Sinceramente, ci sarebbe piaciuto provare lo stesso entusiasmo che il pubblico torinese ha dimostrato al termine di ogni atto del “Tannhäuser” in diretta radio da Torino, e condividere il caloroso successo che ha salutato tutti gli interpreti ed il direttore al termine della serata.
Siamo passatisti, siamo cattivi, siamo puntigliosi, ma anche noi abbiamo un cuore e ci piace emozionarci per le cose belle e condividere questa emozione con il pubblico.
“Eppur così non è” direbbe Gurnemanz.
Semyon Bychkov, alla direzione, ha con il “Tannhauser” lo stesso problema, che Fournillier aveva con “Adriana Lecouvreur”: la ricerca ossessiva di citazioni, temi, similitudini e confronti all’interno della partitura.
Se Fournillier applicava questa ricerca incrociando Cilea con lo stile dei compositori a lui contemporanei, Bychkov la applica allo stesso Wagner, partendo dalla versione di Vienna del 1875, preparata dallo stesso compositore sul materiale di Dresda e Parigi, con qualche modifica,
Fin qui nulla di scandaloso, se si pensa che all’epoca Wagner aveva già composto quasi tutta la Tetralogia con rinnovata sensibilità artistica, e quindi il discorso di Bychkov poteva, da questo punto di vista, offrire una chiave di lettura sinfonica inedita, ma il risultato finale escogitato dal direttore d’orchestra trasforma “Tannhäuser”, in un “pastiche”ottocentesco su testo e musiche di Richard Wagner, perdendo la strada tracciata dalla partitura e dal compositore.
Bychkov legge l’ouverture come se si trattasse del preludio di “Tristan und Isolde” inserendo lo stesso tempo indugiante, ma trattenendolo e appesantendolo fino alla catatonia, così i temi bellissimi dei pellegrini e del pentimento vengono letteralmente risucchiati negli incongruenti vortici del pessimismo tristaniano; tutto il Baccanale che segue, ha le sonorità lente e sacrali del preludio del “Parsifal”, ma filtrati da tempi e modi assurdamente marziali, come se le baccanti ed i satiri invece di inseguirsi per consumare gioiosi amplessi, marciassero fieri, a passo dell’oca e fucile in spalla, verso il Vietnam, così da mortificare il canto delle sirene, trasformate in questo caso, in prefiche che seguono una salma! Se proprio “Parsifal” doveva essere, perchè non usare i colori della scena delle fanciulle-fiore?
Stessa cosa dicasi per la sublime “Marcia” dei nobili e cavaliere che prelude alla tenzone, con il suo tempo Allegro ed il suo grandioso coro: con Bychkov questo momento squisitamente sinfonico diventa il pesantissimo e retorico ritorno dei soldati dalla guerra, pronti magari a farne un’altra; il duetto Venus- Tannhäuser, richiama più Ortrud-Telramund nel suo clima inutilmente minaccioso che il dialogo di due amanti che stanno per abbandonarsi; ancora “Tristan” per la melopea del pastorello e qui potrebbe anche essere una buona citazione, ma perchè usare il caos della baruffa dei “Meistersinger” in ogni concertato facendo sparire le voci in un marasma orchestrale confuso e privo di brio o di qualunque spunto drammatico?
Tempi lenti, lentissimi, dunque, fino alla narcolessia, che probabilmente dovrebbero, nelle intenzioni, dipingere un groviglio di finezze e sensualità, ma evocano solo noia e mollezza, alternati a velocità improvvise, con la grave pecca peggiorativa costituita da archi e ottoni stridenti e dall’intonazione inquinata, che solo in parte compromettono il buon suono dell’orchestra.
Johan Botha, al suo debutto nel ruolo, avrebbe la voce adatta, al massimo, per Walther der Vogelweide, ma assolutamente non per Tannhäuser!
Timbro chiaro e gradevole al centro, appoggiato sulla gola quando deve toccare le note gravi e sul naso per emettere Fa, Sol e La, alla perenne, e cautissima, ricerca dell’intonazione, che difatti barcolla pericolosamente.
Se il I atto viene superato centellinando ogni fatica e cercando di controllare la linea di canto, che si fa dura già dopo il duetto con Venus, al II la voce di Botha va irrimediabilmente indietro, ripercuotendosi sull’uso corretto della respirazione.
Nel III la voce riprende un pò di colore, ma il racconto del viaggio a Roma, con la sua scrittura bassissima, provoca sbandamenti vistosi nella tenuta del canto e la voce finisce purtroppo per spezzarsi, così a poco serve il monotono fraseggio privo di sfumature e fantasia.
In queste condizioni diventa ovvio il motivo per cui, a ben ragione, il Papa non si degni di perdonarlo!
Terribile l’Elisabeth di Ricarda Merbeth: “Dich teure halle” è fiacco e sporcato da un vibrato eccessivo, da una mancanza di legato e da una intonazione precaria; il duetto successivo sembra più un cordiale ed educato colloquio sulla temperatura del tè e sulla fragranza dei pasticcini; il disperato intervento per salvare Tannhäuser, tutto giocato in partitura su un cantabile, che insiste nella fascia centro-acuta, è privo di nerbo e manca di convincimento; la preghiera finale compitata tra squittii come un meccanico rosario scivola via con discrezione e quasi chiedendo scusa.
A peggiorare le cose un fraseggio da Barbarina che cerca invan la spilla ed un timbro aggraziato, ma lezioso e petulante.
Mi aspettavo molto dal Wolfram di Boaz Daniel, ascoltato con esiti più che positivi in Gunther e Marchese di Posa.
Ricordavo un timbro più compatto ed un fraseggio più fantasioso uniti ad un timbro scuro e prezioso: a Torino purtroppo faceva capolino la gola per sostenere un’emissione fattasi fragile e nemmeno il fraseggio, anch’esso monotono, e sorprendentemente senza poesia, poteva fare ben poco.
Censurabile la prova di Michaela Schuster, Venus mezzosopranile più vicina alle ire di Fricka che alla seduzione di una Dea classica, in cui il solo registro centrale risultava veramente timbrato, ma irrimediabilmente querulo e senza vellutata sensualità.
La voce priva di legato, di un vero sostegno per il passaggio, portava il timbro ad inaridirsi letteralmente sugli acuti (i La solo brevemente toccati più che tenuti) o rendeva il registro grave più affine alla parola intonata: insomma, nessuna delle caratteristiche della tessitura e delle caratteristiche di un personaggio così sfaccettato viene minimamente risolto dalla Schuster.
Parecchi gradini sopra tutti si staglia Kwangchul Youn, il Langravio.
Timbro da vero basso, non un basso-baritono o un baritono spacciato per tale com’è la moda oggi, sostenuto da una buona tecnica che gli consente di coprire tutta l’estensione e di ravvivare con un fraseggio dai toni nobili e paterni i monologhi del II atto, ed una proiezione che gli permette di svettare nei concertati lasciandosi dietro tutte le voci ridotte a poltiglia sonora con il coro.
Nei brevi ruoli di contorno, il Biterolf di Jochen Schmeckenbecher viene assimilato, come da trita tradizione, ad un Alberich o Telramund rozzo, vociferante e traballante; il Walther di Jörg Schneider è leggerino, ma decoroso.
Simpatico e acerbo il pastore di Erika Grimaldi, che evita abilmente tutte le prescrizioni espressive richieste da Wagner.
Coro preparato da Roberto Gabbiani, dai timbri purtroppo secchi, pieni di vibrazioni e dalla dubbia intonazione, soprattutto nel settore femminile.
Siamo passatisti, siamo cattivi, siamo puntigliosi, ma anche noi abbiamo un cuore e ci piace emozionarci per le cose belle e condividere questa emozione con il pubblico.
“Eppur così non è” direbbe Gurnemanz.
Semyon Bychkov, alla direzione, ha con il “Tannhauser” lo stesso problema, che Fournillier aveva con “Adriana Lecouvreur”: la ricerca ossessiva di citazioni, temi, similitudini e confronti all’interno della partitura.
Se Fournillier applicava questa ricerca incrociando Cilea con lo stile dei compositori a lui contemporanei, Bychkov la applica allo stesso Wagner, partendo dalla versione di Vienna del 1875, preparata dallo stesso compositore sul materiale di Dresda e Parigi, con qualche modifica,
Fin qui nulla di scandaloso, se si pensa che all’epoca Wagner aveva già composto quasi tutta la Tetralogia con rinnovata sensibilità artistica, e quindi il discorso di Bychkov poteva, da questo punto di vista, offrire una chiave di lettura sinfonica inedita, ma il risultato finale escogitato dal direttore d’orchestra trasforma “Tannhäuser”, in un “pastiche”ottocentesco su testo e musiche di Richard Wagner, perdendo la strada tracciata dalla partitura e dal compositore.
Bychkov legge l’ouverture come se si trattasse del preludio di “Tristan und Isolde” inserendo lo stesso tempo indugiante, ma trattenendolo e appesantendolo fino alla catatonia, così i temi bellissimi dei pellegrini e del pentimento vengono letteralmente risucchiati negli incongruenti vortici del pessimismo tristaniano; tutto il Baccanale che segue, ha le sonorità lente e sacrali del preludio del “Parsifal”, ma filtrati da tempi e modi assurdamente marziali, come se le baccanti ed i satiri invece di inseguirsi per consumare gioiosi amplessi, marciassero fieri, a passo dell’oca e fucile in spalla, verso il Vietnam, così da mortificare il canto delle sirene, trasformate in questo caso, in prefiche che seguono una salma! Se proprio “Parsifal” doveva essere, perchè non usare i colori della scena delle fanciulle-fiore?
Stessa cosa dicasi per la sublime “Marcia” dei nobili e cavaliere che prelude alla tenzone, con il suo tempo Allegro ed il suo grandioso coro: con Bychkov questo momento squisitamente sinfonico diventa il pesantissimo e retorico ritorno dei soldati dalla guerra, pronti magari a farne un’altra; il duetto Venus- Tannhäuser, richiama più Ortrud-Telramund nel suo clima inutilmente minaccioso che il dialogo di due amanti che stanno per abbandonarsi; ancora “Tristan” per la melopea del pastorello e qui potrebbe anche essere una buona citazione, ma perchè usare il caos della baruffa dei “Meistersinger” in ogni concertato facendo sparire le voci in un marasma orchestrale confuso e privo di brio o di qualunque spunto drammatico?
Tempi lenti, lentissimi, dunque, fino alla narcolessia, che probabilmente dovrebbero, nelle intenzioni, dipingere un groviglio di finezze e sensualità, ma evocano solo noia e mollezza, alternati a velocità improvvise, con la grave pecca peggiorativa costituita da archi e ottoni stridenti e dall’intonazione inquinata, che solo in parte compromettono il buon suono dell’orchestra.
Johan Botha, al suo debutto nel ruolo, avrebbe la voce adatta, al massimo, per Walther der Vogelweide, ma assolutamente non per Tannhäuser!
Timbro chiaro e gradevole al centro, appoggiato sulla gola quando deve toccare le note gravi e sul naso per emettere Fa, Sol e La, alla perenne, e cautissima, ricerca dell’intonazione, che difatti barcolla pericolosamente.
Se il I atto viene superato centellinando ogni fatica e cercando di controllare la linea di canto, che si fa dura già dopo il duetto con Venus, al II la voce di Botha va irrimediabilmente indietro, ripercuotendosi sull’uso corretto della respirazione.
Nel III la voce riprende un pò di colore, ma il racconto del viaggio a Roma, con la sua scrittura bassissima, provoca sbandamenti vistosi nella tenuta del canto e la voce finisce purtroppo per spezzarsi, così a poco serve il monotono fraseggio privo di sfumature e fantasia.
In queste condizioni diventa ovvio il motivo per cui, a ben ragione, il Papa non si degni di perdonarlo!
Terribile l’Elisabeth di Ricarda Merbeth: “Dich teure halle” è fiacco e sporcato da un vibrato eccessivo, da una mancanza di legato e da una intonazione precaria; il duetto successivo sembra più un cordiale ed educato colloquio sulla temperatura del tè e sulla fragranza dei pasticcini; il disperato intervento per salvare Tannhäuser, tutto giocato in partitura su un cantabile, che insiste nella fascia centro-acuta, è privo di nerbo e manca di convincimento; la preghiera finale compitata tra squittii come un meccanico rosario scivola via con discrezione e quasi chiedendo scusa.
A peggiorare le cose un fraseggio da Barbarina che cerca invan la spilla ed un timbro aggraziato, ma lezioso e petulante.
Mi aspettavo molto dal Wolfram di Boaz Daniel, ascoltato con esiti più che positivi in Gunther e Marchese di Posa.
Ricordavo un timbro più compatto ed un fraseggio più fantasioso uniti ad un timbro scuro e prezioso: a Torino purtroppo faceva capolino la gola per sostenere un’emissione fattasi fragile e nemmeno il fraseggio, anch’esso monotono, e sorprendentemente senza poesia, poteva fare ben poco.
Censurabile la prova di Michaela Schuster, Venus mezzosopranile più vicina alle ire di Fricka che alla seduzione di una Dea classica, in cui il solo registro centrale risultava veramente timbrato, ma irrimediabilmente querulo e senza vellutata sensualità.
La voce priva di legato, di un vero sostegno per il passaggio, portava il timbro ad inaridirsi letteralmente sugli acuti (i La solo brevemente toccati più che tenuti) o rendeva il registro grave più affine alla parola intonata: insomma, nessuna delle caratteristiche della tessitura e delle caratteristiche di un personaggio così sfaccettato viene minimamente risolto dalla Schuster.
Parecchi gradini sopra tutti si staglia Kwangchul Youn, il Langravio.
Timbro da vero basso, non un basso-baritono o un baritono spacciato per tale com’è la moda oggi, sostenuto da una buona tecnica che gli consente di coprire tutta l’estensione e di ravvivare con un fraseggio dai toni nobili e paterni i monologhi del II atto, ed una proiezione che gli permette di svettare nei concertati lasciandosi dietro tutte le voci ridotte a poltiglia sonora con il coro.
Nei brevi ruoli di contorno, il Biterolf di Jochen Schmeckenbecher viene assimilato, come da trita tradizione, ad un Alberich o Telramund rozzo, vociferante e traballante; il Walther di Jörg Schneider è leggerino, ma decoroso.
Simpatico e acerbo il pastore di Erika Grimaldi, che evita abilmente tutte le prescrizioni espressive richieste da Wagner.
Coro preparato da Roberto Gabbiani, dai timbri purtroppo secchi, pieni di vibrazioni e dalla dubbia intonazione, soprattutto nel settore femminile.
Ho ascoltato la Merbeth nel "Fliegender Holländer" a la Deutsche Oper am Rhein nel gennaio scorso. Mediocrissima. Con un vibrato molto disturbante negli acuti et un fraseggio poco interessante.
Kwangchul Youn ho ascoltato come Gurnemanz a Bayreuth nel 2009 e lo considero un vero artista. Fra tutte le buffonerie vocali e teatrali del festival integrale Youn (con suo Gurnemanz come anche con suo Fafner e Hunding) è stato per me il piu grande e genuino evento e rendimento artistico del festival, un artista degno di questo nome e capace di procurare una vera esperienza trascendentale. Nel ultimo atto lui e Gatti hano fatto un miracolo. (Anche Ventris non ha rovinato niente e la Fujimura ha bellamente taciuto…)
Mi scusate il mio italiano primitivo e grazie per questo blog fantastico…
io parto senpre da un presupposto che il pubblico si divide in due categorie un pubblico che piace ascoltare magari anche preparato però diciamo piace assistere e anche passare una bella serata,e il pubblico di melomani,quindi è chiaro che il punto di vista del primo,quasi sempre non coincide con quello dei melomani,anche questo spiega il tribudio del pubblico "normale" e la vostra freddezza(freddezza che faccio un po anche mia) ,ma qui in sala si è visto un concerto piu che dignitoso,cè stato qualche insufficienza ed esitazione da parte di Johan Botha(giudizio da pubblico normale) e Michaela Schuster abbastanza becera, ma per il resto passabile,(ai livelli attuali di cantanti che ci sono in giro)il coro mi è piaciuto,come anche l'orchestra.Mi piace molto quest'opera dove Wagner si ispira ancora un po al romanticismo e al bel canto
Ringrazio Giuditta Pasta per i complimenti al Blog e per la bella testimonianza di cui condivido i pareri espressi sui cantanti.
Spero continuerai a seguirci e non preoccuparti del tuo italiano, va benissimo così com'è ^_^
Pasquale:
a me fa davvero piacere che il pubblico Torinese si sia spellato le mani fino all'entusiasmo per Bychkov e compagnia, e mi fa piacere se avete passato (tu ed il pubblico) una bella serata di musica e canto e ho la convinzione che alla gente, ritornando a casa contenta per l'esioto della serata, sia venuta voglia di ascoltare una bella edizione di Tannhauser!
Se Bychkov avesse diretto come nell'Elektra scaligera, probabilmente avrei ancora le mani doloranti per gli applausi.
Mettere in scena Tannhauser oggi è difficile e Torino-Milano-Roma-Trieste hanno cercato di riunire cast dignitosi, non il meglio, ma qualcosa di credibile.
Da amante di Wagner, ciò che ho sentito, non mi ha purtroppo entusiasmato.
Dico, appunto, purtroppo, perchè mi piacerebbe scrivere tutto il bene possibile di tutti i membri del cast invece di elogiare solo l'unico adatto al ruolo: il Langravio.
Aggiungo: se per Botha-Merbeth-Daniel-Schuster-Youn-Bychkov il pubblico ha reagito così, in un cast formato da Kollo-Studer-Weikl-Meier-Salminen-Sinopoli come minimo si sarebbe squarciato il velo del tempio e si sarebbe dovuto chiamare l'esercito per frenare il delirio ^_^
Va benissimo divertirsi e passare una bella serata, ma diamo il giusto valore alle cose e riconosciamo le cose belle quando ci sono e viceversa.
Marianne Brandt
Anche a Milano è andato in scena Tannhäuser.
E anche qui, davvero, un ottimo Langravio: Georg Zeppenfeld. una vera scoperta: voce bella, non molto ampia, ma estesa, omogenea che non si ingolfa minimamente quando sale. La Harteros segue a ruota: perfetta non è di certo, ma visto quello che offre il mercato è stata perlomeno decorosa. Robert Dean Smith non sa cosa sia il passaggio di registro: da qui una voce aperta, opaca, priva di squillo, oltre che a disagio nel legato. ma ha una buona resistenza diciamo, per cui arriva quantomeno alla fine della serata con decoro (non si prende l'insufficienza viste le alternative….). Wolfram pessimo, così come venere. Mehta molto pesante e fracassone nel primo atto (ouverture, baccanale), poi davvero notevole per la sicurezza, il lirisimo per nulla linfatico. E coro eccezzionale (tolto lo sfasamento del primo atto). E regia con grandi momenti (a livello visivo) anche se infarcita di cose inutili. In fin dei conti uno spettacolo gradevole (viste le punte massime raggiunge da orchestra e coro, abbinate ad un aspetto visivo spesso fantasioso).
Detto in termini succinti.
saluti a tutti
emanuele
Zeppenfeld assieme a Kwangchul Youn, Hans Peter Konig, Gunther Groissbock e Ain Anger rappresentano la nuova e promettentissima, secondo me, generazione di bassi con la voce da BASSO, quindi ben venga che l'Italia se ne sia accorta e li scritturi a più riprese, se lo meritano e sanno, finalmente cantare!
Mi spiace per Dean Smith che, come Botha, per mancanza di alternative tenorili si sta buttando nel gorgo di ruoli sempre più estremi per la sua voce (Tristan, Tannhauser, invece di approfondire Erik, Lohengrin, Walther, Siegmund e Parsifal), ma i tenori lirici sono come i mezzosoprani acuti quando si mettono in testa di fare i sopranoni assoluti.
Su Trekel e la Gertseva devo dire me lo aspettavo come per la prova discutibile della Venus della Schuster; non condivido il consenso che hanno in altri teatri, soprattutto nel caso della Gertseva.
Grazie per la tua testimonianza Emanuele.
Marianne Brandt
sono reduce dalla rappresentazione toirinese di sabato: mi sono spellato le mani applaudendo per un buon quarto d´ora e non condivido, dunque, i vostri pareri assai tiepidi. Il Tannhäuser (Umlaut, bitte!) scaligero precedente all´attuale, quello cioé di Tate, era assai soporifero e spento. A Torino ero letteralmente soggiogato dalla direzione d´orchestra e soddisfatto della resa vocale. Chiaro, dove trovare oggi un tenore come si deve? ma Venere ed Elisabetta erano brave, con una resa drammatica della prima e molta passione. Wolfram semi orrido. Ora mi resta l´esecuzione milanese, che andro´a sentire mercoledí ma… temo la regia. Che bello, a Torino, non essere disturbati da ´spiritose invenzioni´…
EnricoMaria Nevrklová, Lecco