Vorremmo uniformarci al precetto pasquale di imminente applicazione e parlarvi con animo lieto e giocondo dell’Elisir d’amore andato in scena ieri sera al Comunale di Bologna. Purtroppo, come ci insegna la Storia, non sempre le aspirazioni individuali, neppure le più legittime, sono destinate a realizzarsi.
La settimana scorsa June Anderson ha dimostrato in terra felsinea che si può fare arte anche nel più minuscolo dei teatrini di provincia. Ieri sera la sovrintendenza bolognese ha ribadito, per l’ennesima volta, che il blasone di un teatro non lo mette automaticamente al riparo dal rischio di proporre spettacoli, a esser buoni, parrocchiali.
Non è questione, come sicuramente obietteranno i nostri più fidati lettori, di non sapere apprezzare l’apporto, magari claudicante ma così vitale, delle giovani forze destinate a portare nuova linfa al teatro. O magari di non voler bene al Teatro bolognese, quasi fosse un parente o un amico di vecchia data.
L’Elisir in questione, presentato alla stampa e dalla stampa come spettacolo dei cadetti della Scuola dell’opera, di scolastico ha in realtà ben poco. Di quattro prime parti ben tre sono state affidate a cantanti in piena carriera, per i quali le attenuanti legate alla scarsa esperienza sulle tavole del palcoscenico non possono e non debbono valere. Si conferma così la tendenza lanciata dal Don Pasquale dello scorso anno e ripresa in questa stagione dall’Idomeneo: si assembla un cast di professionisti, magari al debutto nelle rispettive parti, e lo si “tutela” affiancandovi, al massimo, una o due nuove leve. L’amore per i giovani, tanto sbandierato da questa sovrintendenza, ha molto della carità pelosa di dapontiana memoria.
Però poi nessuno si stupisca se il teatro, malgrado i prezzi stracciati, stenta a riempirsi. Ieri, all’abbassarsi delle luci, c’erano molti posti vuoti in platea e almeno quindici palchi completamente deserti. E questo certo non si può imputare alla rarità del titolo prescelto.
Venendo ai cantanti, la prova di Juan Francisco Gatell non riesce a dissipare le perplessità che questo giovane artista suscita a ogni nuova apparizione sui nostri palcoscenici. La voce è piccola, ma questo è un difetto che si avverte poco, in una sala dalle dimensioni contenute come quella del Bibiena. Assai più grave è che sia bianchiccia e tremolante, indice di un’emissione poco sicura e bloccata in gola. Quindi non solo poco squillo e nessuna espansione all’acuto (Nemorino sta in acuto assai poco, del resto), ma, e questo è decisamente più grave, una dinamica inesistente, bloccata su un costante “forte” (che poi, dato il ridotto spessore vocale, è di fatto un “mezzoforte”), nessun colore, nessuna smorzatura, nessuna idea di fraseggio degna di questo nome. Stenta e falsetta alla sortita, davvero spettrale, accenna al duetto con Adina, canta di dote naturale (che non è molta, ma è sufficiente in questo contesto) il duetto con Dulcamara e deve quindi tornare a suoni larvali per il finale d’atto, in cui si confonde letteralmente nel coro. Al secondo atto la musica non cambia: pallido e privo di poesia il duetto con Belcore, un poco meglio la scena con le ragazze in cui accenta se non altro con proprietà il passaggio “Io già m’immagino che cosa brami”. La “Furtiva lagrima” è cantata con voce un poco più piena e addirittura, nella seconda strofa, un accenno di forcella, risolta però malamente e con qualche scivolata d’intonazione. Il pubblico gli ha decretato un piccolo trionfo, anche per la buona resa scenica, ma di qui a parlare di grande prova… ci vuole un amore di cui, ahinoi, non disponiamo!
Gezim Myshketa, che un paio d’anni fa aveva dimostrato un certo garbo nello sciagurato adattamento dell’Orphée realizzato dai fratelli Alagna, ha inteso assecondare sul piano vocale la regia, che dipinge Belcore come una sorta di bulletto di periferia. La voce è grossa ma non ampia, per limiti tecnici più che per limitata natura, di colore chiaro, che il cantante si sforza di bitumare nel malinteso tentativo di renderla più seducente o magari più adatta a un “villain”, abbastanza squillante in acuto, tanto da suscitare il sospetto di trovarci di fronte all’ennesimo tenore, reso baritono dall’impossibilità di eseguire correttamente il passaggio di registro. La sortita dimostra l’assoluta incapacità del cantante di eseguire le agilità previste, risolte con un borbottio poco rassicurante. Nel canto del baritono albanese si cercherebbero invano la dinamica sfumata, le mezzevoci insinuanti, le mille inflessioni della seduzione baldanzosa, ma sempre elegantissima, dell’azzimato sergente. Quelle inflessioni che erano verosimilmente la cifra dei grandi Belcore ottocenteschi, da Tamburini a Battistini, sino a don Antonio Scotti, di cui proponiamo la sortita, per ogni opportuno confronto. Ora, senza arrivare a imitarli in tutto, Myshketa potrebbe trarre sicuro giovamento da una respirazione un poco più solida, sulla scorta di simili modelli. Ieri sera il suo voluminoso torace denotava, nella sua immobilità, una totale latitanza in tal senso.
Michele Pertusi, ormai, dopo l’esperienza del Don Pasquale, deputato “coach” della Scuola dell’Opera, ritorna a Bologna con una parte quanto mai acconcia alle sue attuali condizioni vocali. A poco serve ripulire il personaggio dalle caccole di tradizione, quando ciò che resta è un canto legnoso e opaco, privo della cavata del vero basso come della saldezza in alto del baritono, faticosissimo nei tanti sillabati previsti dal ruolo (segnatamente nei duetti). Anche lui, al pari di Gatell, in assieme fatica a spiccare ed è facilmente coperto dall’orchestra.
Veniamo ad Anna Corvino, unica vera allieva della serata fra le prime parti. L’anno scorso la giovane artista aveva cantato, sempre a Bologna, una recita di Rigoletto affidata (stavolta per davvero) ai cadetti della Scuola dell’Opera. Siccome, a dispetto della vulgata corrente, siamo davvero buoni e misericordiosi, ci eravamo astenuti dal recensire quella Gilda, diciamo, stentata. Nell’Elisir la Corvino trova una parte decisamente più consona ai suoni mezzi naturali, che sono quelli del soprano leggero. Di certi soprani leggeri del passato la cantante, sia detto en passant, possiede anche la giunonica complessione, che la regia non si perita di mettere in evidenza con minigonne e shorts. Purtroppo il parallelo termina qui, perché l’impostazione canora è meno che da principiante. La voce, in difetto di appoggio (un difetto che appare ricorrente fra le fila degli allievi bolognesi), suona chioccia al centro, prossima all’inesistente in basso, stridula in alto, fascia in cui l’intonazione non è sempre impeccabile, specie negli acuti generosamente interpolati in chiusura delle arie. L’assenza di una corretta emissione impedisce alla cantante di legare le frasi a dovere e all’interprete di delineare un personaggio che non sia smanceroso e manierato.
Si taccia della Giannetta di Anna Maria Sarra, poco o nulla udibile. Per fortuna.
Sotto la direzione di Daniele Rustioni l’orchestra e il coro hanno offerto una prova un poco più dignitosa di quella proposta nell’Idomeneo. Certo, malgrado la rotazione delle bacchette, la gestione dei concertati (stretta dell’introduzione, finale primo, scena delle fanciulle al secondo atto) rimane a dir poco problematica e induce a interrogarsi, prima ancora che sul livello di preparazione, sulla capacità di concentrazione della masse artistiche del Teatro. Poi, come per i cantanti, sarebbe vano attendersi una direzione capace di differenziare, nel duetto Adina-Nemorino, le frasi, musicalmente identiche, che accompagnano le frivole dichiarazioni della giovane e le malinconiche riflessioni del suo innamorato, o ancora, nel concertato “Adina credimi”, dinamiche e colori diversi per i differenti stati d’animo dei personaggi e del coro. Mancano poi completamente a questo Elisir la grazia della commedia fintamente popolaresca e l’elegia del personaggio di Nemorino, soprattutto al secondo atto. C’è un discreto ritmo, e nulla più. In una parola: routine. Di provincia, appunto.
La regia era affidata a Rosetta Cucchi, personalità poliedrica e poliforme, come ci svela il suo curriculum: regista, pianista accompagnatrice di numerosi cantanti, fra cui Mariella Devia, coordinatrice della preparazione musicale presso il ROF e il Festival di Wexford, di cui è anche segretario artistico e che coproduce con il Comunale questo nuovo allestimento di Elisir. La signora Cucchi è inoltre direttore artistico del Lugo Opera Festival e della Fondazione Toscanini di Parma. Ovvio che non le resti molto tempo per dedicarsi alla regia, e quindi non stupisce che questo Elisir ricicli la solita idea (già vista dozzine di volte, specie nei teatri tedeschi) dell’ambientazione moderna in un contesto scolastico, tra “Grease”, “Saranno famosi” e un film a caso di John Hugues. Il giochino funziona discretamente, se si eccettua il già citato fraintendimento della figura di Belcore, cui si sarebbe potuto rimediare facendo del reggimento una sorta di accademia militare, in modo da salvare i riferimenti al forzoso arruolamento di Nemorino e al “fatale contratto” riscattato da Adina. Resta però da chiarire come possano risultare credibili, in un contesto metropolitano e contemporaneo, i richiami ai “rustici” da parte di un Dulcamara vestito come un vecchio hippie e soprattutto la disarmante credulità di Nemorino, la cui limitata esperienza del mondo mal si addice a un teenager di oggi.
Chiudiamo, al solito, con qualche ascolto, precisando che le Furtive lagrime proposte appartengono a cantanti che si sono esibiti nel titolo a Bologna. Vorremmo dedicare questi ascolti non al sovrintendente e direttore artistico Marco Tutino, che sicuramente li conosce benissimo (è il suo lavoro) e che ieri sera sedeva nel suo palco, applaudendo con grande entusiasmo gli interpreti da lui stesso scelti, bensì a quegli spettatori, ieri sera in visibilio per le prodezze vocali e sceniche di questo Elisir, che forse ne ignorano anche l’esistenza. Speriamo vivamente che, ad ascolto avvenuto, qualcuno fra tali plaudenti possa, una volta censurata la cattiveria, malafede e presunzione che abbiamo dimostrato in queste poche righe, farci sapere se e come tale ascolto abbia modificato la percezione della serata di ieri.
Quasi dimenticavo: che bell’opera l’Elisir! Che bella musica!
La settimana scorsa June Anderson ha dimostrato in terra felsinea che si può fare arte anche nel più minuscolo dei teatrini di provincia. Ieri sera la sovrintendenza bolognese ha ribadito, per l’ennesima volta, che il blasone di un teatro non lo mette automaticamente al riparo dal rischio di proporre spettacoli, a esser buoni, parrocchiali.
Non è questione, come sicuramente obietteranno i nostri più fidati lettori, di non sapere apprezzare l’apporto, magari claudicante ma così vitale, delle giovani forze destinate a portare nuova linfa al teatro. O magari di non voler bene al Teatro bolognese, quasi fosse un parente o un amico di vecchia data.
L’Elisir in questione, presentato alla stampa e dalla stampa come spettacolo dei cadetti della Scuola dell’opera, di scolastico ha in realtà ben poco. Di quattro prime parti ben tre sono state affidate a cantanti in piena carriera, per i quali le attenuanti legate alla scarsa esperienza sulle tavole del palcoscenico non possono e non debbono valere. Si conferma così la tendenza lanciata dal Don Pasquale dello scorso anno e ripresa in questa stagione dall’Idomeneo: si assembla un cast di professionisti, magari al debutto nelle rispettive parti, e lo si “tutela” affiancandovi, al massimo, una o due nuove leve. L’amore per i giovani, tanto sbandierato da questa sovrintendenza, ha molto della carità pelosa di dapontiana memoria.
Però poi nessuno si stupisca se il teatro, malgrado i prezzi stracciati, stenta a riempirsi. Ieri, all’abbassarsi delle luci, c’erano molti posti vuoti in platea e almeno quindici palchi completamente deserti. E questo certo non si può imputare alla rarità del titolo prescelto.
Venendo ai cantanti, la prova di Juan Francisco Gatell non riesce a dissipare le perplessità che questo giovane artista suscita a ogni nuova apparizione sui nostri palcoscenici. La voce è piccola, ma questo è un difetto che si avverte poco, in una sala dalle dimensioni contenute come quella del Bibiena. Assai più grave è che sia bianchiccia e tremolante, indice di un’emissione poco sicura e bloccata in gola. Quindi non solo poco squillo e nessuna espansione all’acuto (Nemorino sta in acuto assai poco, del resto), ma, e questo è decisamente più grave, una dinamica inesistente, bloccata su un costante “forte” (che poi, dato il ridotto spessore vocale, è di fatto un “mezzoforte”), nessun colore, nessuna smorzatura, nessuna idea di fraseggio degna di questo nome. Stenta e falsetta alla sortita, davvero spettrale, accenna al duetto con Adina, canta di dote naturale (che non è molta, ma è sufficiente in questo contesto) il duetto con Dulcamara e deve quindi tornare a suoni larvali per il finale d’atto, in cui si confonde letteralmente nel coro. Al secondo atto la musica non cambia: pallido e privo di poesia il duetto con Belcore, un poco meglio la scena con le ragazze in cui accenta se non altro con proprietà il passaggio “Io già m’immagino che cosa brami”. La “Furtiva lagrima” è cantata con voce un poco più piena e addirittura, nella seconda strofa, un accenno di forcella, risolta però malamente e con qualche scivolata d’intonazione. Il pubblico gli ha decretato un piccolo trionfo, anche per la buona resa scenica, ma di qui a parlare di grande prova… ci vuole un amore di cui, ahinoi, non disponiamo!
Gezim Myshketa, che un paio d’anni fa aveva dimostrato un certo garbo nello sciagurato adattamento dell’Orphée realizzato dai fratelli Alagna, ha inteso assecondare sul piano vocale la regia, che dipinge Belcore come una sorta di bulletto di periferia. La voce è grossa ma non ampia, per limiti tecnici più che per limitata natura, di colore chiaro, che il cantante si sforza di bitumare nel malinteso tentativo di renderla più seducente o magari più adatta a un “villain”, abbastanza squillante in acuto, tanto da suscitare il sospetto di trovarci di fronte all’ennesimo tenore, reso baritono dall’impossibilità di eseguire correttamente il passaggio di registro. La sortita dimostra l’assoluta incapacità del cantante di eseguire le agilità previste, risolte con un borbottio poco rassicurante. Nel canto del baritono albanese si cercherebbero invano la dinamica sfumata, le mezzevoci insinuanti, le mille inflessioni della seduzione baldanzosa, ma sempre elegantissima, dell’azzimato sergente. Quelle inflessioni che erano verosimilmente la cifra dei grandi Belcore ottocenteschi, da Tamburini a Battistini, sino a don Antonio Scotti, di cui proponiamo la sortita, per ogni opportuno confronto. Ora, senza arrivare a imitarli in tutto, Myshketa potrebbe trarre sicuro giovamento da una respirazione un poco più solida, sulla scorta di simili modelli. Ieri sera il suo voluminoso torace denotava, nella sua immobilità, una totale latitanza in tal senso.
Michele Pertusi, ormai, dopo l’esperienza del Don Pasquale, deputato “coach” della Scuola dell’Opera, ritorna a Bologna con una parte quanto mai acconcia alle sue attuali condizioni vocali. A poco serve ripulire il personaggio dalle caccole di tradizione, quando ciò che resta è un canto legnoso e opaco, privo della cavata del vero basso come della saldezza in alto del baritono, faticosissimo nei tanti sillabati previsti dal ruolo (segnatamente nei duetti). Anche lui, al pari di Gatell, in assieme fatica a spiccare ed è facilmente coperto dall’orchestra.
Veniamo ad Anna Corvino, unica vera allieva della serata fra le prime parti. L’anno scorso la giovane artista aveva cantato, sempre a Bologna, una recita di Rigoletto affidata (stavolta per davvero) ai cadetti della Scuola dell’Opera. Siccome, a dispetto della vulgata corrente, siamo davvero buoni e misericordiosi, ci eravamo astenuti dal recensire quella Gilda, diciamo, stentata. Nell’Elisir la Corvino trova una parte decisamente più consona ai suoni mezzi naturali, che sono quelli del soprano leggero. Di certi soprani leggeri del passato la cantante, sia detto en passant, possiede anche la giunonica complessione, che la regia non si perita di mettere in evidenza con minigonne e shorts. Purtroppo il parallelo termina qui, perché l’impostazione canora è meno che da principiante. La voce, in difetto di appoggio (un difetto che appare ricorrente fra le fila degli allievi bolognesi), suona chioccia al centro, prossima all’inesistente in basso, stridula in alto, fascia in cui l’intonazione non è sempre impeccabile, specie negli acuti generosamente interpolati in chiusura delle arie. L’assenza di una corretta emissione impedisce alla cantante di legare le frasi a dovere e all’interprete di delineare un personaggio che non sia smanceroso e manierato.
Si taccia della Giannetta di Anna Maria Sarra, poco o nulla udibile. Per fortuna.
Sotto la direzione di Daniele Rustioni l’orchestra e il coro hanno offerto una prova un poco più dignitosa di quella proposta nell’Idomeneo. Certo, malgrado la rotazione delle bacchette, la gestione dei concertati (stretta dell’introduzione, finale primo, scena delle fanciulle al secondo atto) rimane a dir poco problematica e induce a interrogarsi, prima ancora che sul livello di preparazione, sulla capacità di concentrazione della masse artistiche del Teatro. Poi, come per i cantanti, sarebbe vano attendersi una direzione capace di differenziare, nel duetto Adina-Nemorino, le frasi, musicalmente identiche, che accompagnano le frivole dichiarazioni della giovane e le malinconiche riflessioni del suo innamorato, o ancora, nel concertato “Adina credimi”, dinamiche e colori diversi per i differenti stati d’animo dei personaggi e del coro. Mancano poi completamente a questo Elisir la grazia della commedia fintamente popolaresca e l’elegia del personaggio di Nemorino, soprattutto al secondo atto. C’è un discreto ritmo, e nulla più. In una parola: routine. Di provincia, appunto.
La regia era affidata a Rosetta Cucchi, personalità poliedrica e poliforme, come ci svela il suo curriculum: regista, pianista accompagnatrice di numerosi cantanti, fra cui Mariella Devia, coordinatrice della preparazione musicale presso il ROF e il Festival di Wexford, di cui è anche segretario artistico e che coproduce con il Comunale questo nuovo allestimento di Elisir. La signora Cucchi è inoltre direttore artistico del Lugo Opera Festival e della Fondazione Toscanini di Parma. Ovvio che non le resti molto tempo per dedicarsi alla regia, e quindi non stupisce che questo Elisir ricicli la solita idea (già vista dozzine di volte, specie nei teatri tedeschi) dell’ambientazione moderna in un contesto scolastico, tra “Grease”, “Saranno famosi” e un film a caso di John Hugues. Il giochino funziona discretamente, se si eccettua il già citato fraintendimento della figura di Belcore, cui si sarebbe potuto rimediare facendo del reggimento una sorta di accademia militare, in modo da salvare i riferimenti al forzoso arruolamento di Nemorino e al “fatale contratto” riscattato da Adina. Resta però da chiarire come possano risultare credibili, in un contesto metropolitano e contemporaneo, i richiami ai “rustici” da parte di un Dulcamara vestito come un vecchio hippie e soprattutto la disarmante credulità di Nemorino, la cui limitata esperienza del mondo mal si addice a un teenager di oggi.
Chiudiamo, al solito, con qualche ascolto, precisando che le Furtive lagrime proposte appartengono a cantanti che si sono esibiti nel titolo a Bologna. Vorremmo dedicare questi ascolti non al sovrintendente e direttore artistico Marco Tutino, che sicuramente li conosce benissimo (è il suo lavoro) e che ieri sera sedeva nel suo palco, applaudendo con grande entusiasmo gli interpreti da lui stesso scelti, bensì a quegli spettatori, ieri sera in visibilio per le prodezze vocali e sceniche di questo Elisir, che forse ne ignorano anche l’esistenza. Speriamo vivamente che, ad ascolto avvenuto, qualcuno fra tali plaudenti possa, una volta censurata la cattiveria, malafede e presunzione che abbiamo dimostrato in queste poche righe, farci sapere se e come tale ascolto abbia modificato la percezione della serata di ieri.
Quasi dimenticavo: che bell’opera l’Elisir! Che bella musica!
Gli ascolti
Donizetti – L’elisir d’amore
Atto I
Come Paride vezzoso – Antonio Scotti (1905)
Udite, udite, o rustici – Gaetano Azzolini (1927)
Obbligato, ah sì, obbligato – Fernando De Lucia & Ernesto Badini (1907)
Adina credimi – Tito Schipa (1928)
Atto II
Venti scudi – Enrico Caruso & Giuseppe De Luca (1919)
Una furtiva lagrima – Alessandro Bonci (1918), Tito Schipa (1929), Cesare Valletti (1953)
Prendi, per me sei libero – Lina Pagliughi (1934)
Sto sentendo la trasmissione radiofonica di questa Elisir. Non posso che sottoscrivere la recensione di Tamburini.
Pertusi è forse il peggior in campo, considerato che calca i palcoscenici più importanti del mond da anni. A ogni ascolto è sempre più intubato, in alto mai una volta a fuoco la voce. La tentazione di gigioneggiare con ogni personaggio oramai è palese. Deve pensare che possa essere un'attuenuante al suo costante declamato e parlato…
Gatell si riconferma una voce minuscola, in particolare sotto (davvero afono!) La Corvino mi pare abbastanza corretta eccetto qualche grido, ma il tibro è tutt'altro che felice e la sensazione è quella di trovarsi davanti i soliti tre tronconi. Myshketa è indietro e quando sale o è tirato o apre (e quindi non commento la discesa…). Mi sembra un po' poco per un teatro storico come il Comunale, al di là degli applausi sempre copiosi.
Ieri sera il Comunale era pieno, e grazie al cielo non stipato solo di carampane e monumenti ai caduti come avviene di solito all'opera. Gatell ha cantato bene come il resto della compagnia, che non ha esagerato nelle buffonerie da avanspettacolo e nelle gestualità ovvie. Il riferimento visivo, molto "brit" è la pellicola School of Rock, ma probabilmente una regia così europea per i dimessi teatri (e scribacchini) italiani è un po' troppo avanti. E se non ho letto male, la stampa generalista e di settore ha dato buona accoglienza agli interpreti pur esprimendo qualche riserva sul lato visual.
Alla fine anche le "zdore" bolognesi – oltre al popolo di facebook – applaudivano convinte dato che vocalmente non c'è stata una pecca o errore (appena crescente la Corvino): lo spettacolo ha una sua coerenza interna e diversi piani di lettura. In tutti i licei c'è uno sfigato, ma forse il Tamburini ha terminato le scuole prima della riforma Gentile.
Eccellente la direzione e ritmo brioso ma non frenetico, come si conviene ad una commedia e non ad una buffoneria volgare. Per essere sincero avrei dato anche un sforbiciata al testo e spostato veramente tutto al XXI secolo, ma credo che l'idea registica fosse creare una distonia di questo tipo.
Dato che non uso pseudonimimi mi firmo con nome e cognome
Nicola Gandolfi.
Caro Nicola,
sono felice che lo spettacolo abbia "ingranato". Ma ho l'impressione, da quello che dici e da come lo dici, che il tuo rapporto con il teatro d'opera sia un po' troppo recente per potere emettere giudizi così tranchant non sul sottoscritto, che non se ne cura menomamente, ma sul pubblico in genere. Successi di pubblico, chez moi, sono quelli in forza dei quali la sala inizia a svuotarsi solo dopo mezz'ora dalla fine della musica e finisce di svuotarsi dopo un'ora e spesso anche più. Tanto per non smentirmi farò anche il nome dell'artista cui riesce un simile prodigio: Edita Gruberova.
Anche l'idea che Nemorino debba essere uno sfigato.. ti sembra sfigato Schipa? o Bonci? o De Lucia? Sognatore, ingenuo, timido, ma l'immagine del tontolone non mi sembra sia nella musica. Poi certo, se a cantarlo è un tenore che non fa una sfumatura che sia una in tutta la sera (Gatell), per forza si avrà un Nemorino sfigato…
Ottima l'idea di sforbiciare il testo. Massì, che ci frega, bruciamo gli spartiti. Tanto, ormai…
Nemorino uno "sfigato"???!!!!
Sforbiciare il testo???!!!!
Ma come si può dire delle cose così insensate?
Bravo Tamburini per il "…sognatore, ingenuo, timido". E non finisce lì! Quello è solo l'inizio del personaggio di Nemorino. Ma cosa vuoi che capiscano oggi?
Chissà quale grande preparatrice musicale è questa specie di persona che prende il nome di regista in questo spettacolo.
Ecco perchè siamo ridotti come siamo ridotti… con questi "tipi" in giro che allenano i nostri giovani.
Per carità!!!
Non volevo essere scortese, io ho 40 anni, il mio primo abbonamento al Regio di Parma l'ho avuto come regalo per il mio nono compleanno. Ne ho viste di ogni perché ho vissuto e lavorato all'ombra e dentro i teatri (MET, Bastille e Comunale) per un sacco di strane circostanze pur non essendo né musico professionista né cantore, ma lavorandp nel ramo dell'editoria. Il concetto che ho espresso con troppa foga – e mi scuso della mia impulsività – è che oggi anche i critici più famosi intepretano libri, quadri, architetture, cin strumenti ed idee totalmente diverse rispetto a 100 o 500 anni fa. La Gioconda oggi la vediamo con occhi certamente differenti rispetto ai nostri nonni e a quelli dei signori rinascimentali. Mi stupisce come il melodramma i Italia sia così pesantemente ingesssato, elitario, classista, non comunica con la gente. Anche io ho notato le incongruenze ma santo cielo le mietitrici nel 2010 chi le ha mai viste dal vero. Io i cantanti, sarà che mi accontento di poco, li ho trovati grdevoli, e sono uscito contento. La sig. Gruberova ho avuto l'onore di ascoltarla dal vero a Bologna in Puritani ed indubbiamente canta con voce celestiale ma sarà capace di trasmettere questa voce a chi è stato cresciuto a WEB e TV, ad un mondo dove tutto si consuma in pochissimi attimi. Questo è il mio grande dubbio ed anche la mia grande preoccupazione. Ancora mi scuso per la foga del mio precedente intervento, però alcune osservazioni – se mi consentite – erano veramente al limite del credibile rispetto alla recite che ho ascoltato personalmente. Vi auguro una serena Pasqua.
Io non mi scandalizzo di certo per regie provocatorie, spostamenti temporali, libertà, simboli etc… L'unica cosa che mi interessa è il rispetto dei valori musicali, degli equilibri drammatici e del senso ultimo che la musica dà a quel testo (scelto dal compositore). Ci sono regie tradizionali semplicemente orribili (ridicole superate penose), ma ce ne sono altre assolutamente perfette (ad esempio quelle di Strehler). Così pure negli spostamenti temporali, o nelle regie più audaci.
Elisir è opera splendida, profondamente poetica, che mette al centro un giovanotto NON sfigato, NON scemo…ma ingenuo e innamorato, che è pronto a credere (a voler credere) a qualsiasi cosa per realizzare il suo sogno d'amore… Una regia corretta non può prescindere da questo, non può reinventarsi una vicenda e appiccicarla alla musica (magari con INACCETTABILI sforbiciature o adattamenti del testo…). E poi c'è il mondo contadino, simbolo dell'innocenza rurale contro la malafede (cialtrona e furbesca) dell'imbroglione di città, di chi finge di esser colto, di aver visto il mondo…di essere "in ogn'arte professor". Anche questo aspetto deve essere tenuto in considerazione. Poi si faccia quel che si vuole, ma questi due punti d'equilibrio sono necessari a tradurre in teatro la musica di Donizetti…scritta pensando proprio a questi elementi.
Certe frasi poetiche di Nemorino, da "Adina credimi, te ne scongiuro" al duetto con Dulcamara "Ah dottore, vi do parola ch'io berrò per una sola, né per altra, e sia pur bella, né una stilla avanzerà…" o il duetto con Adina "Chiedi al rio…" o nella stretta "Col cangiarsi qual tu fai, può cangiarsi ogn'altro amor, ma non può, non può giammai, il primiero uscir dal cor…", e la musica che le accompagna non ci stanno in bocca a uno sfigato… Elisir è un'opera di grandissima poesia, malinconica, romantica, una commedia elegante e commovente, di raffinatezza quasi mozartiana. Non può essere banalizzata.
Un allestimento a mio avviso splendido è quello di Pelly (non nuovissimo) e che vedremo a ottobre alla Scala (a cui non mancherò), che trasporta la vicenda in un'Italia anni '50, in una campagna lombarda, con campi di grano bruciati dal sole, cieli azzurro pallido per l'umidità padana, vespe e trattori, e grilli e cicale che di notte riempiono il silenzio. Gli equilibri drammatici sono rispettati e il senso della musica è pienamente salvaguardato. Quello è un esempio di regia intelligente, che non ripropone la cartapesta o i soliti cliché, ma attraverso una cura quasi cinematografica, non tradisce la musica di Donizetti.
Nicola, il problema non sono certo le mietitrici, ma il fatto che oggi il canto è, nello spettacolo lirico, un dato secondario, di contorno, se non addirittura di sfondo. Hai presente il video dell'Eliris con Renata Scotto? Vocalmente non è certo la Sutherland, scenicamente bamboleggia non poco, ma c'è nel canto, nel fraseggio, una verità, un'esattezza, uno scavo della parola ATTRAVERSO la musica che non può non conquistare lo spettatore, di qualunque età ed esperienza pregressa di ascolto. E' quella magia che manca all'ultimo Elisir del Comunale e che in genere è così difficile da trovare. La Scotto "comunica", la Corvino potrà suscitare simpatia e tenerezza, al pari dei tanti aspiranti che affollano i palinsesti televisivi, ma allo stadio attuale "comunica" assai poco. E non perché non abbia la voce (che voce era quella della Scotto?), ma perché non la sa (ancora?) usare con la necessaria finezza e se anche la sapesse usare non avrebbe lo spazio per utilizzarla, perché oggi mancano direttori e registi capaci di garantire al cantante quello spazio di libertà, di creazione personale, che un tempo c'era. La Corvino, comunque, deve ancora studiare, e tanto. Ma siccome oggi non si studia, come ha giustamente ricordato la centenaria (e lucidissima) signora Olivero, i risultati sono quelli che sono, ovvero modesti. "Chi si accontenta gode", del resto.
La Gruberova dice poco al pubblico del fast food lirico? Ma il problema è del pubblico, non della Gruberova. Tu che cosa suggerisci? Un bel lifting? Suvvia! E comunque il pubblico di Vienna, Barcellona e Milano (per citare giusto tre piazze in cui ho visto la Gruberova anche di recente) non è certo tutto fatto di cariatidi… come noi.
Quanto poi alle mie osservazioni "al limite del credibile", ti invito a elencarmele. Sono pronto a rispondere su tutto.
Auguri.
Bravo, Signor Tamburini! Per una volta sono d’accordo con Lei: “uno scavo della parola ATTRAVERSO la musica che non può non conquistare lo spettatore, di qualunque età ed esperienza pregressa di ascolto”. La parola, sì, la parola!!! Molte volte ho l’impressione che né i cantanti né i reggisti capiscano i libretti! Non è che il maestro Triola avrebbe bisogno di un docente di Letteratura alla SOI? Mi sembra che tra le miriadi di esperti e docenti di ogni materia che lui ha nella sua fondazione manchi un letterato! Sarebbe certo un’ottimo investimento!
Poi, spolverare il libretto dell’Elisir… ma stiamo parlando del Romani, forse non un altissimo poeta, ma certo un abilissimo versificatore e un grande conoscitore della lingua! Sono anche d’accordo con il signor Duprez sul valore poetico dell’Elisir: il Romani ha saputo almeno rivestire con una forma elegante concetti ben tritti, e questo è arte!
Poi, in riguardo agli aggiornamenti, tagli ecc. ci siamo davanti ad una aporia: se queste opere sono davvero opere d’arte, non hanno bisogno di aggiornamenti (qualcuno ha mai pensato di rifare il Partenone, riscrivere Sallustio portando la congiura di Catilina al XX secolo?); se, invece, hanno bisogno di aggiornarsi, non sono opere d’arte. Si scelga.
Comunque mi permetta di dire, forse impiegando qualche turpiloquio, che, chi ebbe l'idea di portare in scena una High-School americana (o inglese che sia) invece di un idilico villaggio di un'epoca indeterminata, è stato un vero cafone! Perché l'iconografia dei films-spazzatura americani deve essere più vicina al pubblico di un topico della letteratura, non dico italiana, ma europea! Ma certo, è caratteristico dei cosidetti divulgatori/addattatori credere che ognuno sia così ignorante e asino come loro! Insomma, più serietà!
"uno scavo della parola ATTRAVERSO la musica che non può non conquistare lo spettatore, di qualunque età ed esperienza pregressa di ascolto"
Non afferro il significato di questa frase. La regia di Pelly è quella che ricorda "La bella di Lodi" di Arbasino? Va ben, ci tengo a spiegare che io ho inteso lodare la sig. Gruberova ma quando si hanno degli interlocutori così convinti delle proprie posizioni non c'è molto da dialogare. Il problema è esattmente lo stesso che ho inteso sottolineare io usando le mie parole e senza citare la sig. Olivero ed il suo sublime secolo "tutto si brucia troppo alla svelta" ma anche da parte delle aspettative del pubblico che non ha pazienza. Siete fortunati ad avere convizioni solide come lo sfero di Parmenide, ed altrettanto vere ed antiche. Buona Pasqua.
Ramon: grazie dell'intervento, soprattutto perché viene da una persona con cui il dibattito sulla Scuola dell'Opera è stato, in passato, anche aspro, senza che venisse meno il rispetto reciproco.
Nicola: il pubblico ha tanta pazienza, forse più di quanto non si creda o non si speri in certi ambienti. Ma chi si presenta al pubblico di un teatro con la storia e la tradizione del Comunale, non può aspettarsi la stessa benevolenza riservata al Circuito ASLICO o ai teatri di tradizione di Emilia e Toscana. Ci si brucia perché si vuole partire "dall'alto", dimentichi che non tutti (anzi, quasi nessuno) sono Rosa Ponselle o Grace Bumbry.
E poi citare Parmenide a dei poveri cantanti ignoranti e retrogradi… che mancanza di tatto!!!
Per la frase incriminata: basta ascoltare la Scotto, è tutto lì. C'è anche su Youtube, se non si vuole fare la fatica di comprare il video.