Attila, radiotrasmesso ieri sera ed in scena da una decina di giorni al Met di New York è stato il debutto sul podio del primo teatro degli Stati Uniti d’America di Riccardo Muti, ormai prossimo ai settant’anni. Debutto atteso per il pubblico e soprattutto per il direttore, che da tempo non aggiungeva, dopo i noti fatti della Scala un podio di rilievo.
Attila è un titolo che Riccardo Muti ben conosce, atteso che il suo primo incontro risale al 1970 presso la Rai, allora artisticamente guidata dal mentore di Muti, ossia Francesco Siciliani. Più volte il maestro di Molfetta è tornato ad affrontare il testo verdiano. Voglio credere che presto avremo il tempo di una disamina attenta dei vari incontri fra Muti ed Attila.
Era poi, un debutto per il titolo sulle scene del Met. E ui il rimpianto di un antico approdo è molto perché , per giocare al fantacast nel 1930 sul palcoscenico si sarebbe potuto sentire e vedere un Attila irraggiungibile ed impensabile con Ezio Pinza, Lawrence Tibbett/Giuseppe de Luca/ Giuseppe Danise, Giovanni Martinelli/Giacomo Lauri Volpi, Elisabeth Rethberg sotto la guida verdianissima di un Ettore Panizza o di un Tullio Serafin.
Oggi, a conti fatti, il pubblico newyorkese di quel che ottantenni a poteva essere la prassi ha potuto sperimentare solo una direzione verdiana.
La direzione di Riccardo Muti è stata della ripresa radiofonica l’aspetto migliore. Il preludio, l’introduzione al quadro di Aquileja con il levar del sole (che era un sole di una caldo luglio lagunare, per lo splendore ed il turgore dell’orchestra) il colore fosco che accompagna il peregrinare di Odabella in attesa di Foresto, lo stacco ed il piglio di molte scene fra cui la stretta del duetto fra i due amanti, l’apparizione di Leone e tutto il finale primo sono veramente splendidi da sentire e verdiani nella accezione e diffusa e condivisibile del termine. Spesso l’orchestra e con lei il direttore cantano. Lo fanno in luogo e vece dei mediocri esecutori vocali. Talvolta lo fanno alla Muti ossia cantano solo loro come accade in tutte le cabalette dove il ritmo e l’aplomb sembrano essere le prime ed uniche preoccupazioni del maestro e dove gli applausi sono strappati al pubblico grazie, appunto, alle prodezze orchestrale e non certo ai sovracuti alle note tenute alle filature, ossia alle prodezze vocali, che forse in Verdi hanno ancora la loro importanza.
Un tempo questi erano torti gravissimi e vizi capitali,perché la disponibilità era di cantanti del rango di un Ramey, per parlare di uno che il maestro accettava ed il cui trionfo, proprio in Attila, seguito da richiesta di bis diede l’occasione al maestro per un evidente gesto di insofferenza e stizza. Oggi con la miseria imperante sono vizi e torti ben più contenuti. Non solo, mentre un tempo si poteva sempre trovare un cast alternativo e migliore delle scelte del maestro oggi si stenterebbe nel già nominato gioco del fantacast.
Gli insulti, le rimostranze e lo stupore sono già stati espressi in chat da alcuni nostri affezionati lettori ed amici. Non posso che condividerli.
E’ evidete che il volume e l’ampiezza vocale di Ildar Abdrazakov e Violeta Urmana non sono neppure da primo Verdi perchè nessuno dei due dispone di una tecnica di canto adeguata e consona al ruolo. La signora Urmana dal sol acuto urla a voce piena, miagola sul piano e sul pianissimo. La non fresca Leyla Gencer, Odabella di Muti nel 1972, a Firenze coloriva ogni frase, Violeta Urmana riesce talvolta ad arrivare in fondo. Niente estasi al fuggente nuvolo, niente fuoco di Amazzone alla sortita o al duetto con Foresto.
Per capire limiti e modestia del mezzo di Ildar Abdrazakov, nel title role, basta sentire l’ampiezza e la nobiltà della oscillante voce di Ramey (nel cameo di Papa Leone I) che ripete le medesime frasi che erano state del re unno all’inizio del quadro. Ovvio che con tale dote non si può pretendere che questo Attila faccia paura ad Ezio nel loro primo incontro o esprima angoscia e sgomento all’evocazione del primo atto o del finale sempre dell’atto.
Quanto a Giovanni Meoni, che è subentrato ad Alvarez basta dire che è uno sgangherato tenore verista e non un baritono. Fuoco, nobiltà, eloquenza ed anche prosopopea che spettano al generale romano sconosciute. E devo dire che con questo personaggio anche il sostegno orchestrale non c’è stato. Ramon Vargas, che non è un tenore verdiano, ma al massimo, con altra tecnica, un buon tenore donizettiano, il che per Foresto non è poi un guaio, ma la manovra del passaggio e l’idea di dar senso alle frasi clou del personaggio proprio non ci sono.
Il tutto per dire che un direttore come Muti, a prescindere da reieterate e non condivisibili scelte è merce rara e preziosa, ma per certo non basta. Leggere una lettera dove Verdi, anno 1881, si pone l’amletico dubbio opere per i cantanti o cantanti per le opere?
Attila è un titolo che Riccardo Muti ben conosce, atteso che il suo primo incontro risale al 1970 presso la Rai, allora artisticamente guidata dal mentore di Muti, ossia Francesco Siciliani. Più volte il maestro di Molfetta è tornato ad affrontare il testo verdiano. Voglio credere che presto avremo il tempo di una disamina attenta dei vari incontri fra Muti ed Attila.
Era poi, un debutto per il titolo sulle scene del Met. E ui il rimpianto di un antico approdo è molto perché , per giocare al fantacast nel 1930 sul palcoscenico si sarebbe potuto sentire e vedere un Attila irraggiungibile ed impensabile con Ezio Pinza, Lawrence Tibbett/Giuseppe de Luca/ Giuseppe Danise, Giovanni Martinelli/Giacomo Lauri Volpi, Elisabeth Rethberg sotto la guida verdianissima di un Ettore Panizza o di un Tullio Serafin.
Oggi, a conti fatti, il pubblico newyorkese di quel che ottantenni a poteva essere la prassi ha potuto sperimentare solo una direzione verdiana.
La direzione di Riccardo Muti è stata della ripresa radiofonica l’aspetto migliore. Il preludio, l’introduzione al quadro di Aquileja con il levar del sole (che era un sole di una caldo luglio lagunare, per lo splendore ed il turgore dell’orchestra) il colore fosco che accompagna il peregrinare di Odabella in attesa di Foresto, lo stacco ed il piglio di molte scene fra cui la stretta del duetto fra i due amanti, l’apparizione di Leone e tutto il finale primo sono veramente splendidi da sentire e verdiani nella accezione e diffusa e condivisibile del termine. Spesso l’orchestra e con lei il direttore cantano. Lo fanno in luogo e vece dei mediocri esecutori vocali. Talvolta lo fanno alla Muti ossia cantano solo loro come accade in tutte le cabalette dove il ritmo e l’aplomb sembrano essere le prime ed uniche preoccupazioni del maestro e dove gli applausi sono strappati al pubblico grazie, appunto, alle prodezze orchestrale e non certo ai sovracuti alle note tenute alle filature, ossia alle prodezze vocali, che forse in Verdi hanno ancora la loro importanza.
Un tempo questi erano torti gravissimi e vizi capitali,perché la disponibilità era di cantanti del rango di un Ramey, per parlare di uno che il maestro accettava ed il cui trionfo, proprio in Attila, seguito da richiesta di bis diede l’occasione al maestro per un evidente gesto di insofferenza e stizza. Oggi con la miseria imperante sono vizi e torti ben più contenuti. Non solo, mentre un tempo si poteva sempre trovare un cast alternativo e migliore delle scelte del maestro oggi si stenterebbe nel già nominato gioco del fantacast.
Gli insulti, le rimostranze e lo stupore sono già stati espressi in chat da alcuni nostri affezionati lettori ed amici. Non posso che condividerli.
E’ evidete che il volume e l’ampiezza vocale di Ildar Abdrazakov e Violeta Urmana non sono neppure da primo Verdi perchè nessuno dei due dispone di una tecnica di canto adeguata e consona al ruolo. La signora Urmana dal sol acuto urla a voce piena, miagola sul piano e sul pianissimo. La non fresca Leyla Gencer, Odabella di Muti nel 1972, a Firenze coloriva ogni frase, Violeta Urmana riesce talvolta ad arrivare in fondo. Niente estasi al fuggente nuvolo, niente fuoco di Amazzone alla sortita o al duetto con Foresto.
Per capire limiti e modestia del mezzo di Ildar Abdrazakov, nel title role, basta sentire l’ampiezza e la nobiltà della oscillante voce di Ramey (nel cameo di Papa Leone I) che ripete le medesime frasi che erano state del re unno all’inizio del quadro. Ovvio che con tale dote non si può pretendere che questo Attila faccia paura ad Ezio nel loro primo incontro o esprima angoscia e sgomento all’evocazione del primo atto o del finale sempre dell’atto.
Quanto a Giovanni Meoni, che è subentrato ad Alvarez basta dire che è uno sgangherato tenore verista e non un baritono. Fuoco, nobiltà, eloquenza ed anche prosopopea che spettano al generale romano sconosciute. E devo dire che con questo personaggio anche il sostegno orchestrale non c’è stato. Ramon Vargas, che non è un tenore verdiano, ma al massimo, con altra tecnica, un buon tenore donizettiano, il che per Foresto non è poi un guaio, ma la manovra del passaggio e l’idea di dar senso alle frasi clou del personaggio proprio non ci sono.
Il tutto per dire che un direttore come Muti, a prescindere da reieterate e non condivisibili scelte è merce rara e preziosa, ma per certo non basta. Leggere una lettera dove Verdi, anno 1881, si pone l’amletico dubbio opere per i cantanti o cantanti per le opere?
http://www.dallasnews.com/sharedcontent/dws/ent/stories/DN-attila_0308gd.State.Edition1.42bc7dd.html
Segnalo questo articolo del critico del Dallas News, che collima quasi integralmente con la recensione di questo Attila.
ho seguito solo fino al duetto Attili-Ezio la diretta, poi per impegni precedenti ho dovuto abbandonare….mi è sembrata una esecuzione davvero modesta fino a quel momento… ma già sulla carta si immaginava come sarebbero stati i cantanti… bellissimi i video della Marton e della Chiara… che voci!! saluti Maometto II
Il "Santo di patria" della Sutherland è splendido!
però il più bel "santo di patria" è della Sutherland e il più bel "fulgente nuvolo" è della Montse e parlo del disco, quindi guarda un pò cosa ti vanno a combinare due comprovate belcantiste ???
esimio sig. Stecca le incisioni che lei cita sono conosciute e a loro modo inarrivabili… ma la Odabella di Maria Chiara dal vivo era travolgente, nonostante la vocalità non impeccabile. Certo, la Caballè se la avesse cantata dal vivo avrebbe ai suoi bei dì letteralmente fatto crollare i teatri… ma … coi se e coi ma la storia non si fa… saluti, Maometto
stavolta sono con l'esimio signor Stecca.
besos
anch'io concordo con Stecca e la divina Giulia
E io non dimenticherei Rita Orlandi Malaspina, nel live scaligero con Ghiaurov, Cappuccilli e Luchetti, guidati in maniera travolgente da Giuseppe Patanè.
Sono d'accordo col "santo di patria" della Sutherland che, fra l'altro fu per me il primo incontro con questo pezzo e con Attila tutto. Mi ricordo che rimasi sbalordito. Ovviamente non ho mai più trovato in nessuna cantante ascoltata negli anni seguenti la stessa precisione, lo stesso slancio…non parliamo poi della cabaletta!!!Certo la dizione della signora era qualcosa di ostrogoto e in più mi chiedo cosa ne sarebbe stato del volume se lo stesso pezzo non fosse stato inciso in studio.
Per quanto riguarda la Malaspina nella recita scaligera in quel bellissimo spettacolo che, oltre al resto aveva, secondo me, una splendida regia di Puggelli, ne usciva vittoriosa. Bisogna però ammettere che non accadde altrettanto nell'aria del secondo atto "O del fuggente nuvolo" dove i pianissimi misero a dura prova quell'onesta (non di più secondo me) cantante, che aveva nei pianissimi e nei filati proprio il suo punto debole.
Per quanto riguarda l'Attila di Muti, non ho sentito la recita del Met ma è vero che il "Maesctro"
è sempre stato, secondo me, un grande direttore per quest'opera fin dalla prima volta che la diresse alla RAI, passando per Firenze, fino alle recite scaligere che, per quanto riguarda i cantanti però poteva avvalersi solo di un grande Ramey e parzialmente anche di Zancanaro. Non parliamo del tenore che venne cambiato non so quante volte!
Lo spettacolo poi,a mio parere, era orribile. Regia di Savary.
Saluti a tutti.
P.s. Purtroppo non posso ascoltare i contributi musicali perchè ho la scheda sonora del PC fuori uso….