Il 13 dicembre 1938, al Teatro Comunale di Modena, Rosetta Pampanini cantò Donna Leonora de Vargas. Fu la prima e ultima sera in cui la cantante, che era all’epoca, e con fondamento, una delle più reputate voci di soprano lirico del panorama italiano e non solo, affrontò il ruolo della sventurata protagonista verdiana. Alla seconda recita, infatti, la Pampanini fu sostituita da Olimpia de Ruggeri. Erano gli anni in cui la nobildonna spagnola aveva le sue più emblematiche rappresentanti in Gina Cigna e Maria Caniglia. Una voce lirica, sia pur ricca e timbricamente attraente come quella della Pampanini, era evidentemente ritenuta non sufficiente alla bisogna. E, se consideriamo l’assolo del quarto atto registrato dalla Pampanini per la Columbia, anche il gusto interpretativo doveva essere più prossimo a Butterfly e Manon Lescaut che non alla grandiosa eloquenza della primadonna verdiana.
Da quella recita sono trascorsi molti anni e molte primedonne si sono succedute nei panni della infelice, delusa e rejetta Leonora. È, lentamente ma inesorabilmente, tramontato e trapassato il soprano drammatico, presto seguito, sul medesimo sentiero, da quello lirico spinto. C’è stata insomma la famosa liricizzazione verdiana non meno che wagneriana, e molte Mimì ovvero Manon (di Massenet) hanno asceso il sentiero che mena al monastero della Madonna degli Angeli, con esiti più o meno felici a seconda di virtù naturale e sapienza tecnica delle deputate nobildonne de Vargas. Ci siamo deliziati (chi più, chi meno, chi esclusivamente e un poco ottusamente) di timbri lunari, screziature più o meno sapientemente amministrate, filati e filatini ad effetto (effetto sempre meno travolgente via via che emergevano le magagne tecniche, che la freschezza dei mezzi consentiva, almeno in parte di occultare). Soprattutto, sulla scorta di certa critica, ci siamo convinti e persuasi che i soprani drammatici prima della Callas (e magari anche dopo) costituissero un branco di urlatrici scomposte, colpevoli, con la loro discutibile arte, di avvilire e affossare le bellezze della musica verdiana.
Con simili premesse non dobbiamo stupirci di quello che ci troviamo davanti agli occhi, e soprattutto alle orecchie, quando esaminiamo il panorama delle Leonore di Vargas a noi più vicine nel tempo.
Il repertorio di Nina Stemme, Eva-Maria Westbroek e Violeta Urmana è incentrato in prevalenza su ruoli di soprano lirico-spinto e drammatico: ovviamente Wagner (tutte e tre hanno cantato Sieglinde, la Stemme ha affrontato inoltre Senta, Elsa, Elisabeth – come la Westbroek – ed Isotta, ruolo, quest’ultimo, in comune con la Urmana, che ha cantato pure Kundry), ma anche Verdi (la Stemme e la Urmana hanno cantato Aida, la Westbroek ha affrontato l’Otello, il Ballo e il Don Carlos) e qualche titolo verista e pucciniano (Wally, Chénier e Fanciulla per la Westbroek, Tosca, Manon e Butterfly per la Stemme, Tosca, Chénier, Wally, Cavalleria e Gioconda per la Urmana). Delle tre la specialista (se così vogliamo definirla) del Cigno di Busseto è la Urmana, che ha cantato anche Lady Macbeth, Amelia del Ballo, Elisabetta di Valois e persino Odabella, cui vanno aggiunti, retaggio della precedente carriera quale mezzosoprano, la principessa d’Eboli e Azucena.
L’incipit della scena vede la Stemme esibire una voce lirica, di scarso peso in basso, tanto da suonare decisamente soffocata ed ovattata nelle prime frasi, di scrittura marcatamente centrale. In compenso i suoni al di sopra del do centrale sono spinti e ben poco gradevoli a udirsi. Ancora più grave è il fatto che nei primissimi acuti la voce si smagrisce considerevolmente e sul si naturale, come si dice in gergo, “balla”, ossia risulta priva del necessario sostegno e di conseguenza vibra in modo eccessivo. La chiusa del recitativo (“non reggo a tanta ambascia”) evidenzia l’assenza di un legato degno di questo nome. Siccome i sostenitori di questa e consimili cantanti sono soliti vantare la profonda e totale espressività del canto delle medesime, profondità evidentemente estranea a professioniste di più ortodossa emissione, sarà interessante notare come tutte le forcelle e i crescendo previsti dall’autore nel “Madre pietosa Vergine” siano bellamente spianati. Nell’unico punto in cui la cantante si sforza, bontà sua, di rispettare la forcella prevista, la voce risulta stimbrata. Durante l’intervento del coro dei frati fuori scena i fiati esibiti dalla Stemme risultano insufficienti a sostenere le grandi arcate verdine e la voce sotto risuona ancora una volta tubata (ad es. su “fede”). Altro esempio di legato poco saldo e ancor meno espressivo alla sublime frase “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti”, risolta con una specie di miagolio. Quanto poi all’indicazione “declamando” alle parole “Al santo asilo corrasi”, registriamo un’esibizione debitrice del peggior gusto paraverista. Spianato ancora una volta il crescendo su “Il pio frate accoglierti no, non ricuserà”, alla ripresa del tema in mi maggiore la voce risulta dura, priva di morbidezza, con più di una fissità di marca nettamente germanica. Su “Non mi lasciar, soccorrimi” la voce “balla” nuovamente, complice anche il tempo troppo largo staccato dal direttore. Alle ultime battute, che insistono di nuovo in zona centrale, la voce risulta vuota e tremula sul si tenuto ad libitum.
Decisamente più importante risulta, fin dalle prime battute, la voce della Westbroek, che pure riesce a stonare sul fa diesis sopra il do centrale all’attacco di “Son giunta”. Sempre in fascia do/fa diesis la voce risulta spinta e gridacchiata, mentre in basso (“Naviga verso occaso don Alvaro”) suona eccessivamente aperta, e il risultato è che un semplice sol (“del sangue di mio padre”) si risolve in un urlo. Il si naturale acuto è non a fuoco sotto il profilo dell’intonazione e per di più fisso, mentre in chiusa del recitativo (“ambascia”) compare un miagolio analogo a quello della Stemme. Il “Madre pietosa Vergine” si distingue per la dizione confusa e per il tentativo di risolvere la grande frase “Deh non m’abbandonare” con una vocina in fondato sospetto di scarso appoggio, all’evidente scopo di moderare l’impatto di una vocalità decisamente brada. A “Pietà di me, Signor” la voce risulta instabile e forzata sul si centrale e sulla grande arcata “che come incenso” etc. la voce si spezza e risulta qua e là stonacchiata, oltre che sistematicamente tubata nelle frasi di scrittura più bassa.
Il “declamando” è un poco più contenuto di quello della Stemme, ma siamo sempre nell’ambito della parodia involontaria. Decisamente verista nel senso più deteriore del termine la frase “il pio frate accoglierti” etc. La ripetizione del tema si segnala per i fiati troppo corti e ancora una volta per suoni, che hanno ben poco del canto lirico. L’effetto della pagina è turbato anche dal coro fuori scena dei frati, la cui esecuzione si direbbe animata da intenti anticlericali. Il legato è ancora una volta latitante in chiusa alla scena, sebbene la cantante tenti, al pari della Stemme, di tenere ad libitum il si centrale.
Quanto a Violeta Urmana, la voce ricorda da vicino quella di un soprano leggero, affetta da vibrato largo in tutta la gamma, dura e fissa, in alto prossima al grido (il si naturale del recitativo d’entrata), in basso all’inesistente (fatto assai grave per un ex mezzosoprano), caratterizzata soprattutto da un accento inerte, che rende ben poca giustizia al personaggio e al momento drammatico. Il “Madre pietosa Vergine” si segnala per le opportune intenzioni esecutive, la Urmana è la sola, delle tre, a tentare di risolvere le forcelle e i crescendo previsti da Verdi, ma la realizzazione risulta a dir poco velleitaria. La cantante possiede un maggior senso del legato e dello stile di canto italiano rispetto alle colleghe, ma in zona do centrale-fa diesis la voce non ha mai la sicurezza necessaria: basti sentire come viene risolta la frase “il pio frate accoglierti”, che appunto in quella zona insiste. Frase che dovrebbe essere alla portata di qualunque mezzosoprano degno di questo nome. Alla ripetizione del tema (“Non mi lasciar soccorrimi”) anche l’intonazione appare gravemente compromessa.
All’entrata di Melitone e, in sequenza, del Padre Guardiano si possono intuire le ragioni dell’attuale crisi delle vocazioni. Crisi delle vocazioni peraltro ribadita dalle rispettive scene della monacazione, per le quali non sarà inopportuno evocare immagini di supplizi eterni. C’è chi parla, chi bofonchia, chi esibisce un bel timbro da mastro Trabuco e chi una voce senescente e sistematicamente in cantina. Come suol dirsi, non c’è che l’imbarazzo della scelta!
La Stemme, dopo un portamento sulla frase “Fama pietoso il dice” e un fa diesis marcatamente fisso su “Vergin m’assisti”, attacca “Infelice, delusa, rejetta” con voce magra, che si fa intubata alle frasi decisamente basse del passaggio “Più tranquilla l’alma sento”. Logica conseguenza è che il si naturale di “la sua figlia maledir” sia un urlo. Comica la discesa al grave su “ov’altra visse”, mentre nella successiva sezione cantabile le indicazioni dinamiche restano ancora una volta lettera morta, sempre alla faccia della grande espressività eccetera. In compenso i si naturali sono ancora delle urla, il terzo pure ballante. Verista e scomposto l’attacco “Se voi scacciate questa pentita”: la voce è vuota sotto e al centro risulta spinta e sgraziata. La voce non sfoga e risulta ovattata e schiacciata in bocca alle parole “Salvati all’ombra di questa croce”, che l’autore, ingenuo!, prescrive “sottovoce e misteriosamente”. Di nuovo paraverista “Voi mi scacciate”. La voce è quella di una bella Manon di Massenet, gli acuti sono duri e sistematicamente indietro (il la naturale di “Mi toglierà”). Spinta e gridacchiata la voce al centro sulla frasetta “Bontà divina”, che dovrebbe scandire l’apice della tensione emotiva del personaggio. L’esaurimento delle energie si evidenzia nella chiusa del duetto, coronata da si naturali che sono ormai strilletti. Provvidenziale il taglio di una sezione della coda (taglio peraltro in comune con le colleghe).
La Westbroek mostra per contro una voce un poco più consistente e solida al centro. Purtroppo anche in questo caso la voce risulta eccessivamente spinta, tanto da risultare urlata. La chiusa della scena prima dell’entrata del basso è risolta meglio rispetto alla Stemme, ma è un canto di pura fibra, portato di una natura generosa, ma non sufficiente alla bisogna. A “Infelice, delusa, rejetta” la cantante stonacchia in zona centrale e soprattutto non risulta affatto varia e men che mai espressiva. C’è solo agitazione scomposta, spacciata – non si sa bene alle orecchie di chi – per concitazione drammatica. Il canto è dignitoso solo se la tessitura è comoda, ossia se gravita al di sotto del do centrale. Vedasi, per contro, il piglio verista con cui è staccata la frase “Più non sorge sanguinante”, che per l’appunto sale di poco al di sopra del do centrale. Duro e sfocato il si naturale acuto. Quando la cantante tenta, come da spartito, un piano, la voce va indietro e si timbra (“salvati all’ombra di questa croce”). Il passaggio “E’ questo il porto, chi tal conforto” etc. evidenzia fiati corti, mentre la chiusa del duetto (“Tua grazia o Dio”) dimostra la stanchezza inevitabile per chi canti di dote naturale una parte come questa: la voce risulta smagrita, il primo si naturale è un urlo, il secondo è un poco meglio, ma il terzo è di nuovo un suono ben poco attraente.
Nel recitativo con Melitone la Urmana esibisce, di nuovo, una voce poco salda e vuota al centro, chioccia passato il do centrale (“Un’infelice”). Censurabile il fa diesis “ppp” di “Vergin m’assisti”, mentre più dignitosa risulta la successiva discesa al grave (verosimilmente un residuo delle passate frequentazioni mediosopranili). Decisamente volgare l’attacco “Infelice, delusa, rejetta”, davvero degno di una Santuzza di provincia, per giunta con una voce, in basso, decisamente poco consistente (il mi bemolle grave su “Fremete”). Il legato è precario alla frase “Né terribile l’ascolto”, coronata da la e si naturali bellamente urlati. Come la Stemme c’è grande difficoltà a scendere alla frase “ov’altra visse”. L’indicazione “dolcissimo” all’attacco del passaggio in mi maggiore “Ah tranquilla l’alma sento” resta inevasa, anche perché la voce, dal do centrale in su, risulta ora decisamente urlacchiata. Il primo si naturale è bellamente stonato, in compenso il secondo suona duro e fisso. Altri suoni scomposti su “Un chiostro!”, dopodiché la Santuzza si muta in una sorta di Lola, ossia parodia mignon di un soprano verista: a “Se voi scacciate”, quando la cantante tenta di aumentare un po’ il volume, finisce per urlare, altrimenti canta praticamente senza appoggiare un suono. Nuova esibizione di vocina alla frase “Salvati all’ombra di questa croce”, ulteriore problematica discesa al grave su “Voi mi scacciate!”, mentre in acuto la voce si riduce a un miagolio e il la naturale conclusivo (“mi toglierà”) è un suono fisso. Altre urla a “Bontà divina”: il personaggio, dozzinale e sguaiato, è tutto in questa piccola, ma cruciale frase. Alla cabaletta, alla frase “Plaudete o cori angelici” abbiamo piccoli gemiti in luogo degli accenti previsti dall’autore e i si naturali sono, manco a dirlo, nuovi piccoli, ma non per questo più gradevoli, strilli.
Meglio soprassedere sulla “Vergine degli Angeli”, pagina di nessuna difficoltà vocale in cui si apprezzano, di norma, la qualità del timbro e la bellezza del legato. L’unica ad avere un poco di “polpa” è la Westbroek, ma a prezzo di una condotta vocale a dir poco da principiante.
Riassumendo: una gradevole voce di soprano lirico, una di lirico spinto, ma di scarsa attrattiva timbrica, e una sorta di soprano leggero con velleità similveriste, tutte e tre a mal partito con la tecnica in primo luogo e con la scrittura e lo stile verdiano in secondo. Spiace per i fautori del cosiddetto teatro di regia, rimedio universale (per i suddetti fautori) dei mali che affliggono il mondo dell’opera, ma nessun regista ovvero scenografo, per quanto immaginifico e “di grido”, potrebbe trarre da uno qualsiasi di questi soprani una Leonora de Vargas almeno decente sotto il profilo vocale e, di conseguenza, espressivo.
Da quella recita sono trascorsi molti anni e molte primedonne si sono succedute nei panni della infelice, delusa e rejetta Leonora. È, lentamente ma inesorabilmente, tramontato e trapassato il soprano drammatico, presto seguito, sul medesimo sentiero, da quello lirico spinto. C’è stata insomma la famosa liricizzazione verdiana non meno che wagneriana, e molte Mimì ovvero Manon (di Massenet) hanno asceso il sentiero che mena al monastero della Madonna degli Angeli, con esiti più o meno felici a seconda di virtù naturale e sapienza tecnica delle deputate nobildonne de Vargas. Ci siamo deliziati (chi più, chi meno, chi esclusivamente e un poco ottusamente) di timbri lunari, screziature più o meno sapientemente amministrate, filati e filatini ad effetto (effetto sempre meno travolgente via via che emergevano le magagne tecniche, che la freschezza dei mezzi consentiva, almeno in parte di occultare). Soprattutto, sulla scorta di certa critica, ci siamo convinti e persuasi che i soprani drammatici prima della Callas (e magari anche dopo) costituissero un branco di urlatrici scomposte, colpevoli, con la loro discutibile arte, di avvilire e affossare le bellezze della musica verdiana.
Con simili premesse non dobbiamo stupirci di quello che ci troviamo davanti agli occhi, e soprattutto alle orecchie, quando esaminiamo il panorama delle Leonore di Vargas a noi più vicine nel tempo.
Il repertorio di Nina Stemme, Eva-Maria Westbroek e Violeta Urmana è incentrato in prevalenza su ruoli di soprano lirico-spinto e drammatico: ovviamente Wagner (tutte e tre hanno cantato Sieglinde, la Stemme ha affrontato inoltre Senta, Elsa, Elisabeth – come la Westbroek – ed Isotta, ruolo, quest’ultimo, in comune con la Urmana, che ha cantato pure Kundry), ma anche Verdi (la Stemme e la Urmana hanno cantato Aida, la Westbroek ha affrontato l’Otello, il Ballo e il Don Carlos) e qualche titolo verista e pucciniano (Wally, Chénier e Fanciulla per la Westbroek, Tosca, Manon e Butterfly per la Stemme, Tosca, Chénier, Wally, Cavalleria e Gioconda per la Urmana). Delle tre la specialista (se così vogliamo definirla) del Cigno di Busseto è la Urmana, che ha cantato anche Lady Macbeth, Amelia del Ballo, Elisabetta di Valois e persino Odabella, cui vanno aggiunti, retaggio della precedente carriera quale mezzosoprano, la principessa d’Eboli e Azucena.
L’incipit della scena vede la Stemme esibire una voce lirica, di scarso peso in basso, tanto da suonare decisamente soffocata ed ovattata nelle prime frasi, di scrittura marcatamente centrale. In compenso i suoni al di sopra del do centrale sono spinti e ben poco gradevoli a udirsi. Ancora più grave è il fatto che nei primissimi acuti la voce si smagrisce considerevolmente e sul si naturale, come si dice in gergo, “balla”, ossia risulta priva del necessario sostegno e di conseguenza vibra in modo eccessivo. La chiusa del recitativo (“non reggo a tanta ambascia”) evidenzia l’assenza di un legato degno di questo nome. Siccome i sostenitori di questa e consimili cantanti sono soliti vantare la profonda e totale espressività del canto delle medesime, profondità evidentemente estranea a professioniste di più ortodossa emissione, sarà interessante notare come tutte le forcelle e i crescendo previsti dall’autore nel “Madre pietosa Vergine” siano bellamente spianati. Nell’unico punto in cui la cantante si sforza, bontà sua, di rispettare la forcella prevista, la voce risulta stimbrata. Durante l’intervento del coro dei frati fuori scena i fiati esibiti dalla Stemme risultano insufficienti a sostenere le grandi arcate verdine e la voce sotto risuona ancora una volta tubata (ad es. su “fede”). Altro esempio di legato poco saldo e ancor meno espressivo alla sublime frase “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti”, risolta con una specie di miagolio. Quanto poi all’indicazione “declamando” alle parole “Al santo asilo corrasi”, registriamo un’esibizione debitrice del peggior gusto paraverista. Spianato ancora una volta il crescendo su “Il pio frate accoglierti no, non ricuserà”, alla ripresa del tema in mi maggiore la voce risulta dura, priva di morbidezza, con più di una fissità di marca nettamente germanica. Su “Non mi lasciar, soccorrimi” la voce “balla” nuovamente, complice anche il tempo troppo largo staccato dal direttore. Alle ultime battute, che insistono di nuovo in zona centrale, la voce risulta vuota e tremula sul si tenuto ad libitum.
Decisamente più importante risulta, fin dalle prime battute, la voce della Westbroek, che pure riesce a stonare sul fa diesis sopra il do centrale all’attacco di “Son giunta”. Sempre in fascia do/fa diesis la voce risulta spinta e gridacchiata, mentre in basso (“Naviga verso occaso don Alvaro”) suona eccessivamente aperta, e il risultato è che un semplice sol (“del sangue di mio padre”) si risolve in un urlo. Il si naturale acuto è non a fuoco sotto il profilo dell’intonazione e per di più fisso, mentre in chiusa del recitativo (“ambascia”) compare un miagolio analogo a quello della Stemme. Il “Madre pietosa Vergine” si distingue per la dizione confusa e per il tentativo di risolvere la grande frase “Deh non m’abbandonare” con una vocina in fondato sospetto di scarso appoggio, all’evidente scopo di moderare l’impatto di una vocalità decisamente brada. A “Pietà di me, Signor” la voce risulta instabile e forzata sul si centrale e sulla grande arcata “che come incenso” etc. la voce si spezza e risulta qua e là stonacchiata, oltre che sistematicamente tubata nelle frasi di scrittura più bassa.
Il “declamando” è un poco più contenuto di quello della Stemme, ma siamo sempre nell’ambito della parodia involontaria. Decisamente verista nel senso più deteriore del termine la frase “il pio frate accoglierti” etc. La ripetizione del tema si segnala per i fiati troppo corti e ancora una volta per suoni, che hanno ben poco del canto lirico. L’effetto della pagina è turbato anche dal coro fuori scena dei frati, la cui esecuzione si direbbe animata da intenti anticlericali. Il legato è ancora una volta latitante in chiusa alla scena, sebbene la cantante tenti, al pari della Stemme, di tenere ad libitum il si centrale.
Quanto a Violeta Urmana, la voce ricorda da vicino quella di un soprano leggero, affetta da vibrato largo in tutta la gamma, dura e fissa, in alto prossima al grido (il si naturale del recitativo d’entrata), in basso all’inesistente (fatto assai grave per un ex mezzosoprano), caratterizzata soprattutto da un accento inerte, che rende ben poca giustizia al personaggio e al momento drammatico. Il “Madre pietosa Vergine” si segnala per le opportune intenzioni esecutive, la Urmana è la sola, delle tre, a tentare di risolvere le forcelle e i crescendo previsti da Verdi, ma la realizzazione risulta a dir poco velleitaria. La cantante possiede un maggior senso del legato e dello stile di canto italiano rispetto alle colleghe, ma in zona do centrale-fa diesis la voce non ha mai la sicurezza necessaria: basti sentire come viene risolta la frase “il pio frate accoglierti”, che appunto in quella zona insiste. Frase che dovrebbe essere alla portata di qualunque mezzosoprano degno di questo nome. Alla ripetizione del tema (“Non mi lasciar soccorrimi”) anche l’intonazione appare gravemente compromessa.
All’entrata di Melitone e, in sequenza, del Padre Guardiano si possono intuire le ragioni dell’attuale crisi delle vocazioni. Crisi delle vocazioni peraltro ribadita dalle rispettive scene della monacazione, per le quali non sarà inopportuno evocare immagini di supplizi eterni. C’è chi parla, chi bofonchia, chi esibisce un bel timbro da mastro Trabuco e chi una voce senescente e sistematicamente in cantina. Come suol dirsi, non c’è che l’imbarazzo della scelta!
La Stemme, dopo un portamento sulla frase “Fama pietoso il dice” e un fa diesis marcatamente fisso su “Vergin m’assisti”, attacca “Infelice, delusa, rejetta” con voce magra, che si fa intubata alle frasi decisamente basse del passaggio “Più tranquilla l’alma sento”. Logica conseguenza è che il si naturale di “la sua figlia maledir” sia un urlo. Comica la discesa al grave su “ov’altra visse”, mentre nella successiva sezione cantabile le indicazioni dinamiche restano ancora una volta lettera morta, sempre alla faccia della grande espressività eccetera. In compenso i si naturali sono ancora delle urla, il terzo pure ballante. Verista e scomposto l’attacco “Se voi scacciate questa pentita”: la voce è vuota sotto e al centro risulta spinta e sgraziata. La voce non sfoga e risulta ovattata e schiacciata in bocca alle parole “Salvati all’ombra di questa croce”, che l’autore, ingenuo!, prescrive “sottovoce e misteriosamente”. Di nuovo paraverista “Voi mi scacciate”. La voce è quella di una bella Manon di Massenet, gli acuti sono duri e sistematicamente indietro (il la naturale di “Mi toglierà”). Spinta e gridacchiata la voce al centro sulla frasetta “Bontà divina”, che dovrebbe scandire l’apice della tensione emotiva del personaggio. L’esaurimento delle energie si evidenzia nella chiusa del duetto, coronata da si naturali che sono ormai strilletti. Provvidenziale il taglio di una sezione della coda (taglio peraltro in comune con le colleghe).
La Westbroek mostra per contro una voce un poco più consistente e solida al centro. Purtroppo anche in questo caso la voce risulta eccessivamente spinta, tanto da risultare urlata. La chiusa della scena prima dell’entrata del basso è risolta meglio rispetto alla Stemme, ma è un canto di pura fibra, portato di una natura generosa, ma non sufficiente alla bisogna. A “Infelice, delusa, rejetta” la cantante stonacchia in zona centrale e soprattutto non risulta affatto varia e men che mai espressiva. C’è solo agitazione scomposta, spacciata – non si sa bene alle orecchie di chi – per concitazione drammatica. Il canto è dignitoso solo se la tessitura è comoda, ossia se gravita al di sotto del do centrale. Vedasi, per contro, il piglio verista con cui è staccata la frase “Più non sorge sanguinante”, che per l’appunto sale di poco al di sopra del do centrale. Duro e sfocato il si naturale acuto. Quando la cantante tenta, come da spartito, un piano, la voce va indietro e si timbra (“salvati all’ombra di questa croce”). Il passaggio “E’ questo il porto, chi tal conforto” etc. evidenzia fiati corti, mentre la chiusa del duetto (“Tua grazia o Dio”) dimostra la stanchezza inevitabile per chi canti di dote naturale una parte come questa: la voce risulta smagrita, il primo si naturale è un urlo, il secondo è un poco meglio, ma il terzo è di nuovo un suono ben poco attraente.
Nel recitativo con Melitone la Urmana esibisce, di nuovo, una voce poco salda e vuota al centro, chioccia passato il do centrale (“Un’infelice”). Censurabile il fa diesis “ppp” di “Vergin m’assisti”, mentre più dignitosa risulta la successiva discesa al grave (verosimilmente un residuo delle passate frequentazioni mediosopranili). Decisamente volgare l’attacco “Infelice, delusa, rejetta”, davvero degno di una Santuzza di provincia, per giunta con una voce, in basso, decisamente poco consistente (il mi bemolle grave su “Fremete”). Il legato è precario alla frase “Né terribile l’ascolto”, coronata da la e si naturali bellamente urlati. Come la Stemme c’è grande difficoltà a scendere alla frase “ov’altra visse”. L’indicazione “dolcissimo” all’attacco del passaggio in mi maggiore “Ah tranquilla l’alma sento” resta inevasa, anche perché la voce, dal do centrale in su, risulta ora decisamente urlacchiata. Il primo si naturale è bellamente stonato, in compenso il secondo suona duro e fisso. Altri suoni scomposti su “Un chiostro!”, dopodiché la Santuzza si muta in una sorta di Lola, ossia parodia mignon di un soprano verista: a “Se voi scacciate”, quando la cantante tenta di aumentare un po’ il volume, finisce per urlare, altrimenti canta praticamente senza appoggiare un suono. Nuova esibizione di vocina alla frase “Salvati all’ombra di questa croce”, ulteriore problematica discesa al grave su “Voi mi scacciate!”, mentre in acuto la voce si riduce a un miagolio e il la naturale conclusivo (“mi toglierà”) è un suono fisso. Altre urla a “Bontà divina”: il personaggio, dozzinale e sguaiato, è tutto in questa piccola, ma cruciale frase. Alla cabaletta, alla frase “Plaudete o cori angelici” abbiamo piccoli gemiti in luogo degli accenti previsti dall’autore e i si naturali sono, manco a dirlo, nuovi piccoli, ma non per questo più gradevoli, strilli.
Meglio soprassedere sulla “Vergine degli Angeli”, pagina di nessuna difficoltà vocale in cui si apprezzano, di norma, la qualità del timbro e la bellezza del legato. L’unica ad avere un poco di “polpa” è la Westbroek, ma a prezzo di una condotta vocale a dir poco da principiante.
Riassumendo: una gradevole voce di soprano lirico, una di lirico spinto, ma di scarsa attrattiva timbrica, e una sorta di soprano leggero con velleità similveriste, tutte e tre a mal partito con la tecnica in primo luogo e con la scrittura e lo stile verdiano in secondo. Spiace per i fautori del cosiddetto teatro di regia, rimedio universale (per i suddetti fautori) dei mali che affliggono il mondo dell’opera, ma nessun regista ovvero scenografo, per quanto immaginifico e “di grido”, potrebbe trarre da uno qualsiasi di questi soprani una Leonora de Vargas almeno decente sotto il profilo vocale e, di conseguenza, espressivo.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
2007 – Violeta Urmana (con Roberto Scandiuzzi & Bruno De Simone – dir. Zubin Mehta – Teatro Comunale, Firenze)
2008 – Nina Stemme (con Alastair Miles & Tiziano Bracci – dir. Zubin Mehta – Opera di Stato, Vienna)
2008 – Eva-Maria Westbroek (con Carlo Colombara & José Van Dam – dir. Kazushi Ono – La Monnaie, Bruxelles)
http://www.youtube.com/watch?v=VcYpxf82f-Q
http://www.youtube.com/watch?v=5vk84c-69i0&feature=related
Semolino: Che lusso!!!