Lohengrin: un borghese piccolo, piccolo

Il Festival di Bayreuth quest’anno si aprirà con un’attesissima nuova produzione di “Lohengrin” curata dal regista Hans Neuenfels e la direzione di Andriis Nelsons; ma la vera attrazione di questa inaugurazione sarà la presenza nel ruolo del titolo del “primo tenore del mondo”, ovvero quel Jonas Kaufmann che ultimamente abbiamo ascoltato come Werther, Don Carlo, Don José e Cavaradossi.
In attesa del suo debutto sulla Sacra Collina, che avverrà a minuti e sicuramente sarà sensazionale e di una portata tale da invertire, come minimo, i poli terrestri, prepariamoci all’invitante avvenimento, analizzando il suo primo approccio con il cavaliere del cigno contenuto in un DVD, tratto da uno spettacolo monacense del 2009, che la Decca ha prontamente immortalato.

Quando Richard Wagner nel 1848, due anni prima della messinscena a Weimar, terminò la composizione del “Lohengrin”, il libretto vergato dal compositore medesimo recitava nel sottotitolo: “Romantische Oper in drei Aufzügen”, Opera romantica in tre atti.
Un secco “No!” avranno pensato all’unisono Kent Nagano e soprattutto il regista Richard Jones quando sono stati chiamati ad allestire l’opera nel luglio 2009 a Monaco di Baviera. Una negazione scaturita dall’attenta analisi del libretto e della partitura, grazie alla quale i due hanno finalmente compreso il vero messaggio che Wagner voleva trasmettere ai posteri; una verità scomoda, che ovviamente in quella metà dell’800 non poteva essere colta dal pubblico e quindi opportunamente camuffata da “magico e favolistico medioevo romantico”. Grazie al cielo tale “menzogna”, attraverso i loro metafisici, sociologici e politici ragionamenti, oggi può essere smentita: “Lohengrin” non è affatto ciò che pensavamo, ma in realtà è la noiosa storia di una catatonica operaia ossessionata dall’edilizia, che, accusata ingiustamente dell’omicidio del proprio fratello, trova marito e viene da questi abbandonata, perché frigida!
Scherzi, ma non troppo, a parte, questa è in sintesi, la storia che il duo Nagano-Jones ci narra. Una lettura superficiale la mia, ma che approfondirò cercando di raccontare al meglio questa scottante verità in cui solo il buon Jones e pochi altri, vista la risposta burrascosa del pubblico, hanno fermamente creduto.

I punti di partenza del regista sono:
1) L’aspetto politico tedesco, attraverso l’analisi del “Lohengrin” andato in scena a Bayreuth nel 1936 (Völker, Müller, Prohaska, Klose, Furtwängler: altri tempi!), anno di grandi celebrazioni (le Olimpiadi in Germania, il millennio di Re Enrico l’Uccellatore, il sessantesimo anniversario di Bayreuth) in una Germania, ed in una Bayreuth, già nazionalsocialista e irreggimentata, che tanto entusiasmò Hitler e che il cancelliere propose al Covent Garden come regalo, rifiutato, per l’incoronazione di Re Edoardo VIII.
2) L’aspetto sociale del “self-made-man”, ovvero colui che attraverso le proprie forze riesce a guadagnarsi un posto nella borghesia, e dunque la sua accettazione da parte della comunità, avendo come fine la creazione di un nucleo familiare.

Ancora questi nazisti in un’opera di Wagner? Già, “avanguardia pura”!
Gli interessanti spunti affrontano addirittura le problematiche della Germania post-dittatura, decapitata e senza identità, in cui Elsa, invasata dal pensiero di costruire da sola la propria casa e quindi la propria posizione sociale, in realtà sta costruendo un nuovo ordine politico in contrapposizione con il vecchio rappresentato dal piccolo Gottfried e da Re Heinrich, trascinando in questo progetto sia Lohengrin, uomo qualunque, ma probabilmente soprannaturale, che vuole abbandonare la propria condizione di “superuomo” per farsi accettare dalla donna amata e dagli uomini, sia il popolo che condivide tali ideali nonostante l’iniziale diffidenza.
Che mal di testa eh, ma andiamo con ordine:
Sotto un pontile di ferro con doppia rampa di scale, Elsa, un’operaia edile, disegna con un tecnigrafo la propria casa, ovvero l’incarnazione del proprio sogno borghese e dunque della “Nuova Germania”.
Al termine del preludio la donna sparirà dietro un anonimo muro grigio; due porte ai lati e decorazioni araldiche sopra di esse, dovrebbero darci l’idea di un luogo destinato ad accogliere popolo e personalità di potere per proclami pubblici e discussioni politiche.
L’araldo, su una postazione simile a quella degli arbitri di pallavolo, pronuncia i suoi proclami da un microfono e viene ripreso da una telecamera che proietta la sua immagine in uno stretto cerchio in alto.
Mentre il Re avverte il popolo ed i soldati in divisa brabantina dell’imminente minaccia degli Ungari, Elsa attraversa più volte la scena trafficando con alcuni mattoni e creando un certo imbarazzo nel coro.
Inutilmente Telramund, durante la sua accusa, tenterà di bloccarle il cammino e sarà lui stesso a mostrare l’immagine dello scomparso Gottfried su un foglio in cui campeggia la scritta “Vermisst” (Scomparso), che ritroveremo più tardi tra le mani di Elsa, ma anche appeso sui muri laterali del palcoscenico, il tutto sotto lo sguardo della signora Telramund, una Ortrud beffarda e curiosa in elegante tailleur grigio e ridicola chioma bionda stile Raffaella Carrà anni ’80.
Elsa, invece di partecipare al processo, vorrebbe prendere altri mattoni; le verrà giustamente impedito e da questo momento in poi la povera Harteros attraverserà l’opera con il medesimo sguardo perso e contratto, completamente indifferente nella lentezza dei suoi gesti. Ve l’immaginate una imputata che durante la discussione di un processo per omicidio a suo carico sembra sempre sul punto di esclamare: “Scusi Vostro Onore, ma devo prendere la cazzuola”?
La narrazione del sogno di Elsa farà materializzare il cantiere della casa in costruzione che ben presto l’operaia raggiungerà per continuarne l’edificazione, mentre Telramund si limiterà a prendere a calci i mattoni del basamento senza che nemmeno un osso dei piedi si frantumi… Ah, già, “la caducità del sogno di Elsa”… certo, certo…
Al secondo proclama dell’Araldo, non giungendo alcun salvatore, Elsa verrà issata su un rogo formato da… mattoni e poche assi di legno bagnati di benzina; più che bruciarla sul rogo la si vuole cuocere! Ah già, perdonate, il rogo è simbolico… la condanna della società… certo, certo…
Lohengrin finalmente avanza tra bagliori accecanti percepiti solo in scena, Elsa si libera dalle ritorte e appare l’eroe: Kaufmann!
Un Lohengrin in jeans e maglietta azzurra, vagamente trasandato, che sostiene tra la mani il cigno; il povero pennuto, così come viene presentato, ricorda un tacchino pronto per essere spennato e farcito. A peggiorare le cose il particolare che Kaufmann per dare l’illusione che la testa del cigno si muova è costretto a praticargli un esame prostatico!
Una scena surreale!
Depositato il cigno (forse nelle mani di abili cuochi o direttamente nel forno), anche Lohengrin si dimostra degno sposo di Elsa quanto a espressività, così tutti i bei discorsi su amore, il nome e le lotte politiche risultano del tutto inconcludenti di fronte a due esseri perfettamente imbalsamati che addirittura accennano ad un casto bacio.
Lohengrin viene tosto assunto in cantiere! Che romanticona questa Elsa!
I tre nobili sassoni (che dovrebbero essere sei) con i sacchetti della spesa in testa e quelli per le patatine stile McDonald’s su ogni mano (giuro!) delimitano la scena della lotta e rappresentano un momento registico di rara e intensa comicità.
La lotta è risolta come una azione coreografica: Lohengrin danza letteralmente con la spada in pugno in puro stile anime d’azione giapponese o film del genere “Wuxiapian”, lasciando Telramund interdetto, e con un gesto della mano infiamma l’elsa del rivale sconfiggendolo.
A quel punto il popolo si schiera dalla parte di Elsa la quale è ben lieta di assumere altra mano d’opera visto che ormai anche i più scettici condividono il suo “sogno”.
Fine della crisi e della disoccupazione! Viva Elsa!

Il secondo atto si apre con Lohengrin intento ad imbiancare della legna, al suo fianco una culla, mentre la vita in cantiere avanza speditamente.
Le trombe che secondo Wagner testimoniano le feste a palazzo in realtà sono quelle della pausa per i lavoratori: ora tutto è chiaro!
Telramund (ignoro se per l’onore o perché non ne può più dell’allestimento) vorrebbe suicidarsi con un colpo di pistola; ma Ortrud con commiserazione glielo impedisce irridendolo… peccato!
Lo scellerato giuramento verrà pattuito sul ponte di ferro che sovrasta il cantiere e sarà da quella postazione che i due diabolici coniugi assisteranno al monologo di Elsa, che con la solita espressione, ammirerà il suo sogno che prende forma.
Durante l’invocazione agli dei Ortrud per apparire provata dalla sventura, macchierà il viso ed il tailleur con la calce della betoniera: inutile dire che anche Ortrud verrà assunta come operaia.
Annunciata da quattro voci bianche appare Elsa alla finestra vestita con un candido abito tradizionale, bavarese suppongo, che osserva vagamente soddisfatta la propria casa terminata. Un tavolo con una croce viene portato in scena per il contratto nuziale, un tappeto bianco srotolato, ed il popolo affolla il proscenio lentamente, mentre Elsa ovviamente con lo sguardo perso nell’infinito, seguita da Ortrud, vestita da massaia con tanto di tristissimo grembiulino, assistono alla consegna del cantiere, probabilmente la cosa migliore dell’allestimento, grazie al lavoro dei tecnici che terminano la costruzione della casa a vista: un plauso al loro lavoro.
Il confronto delle due è abbastanza scialbo e senza tensione: il coro non partecipa, le due a mala pena si guardano, Elsa inizia a camminare nervosamente intorno a Ortrud formando rettangoli, ed il duetto finisce per essere un fronteggiarsi tra le due donne occhi negli occhi.
Giunge Kaufmann, anch’egli in abiti tradizionali, ormai più borghese della borghesia; si sbarazza con noncuranza della povera Ortrud e degli sbraiti di Telramund apparso sul balconcino della casa (triste presagio) e sotto l’occhio vigile di una telecamera firma il contratto nuziale con Elsa (Elsa con il proprio nome, Lohengrin con il segno del “visto”).

Nel III atto il coro, che appoggia le idee di Lohengrin ed Elsa, veste con la stessa maglietta azzurra del cavaliere, cuce delle lenzuola per il talamo nuziale, regala alla coppia delle voliere ed una carrozzina e in una stupida coreografia tutta piroette sistema dei fiori fino a formare una frase che Wagner utilizzò per descrivere la sua “Wahnfried”: Hier, wo mein Wähnen Frieden fand, Wahnfried, sei dieses Haus von mir benannt, Qui, dove le mie illusioni trovarono pace, Wahnfried, così chiamo questa casa.
La coppia, a seguito di una serie di rituali propiziatori tradizionali (bere da due tazze insieme e a mani giunte, riempire un vaso di vetro con della sabbia etc.) finalmente può intonare il duetto d’amore.
Elsa ha già perso interesse verso Lohengrin presa com’è dal controllare l’aiuola, le lenzuola, gli infissi e, ci giurerei, i mattoni.
Così abbiamo un Lohengrin che le tenta tutte pur di sedurre la moglie, ed un Elsa catatonica che si nega perché troppo impegnata a compiere il collaudo dell’edificio.
Al termine Elsa salirà sul letto, calpestando il talamo nuziale, farà la domanda fatidica a Lohengrin (più per liberarsi del molestatore che per reale interesse), Telramund interverrà e cadrà esanime ad un gesto del eroe celeste. Scortata Elsa fuori dalla casa, Lohengrin appiccherà fuoco alla culla, il bel sogno borghese infranto, e piangendo nervosamente fuggirà via.
Il finale si svolge davanti al muro araldico. Sul proscenio verrà adagiato il cadavere di Telramund e rimarrà deposto nella stessa posizione fino alla fine come monito: il sogno di Elsa ha fatto un’altra vittima a parte la pazienza del pubblico.
Lohengrin si siederà su quella stessa sedia che accolse il sogno di Elsa per spiegare la propria origine, Elsa proverà a tappargli la bocca, inutilmente.
Torna il povero cigno, Lohengrin si congeda da Elsa, che finalmente piange, e va via non prima di essere stato insultato dalla signora Telramund resa isterica dalla vedovanza.
Lohengrin torna con un bambino vestito di tutto punto alla maniera di Telramund e del Re che rappresenta il vecchio ordine totalitario e abbandona Elsa definitivamente.
Il piccolo Gottfried dopo aver visto il cadavere di Telramund si pone ai suoi piedi di spalle, mentre il coro basito si siede su una distesa di panche o di brandine e compie un insensato suicidio di massa sparandosi in testa (Ortrud inclusa probabilmente visto che anche lei afferra una pistola) ripetendo il gesto che Telramund aveva tentato nel II atto, perché tutte le loro speranze nel futuro, tutto ciò in cui hanno creduto, tutto il sogno borghese e politico si sono infranti con l’abbandono del cavaliere.

Tutto è fastidioso, monotono, grigio, senza immedesimazione, senza emozione, in questo “Lohengrin” rigorosamente destrutturato, in cui la trama diventa un canovaccio scarnificato da rivestire con le gratuite idee registiche del tutto estranee, se non proprio capziose, all’opera romantica ottocentesca, alla tinta wagneriana, alla teatralità stessa della storia; insomma chi è andato a Monaco a vedere un’opera di Wagner si è ritrovato davanti un prodotto vittima della rilettura del signor Jones.
Uno spettacolo semplicemente sbagliato: costumi strampalati e anonimi, scene dal contenuto freddo e distaccato, recitazione monotona, il tutto attraversato da una freddezza di fondo e da una totale mancanza di eleganza che non entusiasmano e che lasciano basiti. Solo fuffa pseudo-intellettuale.

Non fa molto nemmeno la direzione di Nagano completamente simbiotica a ciò che avviene in scena! Il direttore ha tratto ispirazione per la sua lettura della partitura non soltanto da Jones, ma, presumo, dalla direzione dissennata che ne diede Herbert von Karajan, nella, forse, peggiore incisione dell’opera quanto a mancanza di teatralità e tensione narrativa.
Abbiamo, dunque, un suono splendido e avvolgente, ogni nota compitata con lo sforzo di farne una scintilla di bellezza ed allungata all’inverosimile, fraseggi ovunque di cristallina purezza, legati dalla linea pulita; ma che gelo interpretativo, che noia generale, che mancanza di tensione, che cinismo!
Al bel suono infatti non corrisponde alcuna partecipazione emotiva, nessuna emozione trasuda dalle note, tutte preoccupare di essere belle, condite da un’aria mortifera, così episodi capitali come la celebre Ouverture, il sogno di Elsa, i dialoghi tra i Telramund, lo scontro tra le due donne o tutto il terzo atto, non hanno alcuna differenza nella tavolozza di colori di Nagano; tutto grigio, tutto uniforme e monotono, tutto spianato in un Adagio continuo. L’orchestra risponde benissimo alla visione del direttore (e del regista) nonostante qualche palese sforzo e tensione negli ottoni e negli fiati che perdono elasticità nelle note acute.

Si è molto gridato allo sfarzo del cast, al fatto che dagli anni ’70 non si riusciva a mettere insieme un gruppo di cantanti di pari livello; sinceramente ho i miei forti dubbi.

Jonas Kaufmann, non è un Lohengrin eroico, non è sovrumano, non è umano: è solo un borghese piccolo, piccolo.
Possiede il pregio di sforzarsi nel rispettare i segni della partitura, soprattutto per quanto riguarda le forcelle che indicano un rafforzamento del suono, i piani ed i mezzi forti; mentre molto meno sono rispettati il legato, come nel duetto del III atto in cui le frasi che lo prevedono risultano spezzate, le forcelle che portano la voce ai piani vengono in molti casi spianate o “spostate” dal tenore in altri luoghi della frase o del pentagramma, le indicazioni espressive come con solennità, con ardore, allegro molto risultando dunque molto piatte sia quando allontana i due Telramund ed in un momento invece in cui l’erotismo dovrebbe essere presente come nel duetto con Elsa. Il registro centrale e quello basso sono indubbiamente robusti, sonori ed estremamente omogenei, dai colori baritonali e sono i registri in Kaufmann non presenta problemi, funestati però da una emissione tutta tubata e di gola; ma note acute come Sol e La sono sempre ghermite, molto spesso emesse in forte o fortissimo e dunque sforzate, con il vezzo che vengono accompagnate da uno “squittio” che probabilmente serve a mantenere l’intonazione. Gli attacchi poi ai momenti in cui deve dialogare con Elsa, in tutti e tre gli atti, sono tutti fastidiosamente in piano risolti in autentici sbadigli che ritroviamo identici nei due saluti al cigno; mentre “In fernem land” è compitata come se fosse un Lied cameristico senza mistero, senza solennità.

Robotica l’Elsa di Anja Harteros, che sembra abbia inghiottito la partitura ricavandone solo i suoni più o meno giusti per “suonarla” dopo aver premuto il tasto play.
Voce potente, dal solido registro centrale, in natura chiara, ma scurita a forza di artifici di gola, usati al solo scopo di trovare maggiore ampiezza nel passaggio al grave (I atto), o nei momenti di fatica (tutto il III), creando più di una tensione nei numerosi La e Si acuti che vibrano irrigidendosi come dimostra sia nei dialoghi con Ortrud, che in tutto il duetto finale con Lohengrin o che possono risultare fissi se non sostenuti a dovere. Le cose vanno meglio nel primo atto dove l’attenzione del soprano alla gestione della voce e del legato è maggiore e più prudente come dimostra sia in “Einsam in trüben Tagen”, sia nell’aria del secondo “Euch Lüften, die mein Klagen”, ma affossati dalla totale assenza della benché minima traccia di fraseggio, come d’altronde il suo sguardo, inerte come i mattoni con cui si trastulla. Si sforza anche lei di “fare” tutte le note, ma nulla tradisce la sua imperturbabilità. Questa Elsa è assolutamente aderente alla regia di Jones, ma bisogna cercare altrove per trovare la dubbiosa eroina wagneriana.

Wolfgang Koch si iscrive nella folta lista dei Telramund metà parlati e metà urlati, essendo l’ultimo rampollo della folta schiera dei Nimsgern, dei Roar, dei Wlashiha, degli Hillebrandt, dei Fox. La rozzezza dell’emissione, tutta aperta e ingolata, si ripercuote nel fraseggio brado e selvaggio, privando dunque Telramund, apostrofato dal re come “Io ti conosco come il fiore di tutte le virtù”, detentore della fiducia del defunto padre di Elsa, tanto da affidargli i figli, e del popolo brabantino, di quella nobiltà necessaria per farlo apparire credibile nell’accusa, ma anche nel riscatto come indomito condottiero. Le note in basso sono rigorosamente gutturali, risolve con improbabili note acute, fisse e stimbrate, rantoli e stonature di vario genere i momenti più concitati, limitandosi a parlare nel resto. Basta ascoltarlo nel primo intervento davanti al re, o peggio ancora nel delirio del II atto o della sua perorazione contro Lohengrin in cui la scrittura del personaggio viene riadattata ai “rumori” di Koch. Penoso che nel 2010 un personaggio dalle grandi possibilità come Telramund sia ancora visto come la parodia di un cattivo.

Per Ortrud era prevista Waltraud Meier, ritenuta però troppo “vecchia” per il ruolo, che è stato affidato con grande disinvoltura a Michaela Schuster. Probabilmente era meglio la prima opzione, che difatti prenderà, nella ripresa, il posto della Schuster!
Ora, la Schuster mi era piaciuta nella sua interpretazione di Kundry sotto la bacchetta di Barenboim nel 2005; dopo averla ascoltata in Venus (Torino e Vienna) ed Ortrud credo di aver preso un abbaglio.
Il timbro chiaro è facilmente confondibile con quello della Harteros, così tutti i loro duetti diventano quasi monologhi per soprano, quando insistono nel registro centrale. Se scenicamente potrebbe essere plausibile, nonostante una terribile parrucca bionda, il canto urlacchiato, gli acuti aspri e calanti, il parlato in cui si rifugia nel registro grave, l’instabilità complessiva, la rendono una scelta inadatta alla bisogna. A peggiorare le cose ci si mette anche la resa del personaggio interpretato con un fraseggio ad alto tasso di camomilla e calmanti tanta è la paciosità casalinga con cui vengono affrontati tutti i momenti più terribili. Nel duetto davanti alla “chiesa” (casa volevo dire! Mi scusi signor Jones) è talmente dimessa che anche un manichino non avrebbe avuto problemi a metterla a posto.

La parte dell’Araldo è acuta ed insiste sul passaggio, Evgeni Nikitin, che lo interpreta possiede una certa robustezza nel registro centrale ed un buon volume oltre che una maggiore compattezza, se paragonato a Koch ed a Fischesser, ma le note acute (il Mi, il Re, il Fa) si stimbrano irrimediabilmente perdendo elasticità e facendo andare la voce indietro, mentre l’emissione sembra viziata da una patina che rende il timbro come impastato. Sbrigativo, anche se con una parvenza di incisività, l’accento.

Christoph Fischesser, Re Heinrich, sembra più un baritono che vuole imitare un basso che un basso vero e proprio. Gonfia e sforza le note per trovare invano omogeneità e ampiezza, ma la voce si presenta granulosa e sfibrata oltre che totalmente priva di autorità.

Ottime, al contrario le voci del coro, che brilla sia in quelle maschili, ma soprattutto in quelle femminili, capaci di ammorbidire con perizia il suono e di partecipare agli eventi con estrema varietà di fraseggi.
Ovviamente avrebbe meritato una direzione ben diversa.

9 pensieri su “Lohengrin: un borghese piccolo, piccolo

  1. La Meier nella ripresa di quest'anno è semplicemente straordinaria…la questione dell'età mi sembra ridicola applicata ad Ortrud. Semmai con Isolde dovrebbe smettere.
    Per quanto riguarda la Schuster, mi chiedo se alla Brandt non sia venuto il dubbio che tra Venus Kundry e Ortrud passi qualche piccola differenza…

    Per lo spettacolo di Jones dissento da Marianne Brandt, la cui descrizione così frammentata e piena di dettagli non restituisce in modo veritiero quel che arriva in teatro. Piaccia o no l'idea, lo spettacolo di Jones, è molto compatto e lineare, tutt'altro che confuso o disgregato come una descrizione così parcellizzata potrebbe farlo sembrare.
    Concordo invece su Nagano, che infatti secondo me non era molto in sintonia con la regia.

  2. Per me invece era perfetto. Almeno per come sento io Wagner: un titano del passato, proprio perché ancora oggi ci può raccontare il nostro presente.
    Sarebbero le didascalie quelle che si adatterebbero alla sua musica? O che cosa?

  3. @Garcia:
    "Per quanto riguarda la Schuster, mi chiedo se alla Brandt non sia venuto il dubbio che tra Venus Kundry e Ortrud passi qualche piccola differenza…"

    Mio caro, certo che tra le tre c'è qualche differenza, perchè creati per artiste diverse, anche se la tessitura può essere affrontata tanto da un soprano drammatico che da un mezzosoprano acuto come la storia ha ampiamente dimostrato; amo Wagner ed ho analizzato le sue partiture.
    Il problema è che molte interpreti come la Matzenauer, la Branzell, la Thorborg, la Gorr, la Varnay, la Dalis, la Ludwig, la Maier, la Lang (che dovrei risentire) etc. avevano i tre ruoli in repertorio come la Schuster e li cantavano senza colpo ferire e senza farsi troppi problemi o paranoie metafisiche.
    La Schuster semplicemente dal 2005 al 2010 si è ridotta la metà.
    Allora poteva essere una buona scelta per i tre ruoli, ora, in pratica, no.
    Evidentemente sono viziata da chi sapeva cantare 😉

    "Per lo spettacolo di Jones dissento da Marianne Brandt, la cui descrizione così frammentata e piena di dettagli non restituisce in modo veritiero quel che arriva in teatro."

    Sono frammentaria o piena di dettagli? ^_^
    Infatti ho analizzato la testimonianza più vicina al teatro ovvero il DVD, ciò che resterà dello spettacolo.

    "Piaccia o no l'idea, lo spettacolo di Jones, è molto compatto e lineare, tutt'altro che confuso o disgregato come una descrizione così parcellizzata potrebbe farlo sembrare."

    Sono frammentaria, particolareggiata o parcellizzata?
    E dire che pensavo di essere stata prolissa nella descrizione!
    Lo spettacolo è certamente compatto, certamente coerentissimo, ma con la testa di Jones, non con i personaggi di Wagner nè con la musica.
    Questo ovviamente secondo la mia sensibilità.
    Se ti è piaciuto lo spettacolo e ti ha sconvolto la vita mi fa piacere per te.

    "Sarebbero le didascalie quelle che si adatterebbero alla sua musica? O che cosa?"

    Le didascalie le ha scritte Wagner o le ha scritte Jones?
    Il compositore dell'opera sarebbe Jones o Wagner?
    Wagner essendo compositore e librettista penso sapesse perfettamente cosa meglio si adattasse alla propria musica o ai propri scritti non credi.

    Per la cronaca, io adoro il teatro di regia se intelligente, se non si sovrappone al poeta o al compositore e se non grida "Io regista sono più intelligente di chi ha scritto l'opera ed ora vi svelo il perchè!".
    Se Jones o chi per lui voleva fare un SUO Lohengrin bastava ne facesse un SUO riadattamento come Carmelo Bene o Heiner Mueller fecero con Amleto.

    Ho amato regie bellissime e innovative di Lohengrin come quelle create da Herzog o Ronconi ad esempio e sarei curiosa di vedere quella di Warner o Kupfer.

    Marianne Brandt

  4. Caro Mozart2006,
    non conosco il nuovo Lohengrin di Neuenfels, ma conosco altri spettacoli suoi.
    Ecco, prendere Neuenfels (o altri scriteriati registi di questo filone – penso anche a David Alden e la sua Medea in Corinto di San Gallo) a modello di regia avanguardista è semplicemente un modo molto comodo ma grezzo e disonesto per fare di tutta un'erba un fascio e affossare così l'idea che una regia possa essere innovativa e non conservatrice. E' lo stesso procedimento di quelli che con ideologico pressapochismo continuano oggi a dare del fascista a Fini e del comunista a Norberto Bobbio o addirittura a Montanelli.
    Neuenfels con Jones non c'entra proprio nulla. Anzi Neuenfels e chi come lui usa i testi teatrali come pretesti per astrusità che nulla hanno a che vedere con il pezzo di teatro che si presenta, sono paradossalmente molto più vicini a Zeffirelli con la sua Aida scaligera che non a Jones. Perché entrambi gli approcci registici, quello super conservatore e quello dissacratore provocatore, portano soltanto alla mortificazione della vitalità teatrale dei nostri capolavori.

    E' l'umile tentativo di estrapolare delle tematiche universali da queste opere, di scavarne il senso più autentico per la nostra epoca, di interrogarsi sulla incredibilie capacità di parlarci ancora oggi che dovrebbe illuminare una regia. Non la mummificazione, né tantomeno la presa per il c…ehm i fondelli.

  5. @Marianne Brandt

    Non mi pare che la Varnay, pur avendo cantato tutto il Wagner possibile abbia fatto particolari faville in personaggi freschi e sensuali come Venus o Kundry rispetto invece ad Ortrud Brunilde o Elektra. Ma comunque…

    Per quanto riguarda le regie siamo incredibilmente d'accordo quando dici:
    <>

    Evidentemente leggiamo diversamente gente come Jones e Herzog. Il primo secondo me è proprio un esempio di resa innovativa nel rispetto delle coordinate fondamentali e profonde dell'opera. Herzog è invece il classico regista di cinema che pensa che l'opera sia tanto comoda e facile perché tanto c'è la musica, c'è la tradizione, quindi bastano due pennellate di qui, un po' di nebbia di là (non a caso la stessa nebbia che va bene per Lohengrin come per la Donna del lago), due fagiani appesi in fondo, due banali movimenti per non disturbare i cantanti e via così con la più noiosa delle regie possibili. Questo per me è sottrarsi ad un impegno, prendendo però il compenso da grande regista. Eh no…il regista non può limitarsi a sostituire il direttore di scena. Deve inventare qualcosa di intelligente e pertinente. Altrimenti certo, bastano le didascalie che i cantanti possono leggersi da sé.

    (Ma poi sei sicura che Herzog e Kupfer seguano le didascalie??)

  6. Garcia, la Varnay personalmente la apprezzo molto anche come Kundry di cui ha dato un ritratto selvaggio anche se tardivo, ma qui si rientra nella questione dei gusti personali.
    Potrei citarti anche la mia amatissima Gwyneth Jones o Eva Randova per continuare le altre che hanno alternato con successo i tre ruoli e la lista potrebbe allungarsi…

    Certo che leggiamo diversamente registi come Jones e Herzog, in più vorrei sottolineare che la mia citazione su quest'ultimo consisteva nella sola regia del Lohengrin di Bayreuth, come nel caso di Jones che sicuramente ha fatto di meglio rispetto a questa sua "creatura" di Monaco.
    Infatti il Lohengrin di Herzog a Bayreuth non è solo nebbia, non è solo noia, ma tutto ha una coerenza ben precisa con il testo wagneriano.
    La natura stessa diventa protagonista, i personaggi diventano "sacerdoti ciechi" del proprio culto o credo, in quattro maniere diverse, l'apparizione del cigno è strabiliante, commovente, teatralissima, altro che il cappone imbalsamato portato da Kaufmann!
    Purtroppo nel caso di Jones non vedo nè questa innovazione, nè questa intelligenza, nè questi movimenti pertinenti, ma solo egocentrismo intellettuale che si sostituisce alla storia sovrapponendo un proprio film mentale all'autentica vicenda.

    Registi come Kupfer, o Carsen etc. veramente geniali non solo leggono le didascalie, ma le interpretano secondo la propria sensibilità teatrale, e le arricchiscono rivelando cosa ci sia davvero dietro di esse!
    Prendiamo Kupfer:
    Olandese volante ambientato nella mente immaginifica di Senta (come farà Carsen con Elektra); eppure la storia resta quella del libretto, arricchita di particolari di inedita potenza!
    Tristano e Isotta:
    tutti i personaggi sono praticamente ombre che si aggirano in un cimitero monumentale che desiderano ripercorrere la loro storia per essere risucchiati finalmente dalle tenebre.
    L'ambientazione non esiste, ma la storia è esattamente quella del libretto.
    Stesso discorso per RING (capolavoro di coerenza e teatralità), Parsifal, Elektra, Trittico, Die Soldaten, Orfeo ed Euridice!

    Jones invece legge solo le battute e distrugge tutto il resto creando qualcosa di asettico, grigio e terribilmente noioso, per non dire inespressivo.

    A te piacerà e lo troverai innovativo, io lo trovo solo banale e lontano dal vero teatro.

    Marianne Brandt

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