Il Comunale di Bologna affida come di consueto ai propri cadetti l’onore e l’onere dello spettacolo estivo. Le passate stagioni i titoli prescelti erano stati L’Olimpiade di Leonardo Leo e Madama Butterfly. Quest’anno, modestia e prudenza hanno consigliato alla dirigenza felsinea di orientare gli allievi della locale Scuola dell’Opera verso titoli un poco più abbordabili: la Serva padrona e un’operetta di Offenbach, Pomme d’Api. Titoli peraltro deliziosi e degni di grande considerazione, e che esigono organici e abilità vocali ed espressive, che con maggiore facilità possono trovarsi in un “vivaio” ovvero conservatorio di livello almeno accettabile.
Certo i brutti cattivi e prevenuti compilatori del Corriere sono all’occasione sfiorati dal dubbio che la modestia e prudenza della scelta siano dettate dall’oggettiva impossibilità, da parte del teatro bolognese, di servirsi delle forze di spicco della Scuola, attualmente impegnate in quel di Martina Franca a infondere nuova vita a titoli dimenticati (in primo luogo da sovrintendenti e direttori artistici) del Belcanto.
Il dubbio cresce, si rafforza e si sostenta col leggere sul programma di sala che il dittico Pergolesi-Offenbach costituisce una produzione con svariati istituti teatrali di primo piano (Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, dove peraltro l’opera del genius loci sarà presentata nella sua versione francese, Teatro Rossini di Lugo, Festival della Valle d’Itria, appunto, Fondazione Teatro Due di Parma, IUAV di Venezia) e che quindi accampa con qualche fondata ragione (specie economica) pretese di eccellenza, che esulano dall’ambito di normale competenza di una recita scolastica.
Come spesso accade il risultato in teatro confligge pesantemente con le ambizioni annunciate dal cartellone e induce ad alcune riflessioni.
La prima è che le voci gravi sono estinte o quasi, e non per insondabili misteri di natura, ma per schietti problemi tecnici. Nella Serva il prescelto Uberto, Davide Bartolucci (che approda al ruolo avendo già sostenuto nello stesso teatro parti ben più consistenti, non ultima quella del dottore Malatesta), ha voce non già di baritono Martin, ma di schietto tenore, di contenuto volume perché di insufficiente proiezione, bianca e ‘tirata’ in acuto (i fa dell’aria “Sempre in contrasti”), al limite dell’udibile in basso (aria “Sono imbrogliato io già”), sempre meno ferma e stabile con il passare dei minuti e l’aumentare della fatica. Inoltre, forse per scelta registica, spesso la linea vocale si piega ad effetti di semplice parlato, non solo nei recitativi ma anche nelle arie (“or questo basti, basti, BASTI!”). Peccati veniali, o quasi, di fronte alla performance di Mattia Campetti, che dopo essere stato un torvo e simpatico Vespone nella Serva passa al ruolo del celibatario incallito di Pomme d’Api, cantando l’elementare parte con voce ingolfata e cavernosa, traballante almeno quanto il francese esibito nei dialoghi parlati. La disinvoltura dell’attore non fa che sottolineare la scarsa tenuta del cantante.
La seconda riflessione riguarda la componente femminile dello spettacolo, che pur esibendo doti vocali più interessanti rispetto alla controparte maschile non è stata comunque all’altezza (non insormontabile) del compito. Lavinia Bini, in particolare, pur con uno strumento di tutto rispetto (nei duetti faceva scomparire il partner), ha emesso suoni poco o nulla appoggiati, in un’imitazione (non sappiamo dire se conscia o inconscia) di quello che oggi passa per modello vocale della categoria del soprano di coloratura, Diana Damrau. Il risultato è che nell’aria “Stizzoso mio stizzoso” basta un semplice la acuto (che per un soprano, che in natura sarebbe assoluto, è una nota centrale o quasi) per indurre la Bini a emettere suoni più vicini allo strilletto che al canto lirico. Quanto alla tenuta complessiva, dopo una prima parte affrontata con l’ausilio della vigorosa natura, il soprano ha cantato con voce molto meno sonora l’arietta patetica “A Serpina penserete”, parodia della vocalità dell’opera pastorale, finendo per indebolire la scaltra seduzione attuata dalla servetta. Anna Maria Sarra, in Pomme d’Api, ha cinguettato graziosamente la parte di Catherine, di scrittura prevalentemente centrale e quindi poco o nulla udibile già dalla metà della non foltissima platea. Entrambe le signorine sono spigliate nella recitazione (pur con qualche incertezza da parte della Sarra nelle primissime scene dell’operetta), ma come per i signori, anche questa è lungi dall’essere una circostanza attenuante circa la tenuta del loro canto.
Un discorso a parte merita Francisco Brito, che canta la parte del tenore in Pomme d’Api con eleganza, ma anche con voce debolissima al centro, più sonora ma anche chévrotante e di dubbia intonazione nelle parche escursioni all’acuto (con un paio di puntature discutibili, per gusto ma soprattutto per risultato), legato poco o nulla consistente. Anche in questo approccio all’archetipo del tenore di grazia non si fatica a rintracciare un modello, quello di Juan Diego Florez. Del resto non è strano che un giovane cantante tenti di imitare il più quotato tenore belcantista del mondo. Sarebbe peraltro compito dei suoi tutori proporre al giovane cantante altri e diversi modelli di canto.
Alla testa dell’orchestra del Comunale in formazione da camera, Salvatore Percacciolo ha diretto con poca verve e qualche sbavatura (specie nell’intermezzo pergolesiano), senza rendere un grande servizio alla musica. Forse un direttore più navigato avrebbe saputo trarre maggiore partito dai virgulti della Scuola dell’Opera.
Allestimento anche questo “accademico” (scene di Giada Tiana Claudia Abiendi e Lucia Ceccoli, costumi di Massimo Carlotto, Manuel Pedretti, Vera Pierantoni Giua, luci di Daniele Naldi, regia di Stefania Panighini), decisamente cupo per la Serva, vista come un triangolo erotico fra il morbosetto e lo psicanalitico (Carsen?), ugualmente minimalista ma più scanzonato e ammiccante – e quindi ben più rispettoso del testo – per Pomme d’Api.
Pubblico poco folto (malgrado sconti e biglietti omaggi generosamente profusi su Facebook, erano pieni – ma lungi dall’essere esauriti – solo il primo ordine dei palchi e la platea) e successo di cortesia al termine della rappresentazione.
Certo i brutti cattivi e prevenuti compilatori del Corriere sono all’occasione sfiorati dal dubbio che la modestia e prudenza della scelta siano dettate dall’oggettiva impossibilità, da parte del teatro bolognese, di servirsi delle forze di spicco della Scuola, attualmente impegnate in quel di Martina Franca a infondere nuova vita a titoli dimenticati (in primo luogo da sovrintendenti e direttori artistici) del Belcanto.
Il dubbio cresce, si rafforza e si sostenta col leggere sul programma di sala che il dittico Pergolesi-Offenbach costituisce una produzione con svariati istituti teatrali di primo piano (Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, dove peraltro l’opera del genius loci sarà presentata nella sua versione francese, Teatro Rossini di Lugo, Festival della Valle d’Itria, appunto, Fondazione Teatro Due di Parma, IUAV di Venezia) e che quindi accampa con qualche fondata ragione (specie economica) pretese di eccellenza, che esulano dall’ambito di normale competenza di una recita scolastica.
Come spesso accade il risultato in teatro confligge pesantemente con le ambizioni annunciate dal cartellone e induce ad alcune riflessioni.
La prima è che le voci gravi sono estinte o quasi, e non per insondabili misteri di natura, ma per schietti problemi tecnici. Nella Serva il prescelto Uberto, Davide Bartolucci (che approda al ruolo avendo già sostenuto nello stesso teatro parti ben più consistenti, non ultima quella del dottore Malatesta), ha voce non già di baritono Martin, ma di schietto tenore, di contenuto volume perché di insufficiente proiezione, bianca e ‘tirata’ in acuto (i fa dell’aria “Sempre in contrasti”), al limite dell’udibile in basso (aria “Sono imbrogliato io già”), sempre meno ferma e stabile con il passare dei minuti e l’aumentare della fatica. Inoltre, forse per scelta registica, spesso la linea vocale si piega ad effetti di semplice parlato, non solo nei recitativi ma anche nelle arie (“or questo basti, basti, BASTI!”). Peccati veniali, o quasi, di fronte alla performance di Mattia Campetti, che dopo essere stato un torvo e simpatico Vespone nella Serva passa al ruolo del celibatario incallito di Pomme d’Api, cantando l’elementare parte con voce ingolfata e cavernosa, traballante almeno quanto il francese esibito nei dialoghi parlati. La disinvoltura dell’attore non fa che sottolineare la scarsa tenuta del cantante.
La seconda riflessione riguarda la componente femminile dello spettacolo, che pur esibendo doti vocali più interessanti rispetto alla controparte maschile non è stata comunque all’altezza (non insormontabile) del compito. Lavinia Bini, in particolare, pur con uno strumento di tutto rispetto (nei duetti faceva scomparire il partner), ha emesso suoni poco o nulla appoggiati, in un’imitazione (non sappiamo dire se conscia o inconscia) di quello che oggi passa per modello vocale della categoria del soprano di coloratura, Diana Damrau. Il risultato è che nell’aria “Stizzoso mio stizzoso” basta un semplice la acuto (che per un soprano, che in natura sarebbe assoluto, è una nota centrale o quasi) per indurre la Bini a emettere suoni più vicini allo strilletto che al canto lirico. Quanto alla tenuta complessiva, dopo una prima parte affrontata con l’ausilio della vigorosa natura, il soprano ha cantato con voce molto meno sonora l’arietta patetica “A Serpina penserete”, parodia della vocalità dell’opera pastorale, finendo per indebolire la scaltra seduzione attuata dalla servetta. Anna Maria Sarra, in Pomme d’Api, ha cinguettato graziosamente la parte di Catherine, di scrittura prevalentemente centrale e quindi poco o nulla udibile già dalla metà della non foltissima platea. Entrambe le signorine sono spigliate nella recitazione (pur con qualche incertezza da parte della Sarra nelle primissime scene dell’operetta), ma come per i signori, anche questa è lungi dall’essere una circostanza attenuante circa la tenuta del loro canto.
Un discorso a parte merita Francisco Brito, che canta la parte del tenore in Pomme d’Api con eleganza, ma anche con voce debolissima al centro, più sonora ma anche chévrotante e di dubbia intonazione nelle parche escursioni all’acuto (con un paio di puntature discutibili, per gusto ma soprattutto per risultato), legato poco o nulla consistente. Anche in questo approccio all’archetipo del tenore di grazia non si fatica a rintracciare un modello, quello di Juan Diego Florez. Del resto non è strano che un giovane cantante tenti di imitare il più quotato tenore belcantista del mondo. Sarebbe peraltro compito dei suoi tutori proporre al giovane cantante altri e diversi modelli di canto.
Alla testa dell’orchestra del Comunale in formazione da camera, Salvatore Percacciolo ha diretto con poca verve e qualche sbavatura (specie nell’intermezzo pergolesiano), senza rendere un grande servizio alla musica. Forse un direttore più navigato avrebbe saputo trarre maggiore partito dai virgulti della Scuola dell’Opera.
Allestimento anche questo “accademico” (scene di Giada Tiana Claudia Abiendi e Lucia Ceccoli, costumi di Massimo Carlotto, Manuel Pedretti, Vera Pierantoni Giua, luci di Daniele Naldi, regia di Stefania Panighini), decisamente cupo per la Serva, vista come un triangolo erotico fra il morbosetto e lo psicanalitico (Carsen?), ugualmente minimalista ma più scanzonato e ammiccante – e quindi ben più rispettoso del testo – per Pomme d’Api.
Pubblico poco folto (malgrado sconti e biglietti omaggi generosamente profusi su Facebook, erano pieni – ma lungi dall’essere esauriti – solo il primo ordine dei palchi e la platea) e successo di cortesia al termine della rappresentazione.
Tamburini, più che un sorbetto questo assomiglia a un Fernet!
Scherzi a parte, se le cose stanno così, c´è da disperare dell´avvenire, oltre che del presente…
Saluti.