È primavera e i teatri annunciano i programmi per la nuova stagione operistica.
Come di consueto si tratta di indicazioni di massima, soggette a cambiamenti più o meno rilevanti, determinati di volta in volta da sovrapposizioni di impegni, indisposizioni, mutati pareri o più semplicemente dalla pessima consuetudine, cui alcuni teatri ricorrono per sistema, di pubblicizzare contratti mai sottoscritti o già annullati. Sarà interessante confrontare le stagioni preliminari con quanto andrà effettivamente in scena, nonché gli esiti delle produzioni in questione con le considerazioni che la lettura di siffatti cartelloni suscita nello spettatore minimamente avvertito.
Contrariamente ad altri, che professano animo e orecchio virginale e incorrotto, riteniamo che sia possibile, quando si sia ascoltato con sufficiente attenzione un esecutore professionista, formulare a proposito del suo impiego in un determinato ruolo una previsione di massima, che non si discosti in misura significativa dalla realtà. E questo non in grazia di chissà quale virtù magica, bensì come conseguenza di un ascolto che, per essere davvero tale, sia consapevole, informato e soprattutto non ignaro di storia e tradizioni di canto.
Le nuove stagioni che ci giungono dagli Stati Uniti forniscono un’eccellente materia di analisi in tal senso. In verità nella maggior parte dei casi non è neppure necessario formulare previsioni, perché basta una ricerca negli archivi per rendersi conto di come certi azzardi di casting si ripresentino con una certa frequenza, quasi che il passato non avesse davvero nulla da insegnare ai sempre sagaci programmatori culturali. E difatti così è.
La ricchezza delle proposte consiglia di concentrarsi solo su quelle che sono, sulla carta, le più significative.
La Lyric Opera of Chicago propone in apertura di stagione un Macbeth con Thomas Hampson, di cui esiste in dvd una discutibile (rectius: indiscutibilmente pessima) prova risalente a quasi un decennio fa, e Nadja Michael, ultimamente più nota per i forfait (buon ultimo quello nella Salome bolognese) che per le effettive presenze in palcoscenico, e comunque da sempre in cattivi rapporti con il repertorio italiano. Difficile rintracciare nella designata coppia i requisiti necessari a rivestire i panni dell’infernale, anche vocalmente, coppia ideata da Verdi. Soprattutto per quanto concerne la metà femminile, impegnata in ben quattro assoli.
Sempre nella medesima stagione abbiamo un Ballo in maschera affidato per la parte protagonistica a Frank Lopardo, già tenore lirico leggero ormai alle soglie della maturità, se non altro anagrafica. Il medesimo discorso ed analoghe perplessità valgono per Ramón Vargas, che però ha l’intelligenza di affrontare titoli un poco più acconci a quella sorta di liricizzazione continuata e permanente che oggi è la regola, ossia Bohème (al Metropolitan di New York, in alternanza con altri tenori leggeri quali Vittorio Grigolo, Joseph Calleja e Piotr Beczala) e Werther (all’Opera di San Francisco). Meno saggia ed avveduta appare la partecipazione di Vargas al Boccanegra del Met, che lo vedrà al fianco di Barbara Frittoli (altro ottimo esempio di miscasting), Dimitri Hvorostovsky e Ferruccio Furlanetto.
Sempre nella stagione di Chicago brilla una Fanciulla del West (di cui quest’anno ricorre il centenario della prima assoluta) affidata a Deborah Voigt. La signora Voigt qualche anno fa fu allontanata dal Covent Garden per il suo fisico, giudicato poco confacente alle nuove esigenze del teatro di regia. A dieta felicemente condotta in porto, la signora ha potuto ripresentarsi e trionfare, esibendo non solo una perfetta silhouette, ma anche una pressoché totale perdita delle doti vocali che l’avevano sostenuta per buona parte della carriera (cfr. il Ballo in maschera parigino di un anno fa). Oggi, siccome a contare è quello che si vede e non quello che si sente, la Voigt può essere scritturata per una parte massacrante come quella di Minnie non solo a Chicago, ma al Met (in alternanza con Elisabete Matos), e affrontare, ancora al Met, la protagonista di Walküre, oltre a quella di Salome all’Opera di Washington.
Altri spettacoli da segnalare nella stagione di Chicago sono il Lohengrin con Johan Botha (già problematico Tannhäuser torinese) e Michaela Schuster (imbarazzante Ortud a Monaco di Baviera l’estate scorsa, nonché imbarazzante Venere sempre a Torino) e l’Hercules haendeliano con un cast in cui spiccano Alice Coote (che ritorna al Barocco dopo azzardi quali il Maffio Orsini della deludente ultima Borgia di Edita Gruberova), David Daniels, decano dei controtenori, e Richard Croft (censurabile Idomeneo a Aix-en-Provence e Milano).
L’unica autentica sorpresa della stagione annunciata dall’Opera di Los Angeles è la presenza di Martina Serafin, votata ai ruoli da soprano drammatico, quale Contessa d’Almaviva. Siccome siamo cattivi e maligni riteniamo che la scelta sia dovuta al desiderio di affrontare un grande ruolo sopranile mozartiano, che però non comporti la scrittura virtuosistica di una Donn’Anna o di una Konstanze. Peccato che la Contessa tocchi, nel terzetto del secondo atto, il do sovracuto, almeno se si vuole eseguire quanto previsto dall’edizione critica. Altra curiosità (piuttosto macabra) della stagione losangelina è il Lohengrin con Ben Heppner e Soile Isokoski, che offre se non altro l’attrattiva di un’Ortruda di gran voce, sia pure in declino, quale Dolora Zajick. La Zajick per inciso si segnala come una delle interpreti di punta dei nuovi cartelloni nordamericani, proponendosi al Met come Azucena (in alternanza con Marianne Cornetti) e Contessa della Dama di picche (accanto a Karita Mattila e Vladimir Galouzine), nonché come Amneris a San Francisco. Un simile superimpiego prova non tanto la grande energia della signora, quanto l’assenza di valide alternative e del famoso ricambio generazionale, che tanti operatori del settore dicono di auspicare e favorire.
Altro spettacolo di punta, per gli amanti del genere, è il Turco in Italia affidato a un cast cui starebbe largo un Elisir d’amore in provincia: Nino Machaidze (già Fiorilla al Theater an der Wien), Simone Alberghini, Maxim Mironov, Paolo Gavanelli e l’immarcescibile Thomas Allen.
Ben altrimenti ricca di proposte (che però assai di rado escono dai binari del grande repertorio) la stagione del Met. Sorprese poco piacevoli riserva il Rheingold in apertura di stagione, con un cast lillipuziano, in parte di matrice baroccara (Patricia Bardon, Richard Croft), in parte in forte sospetto di forfait (Bryn Terfel, che dalle ultime notizie pareva alle soglie del ritiro, e invece si propone qui nientemeno che come Wotan). Notevolissimo il Rigoletto affidato addirittura a un poker di baritoni (non si sa mai…), vale a dire Lado Ataneli, Georg Gagnidze, Carlos Alvarez e Zeliko Lucic (si prospetta, com’è facile intuire, una produzione all’insegna della più grande raffinatezza), cui per rispetto delle pari opportunità si associano un tris di soprani (Christine Schäfer, Nino Machaidze e Diana Damrau) e uno di tenori, evidentemente giudicati altrettanti passepartout vocali per la nuova stagione: Francesco Meli (Alfredo in Traviata), Joseph Calleja (Rodolfo in Bohème ed Edgardo) e Giuseppe Filianoti (protagonista dei Contes d’Hoffmann).
La miniaturizzazione dei grandi ruoli continua con il Boris affidato – nel teatro che conobbe gli Zar di Didur, Chaliapin, Pinza e Kipnis – a René Pape, la Carmen di Elina Garanca (in alternanza con Kate Aldrich, che sosterrà il ruolo anche a Chicago, ivi in condominio con Nadia Krasteva), la Eboli di Anna Smirnova e il Posa di Simon Keenlyside (accanto al redivivo Infante di Roberto Alagna) e i già citati coniugi Adorno di Barbara Frittoli e Ramón Vargas. Il fenomeno è peraltro assai esteso e trasversale, interessando anche le stagioni di San Francisco (Aida con Micaela Carosi, Butterfly con Svetla Vassileva in alternanza alla veterana Dessì, Pinkerton affidato a Stefano Secco, Ellie Dehn, voce da Susanna, promossa Contessa d’Almaviva, Nina Stemme Brünnhilde nel ciclo completo del Ring) e Washington (Don Pasquale con Juan Francisco Gatell)
Del pari lasciano perplessi proposte quali la Norina di Anna Netrebko, la Juliette di Angela Gheorghiu, la Lucia di Natalie Dessay e l’Elisabetta di Valois e la Violetta di Marina Poplavskaya, altrettante prove provate del fatto che l’esperienza pregressa serve a poco, quando vi sia la ferma volontà di imporre un prodotto a tutti i costi.
Verrà poi ripresa la Tosca “di” Luc Bondy, fischiatissima nel recente passato (e di prossimo approdo alla Scala), protagoniste Sondra Radvanovsky (pure Leonora nel Trovatore) e Violeta Urmana, accanto a Marcelo Alvarez (pure Manrico) e Salvatore Licitra, Falck Struckmann e James Morris. Con simili premesse non stupisce la presenza del veterano (…) Paul Plishka nei panni del Sagrestano.
Dove la creatività dei programmatori si spinge all’estremo è, però, con Rossini. Non solo sarà ripresa l’Armida (è di queste ore la notizia dell’esito assai tiepido della première) con Renée Fleming e un vasto parco tenori in cui spiccano i nomi di Lawrence Brownlee, Bruce Ford, John Osborn e Barry Banks (e si aveva da ridire sui tenori che circondavano l’Armida della Callas), ma soprattutto sarà per la prima volta rappresentato al Met Il Conte Ory, con l’indispensabile presenza della star Juan Diego Flórez (detentore di un vero monopolio sul titolo, perché l’ultimo allestimento pesarese non aveva neppure la dignità di un saggio scolastico), Diana Damrau (al suo esordio in un titolo rossiniano diverso dal Barbiere), Joyce DiDonato (in temporanea vacanza dai vagheggiati ruoli Colbran), Michele Pertusi e Stéphane Degout.
Impedibile anche la Walküre, affidata a un cast che farà la gioia di ogni amante della declamazione: Deborah Voigt, Eva-Maria Westbroek, Jonas Kaufmann e ancora una volta Bryn Terfel.
Segnaliamo infine la ripresa dell’Iphigénie en Tauride, allestita verosimilmente per consentire rinnovate estasi alle fan di Plácido Domingo. Estasi che proseguiranno in Washington, a riprova della scarsa fantasia e creatività dei signori programmatori d’oltreoceano (e non solo).
Come di consueto si tratta di indicazioni di massima, soggette a cambiamenti più o meno rilevanti, determinati di volta in volta da sovrapposizioni di impegni, indisposizioni, mutati pareri o più semplicemente dalla pessima consuetudine, cui alcuni teatri ricorrono per sistema, di pubblicizzare contratti mai sottoscritti o già annullati. Sarà interessante confrontare le stagioni preliminari con quanto andrà effettivamente in scena, nonché gli esiti delle produzioni in questione con le considerazioni che la lettura di siffatti cartelloni suscita nello spettatore minimamente avvertito.
Contrariamente ad altri, che professano animo e orecchio virginale e incorrotto, riteniamo che sia possibile, quando si sia ascoltato con sufficiente attenzione un esecutore professionista, formulare a proposito del suo impiego in un determinato ruolo una previsione di massima, che non si discosti in misura significativa dalla realtà. E questo non in grazia di chissà quale virtù magica, bensì come conseguenza di un ascolto che, per essere davvero tale, sia consapevole, informato e soprattutto non ignaro di storia e tradizioni di canto.
Le nuove stagioni che ci giungono dagli Stati Uniti forniscono un’eccellente materia di analisi in tal senso. In verità nella maggior parte dei casi non è neppure necessario formulare previsioni, perché basta una ricerca negli archivi per rendersi conto di come certi azzardi di casting si ripresentino con una certa frequenza, quasi che il passato non avesse davvero nulla da insegnare ai sempre sagaci programmatori culturali. E difatti così è.
La ricchezza delle proposte consiglia di concentrarsi solo su quelle che sono, sulla carta, le più significative.
La Lyric Opera of Chicago propone in apertura di stagione un Macbeth con Thomas Hampson, di cui esiste in dvd una discutibile (rectius: indiscutibilmente pessima) prova risalente a quasi un decennio fa, e Nadja Michael, ultimamente più nota per i forfait (buon ultimo quello nella Salome bolognese) che per le effettive presenze in palcoscenico, e comunque da sempre in cattivi rapporti con il repertorio italiano. Difficile rintracciare nella designata coppia i requisiti necessari a rivestire i panni dell’infernale, anche vocalmente, coppia ideata da Verdi. Soprattutto per quanto concerne la metà femminile, impegnata in ben quattro assoli.
Sempre nella medesima stagione abbiamo un Ballo in maschera affidato per la parte protagonistica a Frank Lopardo, già tenore lirico leggero ormai alle soglie della maturità, se non altro anagrafica. Il medesimo discorso ed analoghe perplessità valgono per Ramón Vargas, che però ha l’intelligenza di affrontare titoli un poco più acconci a quella sorta di liricizzazione continuata e permanente che oggi è la regola, ossia Bohème (al Metropolitan di New York, in alternanza con altri tenori leggeri quali Vittorio Grigolo, Joseph Calleja e Piotr Beczala) e Werther (all’Opera di San Francisco). Meno saggia ed avveduta appare la partecipazione di Vargas al Boccanegra del Met, che lo vedrà al fianco di Barbara Frittoli (altro ottimo esempio di miscasting), Dimitri Hvorostovsky e Ferruccio Furlanetto.
Sempre nella stagione di Chicago brilla una Fanciulla del West (di cui quest’anno ricorre il centenario della prima assoluta) affidata a Deborah Voigt. La signora Voigt qualche anno fa fu allontanata dal Covent Garden per il suo fisico, giudicato poco confacente alle nuove esigenze del teatro di regia. A dieta felicemente condotta in porto, la signora ha potuto ripresentarsi e trionfare, esibendo non solo una perfetta silhouette, ma anche una pressoché totale perdita delle doti vocali che l’avevano sostenuta per buona parte della carriera (cfr. il Ballo in maschera parigino di un anno fa). Oggi, siccome a contare è quello che si vede e non quello che si sente, la Voigt può essere scritturata per una parte massacrante come quella di Minnie non solo a Chicago, ma al Met (in alternanza con Elisabete Matos), e affrontare, ancora al Met, la protagonista di Walküre, oltre a quella di Salome all’Opera di Washington.
Altri spettacoli da segnalare nella stagione di Chicago sono il Lohengrin con Johan Botha (già problematico Tannhäuser torinese) e Michaela Schuster (imbarazzante Ortud a Monaco di Baviera l’estate scorsa, nonché imbarazzante Venere sempre a Torino) e l’Hercules haendeliano con un cast in cui spiccano Alice Coote (che ritorna al Barocco dopo azzardi quali il Maffio Orsini della deludente ultima Borgia di Edita Gruberova), David Daniels, decano dei controtenori, e Richard Croft (censurabile Idomeneo a Aix-en-Provence e Milano).
L’unica autentica sorpresa della stagione annunciata dall’Opera di Los Angeles è la presenza di Martina Serafin, votata ai ruoli da soprano drammatico, quale Contessa d’Almaviva. Siccome siamo cattivi e maligni riteniamo che la scelta sia dovuta al desiderio di affrontare un grande ruolo sopranile mozartiano, che però non comporti la scrittura virtuosistica di una Donn’Anna o di una Konstanze. Peccato che la Contessa tocchi, nel terzetto del secondo atto, il do sovracuto, almeno se si vuole eseguire quanto previsto dall’edizione critica. Altra curiosità (piuttosto macabra) della stagione losangelina è il Lohengrin con Ben Heppner e Soile Isokoski, che offre se non altro l’attrattiva di un’Ortruda di gran voce, sia pure in declino, quale Dolora Zajick. La Zajick per inciso si segnala come una delle interpreti di punta dei nuovi cartelloni nordamericani, proponendosi al Met come Azucena (in alternanza con Marianne Cornetti) e Contessa della Dama di picche (accanto a Karita Mattila e Vladimir Galouzine), nonché come Amneris a San Francisco. Un simile superimpiego prova non tanto la grande energia della signora, quanto l’assenza di valide alternative e del famoso ricambio generazionale, che tanti operatori del settore dicono di auspicare e favorire.
Altro spettacolo di punta, per gli amanti del genere, è il Turco in Italia affidato a un cast cui starebbe largo un Elisir d’amore in provincia: Nino Machaidze (già Fiorilla al Theater an der Wien), Simone Alberghini, Maxim Mironov, Paolo Gavanelli e l’immarcescibile Thomas Allen.
Ben altrimenti ricca di proposte (che però assai di rado escono dai binari del grande repertorio) la stagione del Met. Sorprese poco piacevoli riserva il Rheingold in apertura di stagione, con un cast lillipuziano, in parte di matrice baroccara (Patricia Bardon, Richard Croft), in parte in forte sospetto di forfait (Bryn Terfel, che dalle ultime notizie pareva alle soglie del ritiro, e invece si propone qui nientemeno che come Wotan). Notevolissimo il Rigoletto affidato addirittura a un poker di baritoni (non si sa mai…), vale a dire Lado Ataneli, Georg Gagnidze, Carlos Alvarez e Zeliko Lucic (si prospetta, com’è facile intuire, una produzione all’insegna della più grande raffinatezza), cui per rispetto delle pari opportunità si associano un tris di soprani (Christine Schäfer, Nino Machaidze e Diana Damrau) e uno di tenori, evidentemente giudicati altrettanti passepartout vocali per la nuova stagione: Francesco Meli (Alfredo in Traviata), Joseph Calleja (Rodolfo in Bohème ed Edgardo) e Giuseppe Filianoti (protagonista dei Contes d’Hoffmann).
La miniaturizzazione dei grandi ruoli continua con il Boris affidato – nel teatro che conobbe gli Zar di Didur, Chaliapin, Pinza e Kipnis – a René Pape, la Carmen di Elina Garanca (in alternanza con Kate Aldrich, che sosterrà il ruolo anche a Chicago, ivi in condominio con Nadia Krasteva), la Eboli di Anna Smirnova e il Posa di Simon Keenlyside (accanto al redivivo Infante di Roberto Alagna) e i già citati coniugi Adorno di Barbara Frittoli e Ramón Vargas. Il fenomeno è peraltro assai esteso e trasversale, interessando anche le stagioni di San Francisco (Aida con Micaela Carosi, Butterfly con Svetla Vassileva in alternanza alla veterana Dessì, Pinkerton affidato a Stefano Secco, Ellie Dehn, voce da Susanna, promossa Contessa d’Almaviva, Nina Stemme Brünnhilde nel ciclo completo del Ring) e Washington (Don Pasquale con Juan Francisco Gatell)
Del pari lasciano perplessi proposte quali la Norina di Anna Netrebko, la Juliette di Angela Gheorghiu, la Lucia di Natalie Dessay e l’Elisabetta di Valois e la Violetta di Marina Poplavskaya, altrettante prove provate del fatto che l’esperienza pregressa serve a poco, quando vi sia la ferma volontà di imporre un prodotto a tutti i costi.
Verrà poi ripresa la Tosca “di” Luc Bondy, fischiatissima nel recente passato (e di prossimo approdo alla Scala), protagoniste Sondra Radvanovsky (pure Leonora nel Trovatore) e Violeta Urmana, accanto a Marcelo Alvarez (pure Manrico) e Salvatore Licitra, Falck Struckmann e James Morris. Con simili premesse non stupisce la presenza del veterano (…) Paul Plishka nei panni del Sagrestano.
Dove la creatività dei programmatori si spinge all’estremo è, però, con Rossini. Non solo sarà ripresa l’Armida (è di queste ore la notizia dell’esito assai tiepido della première) con Renée Fleming e un vasto parco tenori in cui spiccano i nomi di Lawrence Brownlee, Bruce Ford, John Osborn e Barry Banks (e si aveva da ridire sui tenori che circondavano l’Armida della Callas), ma soprattutto sarà per la prima volta rappresentato al Met Il Conte Ory, con l’indispensabile presenza della star Juan Diego Flórez (detentore di un vero monopolio sul titolo, perché l’ultimo allestimento pesarese non aveva neppure la dignità di un saggio scolastico), Diana Damrau (al suo esordio in un titolo rossiniano diverso dal Barbiere), Joyce DiDonato (in temporanea vacanza dai vagheggiati ruoli Colbran), Michele Pertusi e Stéphane Degout.
Impedibile anche la Walküre, affidata a un cast che farà la gioia di ogni amante della declamazione: Deborah Voigt, Eva-Maria Westbroek, Jonas Kaufmann e ancora una volta Bryn Terfel.
Segnaliamo infine la ripresa dell’Iphigénie en Tauride, allestita verosimilmente per consentire rinnovate estasi alle fan di Plácido Domingo. Estasi che proseguiranno in Washington, a riprova della scarsa fantasia e creatività dei signori programmatori d’oltreoceano (e non solo).
Gli ascolti
Mozart – Le nozze di Figaro
Atto III
Dove sono i bei momenti – Emmy Destinn (1908)
Mozart – Così fan tutte
Atto II
Fra gli amplessi – Leontyne Price & Richard Tucker (1965)
Donizetti – Don Pasquale
Atto II
Povero Ernesto…Cercherò lontana terra – Tito Schipa (1921)
Verdi – Rigoletto
Atto I
Caro nome – Marcella Sembrich (1906)
Verdi – Trovatore
Atto III
Ah sì, ben mio – Heinrich Knote (1906)
Verdi – Aida
Atto III
O patria mia – Claudia Muzio (1918)
Wagner – Götterdämmerung
Prologo
Zu neuen Taten, teurer Helde – Kirsten Flagstad & Lauritz Melchior (1939)
Musorgskij – Boris Godunov
Atto II
Ho il poter supremo – Ezio Pinza (1939)
Puccini – Madama Butterfly
Atto II
Un bel dì vedremo – Elisabeth Rethberg (1924)
Cavoli però la media delle date di questi ascolti da 1925…..
Non sarà un po' troppo poco???
Caro Alessandro,
saremmo ben lieti di mettere negli ascolti una Rethberg, o una Flagstad, o uno Schipa del 2010. Anche con nomi diversi. Ma dove li troviamo? Ce li vuoi indicare tu?
Gentili Signori,
sic stantibus rebus,cosa debbono fare i teatri d'opera? Chiudere? O accontentarsi di quello che passa il convento?Considerato che , in genere , i vostri beniamini sono nell'Oltretomba, cosa debbono fare i direttori ar4tistici attuali negli USA?
O almeno sapreste suggerire, scegliendoli tra i vivi, i possibili interpreti?
Le mie grazie vi rendo.
Gentili Signori,
ho letto le vostre desolanti note sulla stagione lirica negli USA.
Di grazia, secondo voi cosa debbono fare i teatri lirici? Chiudere i battenti?
So che i vostri beniamini sono ormai per lo più nell'Oltretomba, ma quali nomi potreste suggerire a tali disastrati teatri , per una stagione almeno decente?
Le mie grazie vi rendo
Piccarda
però caro Tamburini se non si vuole chiudere i teatri,bisogna accontentarci di quello che ci passa adesso il convento..
(smilies= faccina sorridente)
Che cosa devono fare i teatri d'opera?
Iniziare a programmare in base alle forze di cui dispongono e non in base ai sogni, alle chimere e ai feticci delle direzioni artistiche.
Fare delle audizioni serie e mirate, infischiandosene dei grandi nomi, delle mene d'agenzia e delle case discografiche.
Ripensare la concezione degli spettacoli, che devono essere costruiti sui cantanti, non sul direttore e nemmeno sulla regia.
Altrimenti il convento passerà una minestra ancora più immangiabile di quella che serve adesso.
E noi dovremmo dire che è buona e nutriente?
dubito che un teatro d'opera possa fare a meno dei feticci o dei "grandi nomi" però il teatro regio qui a Torino ha bandito un concorso per la ricerca di un scenografo per la scenografia del "Rigoletto" assegnando un tetto massimo di spese,insomma si facciano avanti i talenti,potrebbe essere una possibilità per il futuro che un grande teatro faccia un tipo di questo concorso anche nella parte musicale con la scelta del cast,e del direttore,naturalmente con la supervisione del direttore musicale del teatro,sono convinto che anche oggi ci sono delle ottime voci,ma dubito che la direzione di un grande teatro abbia coraggio di promuovere questi concorsi di ricerca,facendosi dei nemici nelle agenzie ecc.
ovvio che la pensi come antonio tamburini. Aggiungo anche x parte mia che il male è antico assai io quanto direttori di teatro di nomina politica non possono che essere incapaci salvo eccezioni. Non solo ma a furia di credere che il canto sia solo quello dei divi da agenzia i giovani che impareranno nulla ovviamente canteranno dirigeranno sempre peggio e senza professionalità.