuire a creare confusione nel pubblico: Sigismondo allora non è più un re in preda al delirio ma è invece un demente compulsivo dedito a gesti che hanno dell’osceno e preda facile dei soprusi degli altri internati; Aldimira è una specie di fatina che all’insaputa dell’amato va a fargli visita in manicomio mentre questi dorme sedato; Zenovito è il medico psichiatra che dirige la clinica ed Ulderico una specie di barbone spuntato dal nulla, mentre Ladislao e Radoski non si capisce quale ruolo svolgano, e lo stesso vale per Anagilda. Il tutto poi condito con i versi ripugnanti ed i gesti osceni e grotteschi dei figuranti nei panni dei pazzi internati – con l’effetto inevitabile di rendere il tutto assai ridicolo; mi si creda, il prim’atto sembrava una comica, altroché dramma serio, e a dimostrazione di ciò bastava osservare le risate trattenute e gli occhietti divertiti dei tanti spettatori orientali in sala: quindi non solo viene completamente tradito il carattere serio della musica, ma addirittura si trasforma la vicenda in una sorta di parodia tragicomica in stile horror del film di Jack Nicholson e Louise Fletcher -; a ciò si aggiungano le divise in stile Germania nazista del personale sorvegliante il manicomio – luogo comune trito e ritrito, non se ne può davvero più – e si avrà allora un’idea abbastanza compiuta del noiosissimo ed insensato guazzabuglio registico cui si è assistito. Si consideri poi che la miriade di figuranti impiegati sulla scena, ciascuno impegnato continuamente in un proprio divertente siparietto da pazzoide, non faceva altro che distrarre l’attenzione dalla musica e dal canto, che venivano quindi ridotti a mero accompagnamento, sottolineatura drammatica delle gesta disperate dei matti ricoverati. Il parallelismo con il cinema dei nostri giorni è inevitabile: come oggi abbiamo film che nascono ideati in funzione solo degli effetti speciali, così il teatro lirico vede la musica ed il canto essere relegati al rango di pertinenze al servizio delle regie, e non viceversa come invece dovrebbe essere. Anziché esserci registi che servono la musica, oramai è la musica i registi a servire.
(5 – segue)
Per concludere, un appunto a proposito del pubblico che riempiva la sala del teatro, la sera di Ferragosto. Non esagero se dichiaro che, in mezzo a cotanti stranieri (per lo più orientali, ma anche inglesi, francesi, tedeschi, olandesi), io mi sentivo un apolide disperso in una terra lontana lontana. Questo faccia riflettere sul fatto che, mentre la nostra cultura viene amata ammirata ed invidiata in tutto il mondo, gran parte degli italiani invece, malati cronici di esterofilia, da anni preferisce optare per un intrattenimento che qualche idiota definisce ‘più godibile’: Italia’s Got Talent, xFactor, Grande Fratello e boiate varie… Il pubblico di stranieri che popola il festival pesarese è fatto invece di appassionati autentici e convinti: in teatro non volava una mosca, si poteva quasi tastare con le dita l’eccitazione e l’interesse di queste persone che, compiaciute, si scambiavano sguardi d’intesa quando riconoscevano nella musica eseguita i temi, le melodie, i motivi famosi già sentiti in opere più note, mostrando quindi anche una certa preparazione. Dunque, un pubblico di veri appassionati, pronti a fare il giro del mondo per godere dei nostri decadenti teatri e della nostra gloriosa tradizione musicale. Un pubblico tuttavia molto ingenuo, un pubblico che non ha memoria storica di quello che fu l’autentico canto all’italiana, un pubblico inconsapevole di cosa voglia dire veramente cantare perché estraneo alla cultura del belcanto, un pubblico che, con disarmante ingenuità, ogni anno determina il successo di questo festival; un pubblico prezioso quindi, di cui il ROF, tristemente, non fa altro che prendersi gioco, allestendo spettacoli che fanno a dir poco orrore, spettacoli che disonorano la memoria di Rossini, e che, oltre a deludere le aspettative di un appassionato esigente quale io ad esempio sono, tradiscono e deridono la fiducia inconsapevole degli spettatori più sprovveduti.
Ancora una volta quindi, un sonoro BRAVO a Siragusa, unico serio professionista di tutto il festival, il solo capace di cantare, il solo artista oggi degno di Rossini, giustamente applaudito dal pubblico entusiasta. Sul resto, stendiamo un velo pietoso di vergogna.
Cesconegre
Come dissi in chat giorni fa (non potendo scrivere qui) non riesco a capire come possa essere Siragusa così sopravvalutato. Io l'ho trovato al limite dell'inascoltabile. Il suo non è strapotere vocale è urlare.
"L’emissione aerea e leggerissima su cui fa galleggiare una mezzavoce delicatissima e trasognata" altro non è che un piatto falsetto. Gli acuti sono schiacciati e indietro, aggrediti malamente e di qualità veramente pessima. Il personaggio è piatto come il suo canto. Il peggiore della serata per quello che mi riguarda e l'unico che ha ricevuto un timido dissenso (con la pletora di amici che aveva in teatro sarebbe stato impossibile protestare per una prestazione del genere).