Le donna Leonora di Vargas di Martina Arroyo e Gilda Cruz-Romo appartengono, già, al tempo moderno ossia a quello del Verdi lirico. Sono anche passati da quelle esecuzioni più di trent’anni ed il giudizio, per certo, risente del tempo trascorso e di quello che è accaduto e del misero attuale presente.
Particolarmente misero nel cosidetto repertorio.
Premetto che in Scala, coeve alle scene di Forza che proponiamo, ascoltai sia la Arroyo che la Cruz-Romo. La prima, quale Aida, aveva una voce splendida nel vero senso della parola, raggiante e angelica, la seconda -Amelia del Ballo- era, con buona pace dell’aficionado, assai più verdiana della titolare del ruolo, un poco in difficoltà in zona bassa, anche lei voce raggiante. Autentico soprano da Verdi, però, Gilda Cruz-Romo non lo era. Era uno splendido lirico con voce ampia e siccome il vero drammatico ormai scarseggiava e latitava le qualità vocali del soprano messicano erano sufficienti per farne un’inteprete di Verdi e da Verdi. Mi limiterei al “di Verdi”.
Al convento della Madonna degli Angeli, apprestato a Vienna, la Cruz-Romo arriva accompagnata da Riccardo Muti e farà, oltre al desiderato incontro con la redenzione, anche quelli vocali con Cesare Siepi e soprattutto con Sesto Bruscantini.
In queste riflessioni abbiamo, naturalmente privilegiato l’aspetto vocale, ma Bruno Walter al Met o Dimitri Mitropoulos, sia a Firenze che a Vienna, hanno imposto riflessioni anche sulle bacchette. Chi sentisse questo Riccardo Muti, poco più che trentenne, comprende la fama di grande bacchetta verdiana del maestro e l’auspicio del suo avvento sul podio scaligero. Chi, poi, ascoltasse lo stesso direttore nella stessa opera allorché giunto sul soglio (rectius podio) scaligero ben comprenderebbe il perché di frequenti, motivati malumori e la sopportazione di cui, almeno una parte del pubblico, lo fece oggetto poco dopo l’ascesa.
E che la Cruz-Romo fosse voce di Verdi, ma non da Verdi lo percepiamo chiaramente nelle battute di recitativo, che la presentano sul piazzale antistante il convento dove l’esigenza – fondata – di impeto verdiano la porta a suoni forzati nel primo “sul giunta” e a suoni più prossimi al parlato che non al canto in tutte le frasi, che insistono nella zona grave della voce con anche qualche suono sgradevolmente aperto come accade nella discesa al do # grave di “mio padre intrisa”. Forzare e gonfiare la voce può anche portare a suoni un poco oscillanti nel si nat dell’escalamazione “ahi”. Poi la Cruz-Romo canta con la sua voce di soprano lirico e il “tant’ambascia”, che chiude il recitativo è splendido, dolente e dolce. Non solo, ma il direttore dimentica pure il metronomo. Un “peccato” dal quale sul podio scaligero si sarebbe, purtroppo, emendato.
Aria di lamento e dolore, Madre pietosa Vergine trova in Gilda Cruz-Romo un’esecutrice attenta a molti dei segni di espressione ad onta del tempo sostenuto staccato. Tempo sostenuto, che non è affatto pesante e giova ad una voce, che proprio quella di Leonora non è. Non solo ma nella seconda sezione dell’aria soprano e direttore realizzano benissimo l’indicazione di crescendo su “pietà Signor” e quella di con passione, sia pur con sonorità vocali ed orchestrali misurate, su “non m’abbandonar”.
Nelle frasi di conducimento allorchè Leonora ode il coro interno, che gravitano in zona bassa della voce, i suoni sono molto migliori di quelli emessi con impeto e foga nell’incipit della scena.
Quando Verdi prescrive “declamando” sui si nat3 di “Al santo asilo accorrasi” la Cruz-Romo canta e, soprattutto, intepreta. Ennesima prova che si trattava di uno splendido soprano lirico, tanto è che la forcella dell’ultimo “pietà signor” della ripresa la voce suona un po’ spinta, mentra la forcella sul “pietà Signor” conclusivo (non prevista in spartito) è realizzata a meraviglia.
Nelle battute, che precedono l’entrata del padre guardiano si deve ammirare la tecnica ed il gusto di Bruscantini. Sale senza nessuna fatica agli acuti previsti dalla parte. Niente vezzi e cadute di gusto. Esemplare e il vocalista e l’interprete. Non so se l’ispirazione sulle battute di conducimento sia del direttore o del soprano, ma la Cruz-Romo è anche in questa sede molto varia. Il timbro dolce e femminile esalta certe frase come “una donna son io” ed è esempio positivo del Verdi lirico (ma io direi del Verdi ben cantato) l’attacco di “infelice delusa rejetta” su tono ed intensità attutite, l’accento prevalentemente attonito, che rendono lo strazio interiore del personaggio e consentono l’emissione di un si nat sulla frase topica “la sua figlia a maledire” facile e squillante. Non possiamo che essere esterrefatti perchè Muti consente un rallentando non previsto a Siepi, Superiore del convento, su “giungerebbe il pentimento”. Sin tanto che Leonora può essere sofferente e dolente la Cruz-Romo canta benissimo. Quando, per contro, lo spartito richiede mordente e slancio (quello che i soprani di un tempo chiamavamo “fuoco verdiano”) i limiti della voce emergono, come accade all’attacco di “se voi scacciate” dove il soprano messicano, complice la scrittura bassa, suona enfatica. Quindi è logico che frasi come “mi toglierà” alla chiusura della sezione centrale del duetto sia resa con morbidezza ed accento forbito, mentre quelle infervorate e roventi della chiusa, dal sapore ancora un poco cabalettistico mettano in difficoltà la cantante.
Trattando di direzione di orchestra l’introduzione all’apertura della chiesa è solenne e misteriosa, Siepi (che, sia chiaro, non è Pasero o Pinza, ma il miglior Guardiano del dopo guerra) è, comunque, morbido e l’enunciato del coro “La Vergine degli angeli” sembra veramente discendere dal cielo e, come sempre accade alle voci d’oro (perchè tale era quella del soprano messicano) l’esecuzione della preghiera per bocca di donna Leonora, pentita e convertita, è veramente celestiale. Nessuna enfasi, nessun rumore, che unite a metronomicità e limitata dinamica ammorberanno il Verdi scaligero di Muti. Una grande direzione d’orchestra.Non da meno quella di Levine.
A New York la pellegrina aspirante penitente è Martina Arroyo, accompagnata da James Levine, l’ultimo direttore che, nelle opere verdiane, accompagna con vigore e slancio, e che certa critica, che vuole essere di moda, suole guardare con aria sprezzante perché in odore di banda. Levine, sia detto subito, può permettersi certe scelte perché la protagonista, forse non irresistibile come accento, ma saldissima in tutta la gamma della voce, canta senza nessuno sforzo a tutte le intensità e a tutte le altezze. Che l’acume interpretativo sia limitato lo sentiamo sia nel recitativo che nell’aria. Martina Arroyo è misurata e sobria come interprete, forse non molto presente e salvo qualche sporadica tentazione di emettere suoni ovattati ed ingolati alla Price canta tutto con facilità irrisoria e arrivata al si nat su “ah, ohimè!” emette un suono bello, rotondo e facilissimo oltre che di grande volume. In tutta l’aria colori e sfumature poche. Il direttore stacca un ritmo sostenutissimo e solo al “pietà Signor” conclusivo compare, facile e dolcissima una smorzatura, ancor più efficace per il vigore di soprano e direttore nella conclusione dell’aria. Segnalo applausi da stadio o quasi. Oggi la memoria di siffatta ovazione è perduta. Oggi per continuare in una usata litania il pubblico under trenta ignora l’ascolto di una dote vocale come quella del soprano americano.
Bacquier dimostra la grandezza di Bruscantini e la Arroyo nelle battute di conversazione con il ben poco accogliente Melitone riesce anche a fraseggiare. E sempre, anche nella attesa dell’arrivo del Guardiano, una Leonora lirica nell’accento, ma di grande, opulenta voce.
L’incipit del duetto è interessantissimo perché la delicatezza e lo spavento della Cruz-Romo con Muti divengono il terrore e l’ansia della Arroyo con Levine. Egualmente legittime, egualmente giustificate dalla situazione scenica.
Certo che la Arroyo è piatta nella prima sezione del duetto e si scalda solo quando arriva il si nat della “figlia maledir” nota esemplare per facilità e squillo. Come esemplare è la facilità con cui l’Arroyo affronta e canta frasi come “darmi a Dio”. Come verdiana, in senso tradizionale e positivo, è la cantabilità della sezione che segue.
Non credo che nessuna registrazione e tanto meno esecuzione scenica possa avvalersi di tanto splendore e turgore vocale. Neppure la giovane Price. Arrivata a frasi come “salvati all’ombra” la Arroyo è anche capace di varietà di fraseggio, ma il suo rimane un Verdi la cui peculiarità è la bellezza e facilità del canto. Nella parte conclusiva di questa sezione l’accompagnamento è un poco pesante. Eseguiti alla lettera alla chiusa le indicazioni di “dolce poco rallentando e morendo”.
La sezione conclusiva del duetto “Sull’alba il piede” è staccata da Levine in maniera molto cadenzata e solenne (una sorta di trionfo della fede, per utilizzare il quanto mai opportuno concetto manzoniano della fede avvezza ai trionfi) e anche l’intervento di Leonora è in tempo sostenuto. Però il suono puro, dolcissimo sul mezzo forte mette già in sfera angelica la Leonora di turno. In tutta l’esecuzione non una nota brutta, non un suono che non sia al posto giusto. L’interprete è tutto men che travolgente, ma l’esecuzione vocale di impensabile facilità aiuta e nasconde i limiti di accento.
Angelica la Vergine degli Angeli, come la esegue Martina Arroyo, introdotta non già dal coro rarefatto di Muti a Vienna, ma sostenuta da un tempo e da sonorità, sì eleganti e sobrie, ma consone ad una trionfante chiesa ambrosiana, ancora animata dagli ideali del concilio tridentino. Hanno due pregi: esaltano per contrasto il canto della Arroyo e ritraggono, in fondo, l’istituzione Chiesa, che Verdi vedeva, viveva e, forse, subiva.
Particolarmente misero nel cosidetto repertorio.
Premetto che in Scala, coeve alle scene di Forza che proponiamo, ascoltai sia la Arroyo che la Cruz-Romo. La prima, quale Aida, aveva una voce splendida nel vero senso della parola, raggiante e angelica, la seconda -Amelia del Ballo- era, con buona pace dell’aficionado, assai più verdiana della titolare del ruolo, un poco in difficoltà in zona bassa, anche lei voce raggiante. Autentico soprano da Verdi, però, Gilda Cruz-Romo non lo era. Era uno splendido lirico con voce ampia e siccome il vero drammatico ormai scarseggiava e latitava le qualità vocali del soprano messicano erano sufficienti per farne un’inteprete di Verdi e da Verdi. Mi limiterei al “di Verdi”.
Al convento della Madonna degli Angeli, apprestato a Vienna, la Cruz-Romo arriva accompagnata da Riccardo Muti e farà, oltre al desiderato incontro con la redenzione, anche quelli vocali con Cesare Siepi e soprattutto con Sesto Bruscantini.
In queste riflessioni abbiamo, naturalmente privilegiato l’aspetto vocale, ma Bruno Walter al Met o Dimitri Mitropoulos, sia a Firenze che a Vienna, hanno imposto riflessioni anche sulle bacchette. Chi sentisse questo Riccardo Muti, poco più che trentenne, comprende la fama di grande bacchetta verdiana del maestro e l’auspicio del suo avvento sul podio scaligero. Chi, poi, ascoltasse lo stesso direttore nella stessa opera allorché giunto sul soglio (rectius podio) scaligero ben comprenderebbe il perché di frequenti, motivati malumori e la sopportazione di cui, almeno una parte del pubblico, lo fece oggetto poco dopo l’ascesa.
E che la Cruz-Romo fosse voce di Verdi, ma non da Verdi lo percepiamo chiaramente nelle battute di recitativo, che la presentano sul piazzale antistante il convento dove l’esigenza – fondata – di impeto verdiano la porta a suoni forzati nel primo “sul giunta” e a suoni più prossimi al parlato che non al canto in tutte le frasi, che insistono nella zona grave della voce con anche qualche suono sgradevolmente aperto come accade nella discesa al do # grave di “mio padre intrisa”. Forzare e gonfiare la voce può anche portare a suoni un poco oscillanti nel si nat dell’escalamazione “ahi”. Poi la Cruz-Romo canta con la sua voce di soprano lirico e il “tant’ambascia”, che chiude il recitativo è splendido, dolente e dolce. Non solo, ma il direttore dimentica pure il metronomo. Un “peccato” dal quale sul podio scaligero si sarebbe, purtroppo, emendato.
Aria di lamento e dolore, Madre pietosa Vergine trova in Gilda Cruz-Romo un’esecutrice attenta a molti dei segni di espressione ad onta del tempo sostenuto staccato. Tempo sostenuto, che non è affatto pesante e giova ad una voce, che proprio quella di Leonora non è. Non solo ma nella seconda sezione dell’aria soprano e direttore realizzano benissimo l’indicazione di crescendo su “pietà Signor” e quella di con passione, sia pur con sonorità vocali ed orchestrali misurate, su “non m’abbandonar”.
Nelle frasi di conducimento allorchè Leonora ode il coro interno, che gravitano in zona bassa della voce, i suoni sono molto migliori di quelli emessi con impeto e foga nell’incipit della scena.
Quando Verdi prescrive “declamando” sui si nat3 di “Al santo asilo accorrasi” la Cruz-Romo canta e, soprattutto, intepreta. Ennesima prova che si trattava di uno splendido soprano lirico, tanto è che la forcella dell’ultimo “pietà signor” della ripresa la voce suona un po’ spinta, mentra la forcella sul “pietà Signor” conclusivo (non prevista in spartito) è realizzata a meraviglia.
Nelle battute, che precedono l’entrata del padre guardiano si deve ammirare la tecnica ed il gusto di Bruscantini. Sale senza nessuna fatica agli acuti previsti dalla parte. Niente vezzi e cadute di gusto. Esemplare e il vocalista e l’interprete. Non so se l’ispirazione sulle battute di conducimento sia del direttore o del soprano, ma la Cruz-Romo è anche in questa sede molto varia. Il timbro dolce e femminile esalta certe frase come “una donna son io” ed è esempio positivo del Verdi lirico (ma io direi del Verdi ben cantato) l’attacco di “infelice delusa rejetta” su tono ed intensità attutite, l’accento prevalentemente attonito, che rendono lo strazio interiore del personaggio e consentono l’emissione di un si nat sulla frase topica “la sua figlia a maledire” facile e squillante. Non possiamo che essere esterrefatti perchè Muti consente un rallentando non previsto a Siepi, Superiore del convento, su “giungerebbe il pentimento”. Sin tanto che Leonora può essere sofferente e dolente la Cruz-Romo canta benissimo. Quando, per contro, lo spartito richiede mordente e slancio (quello che i soprani di un tempo chiamavamo “fuoco verdiano”) i limiti della voce emergono, come accade all’attacco di “se voi scacciate” dove il soprano messicano, complice la scrittura bassa, suona enfatica. Quindi è logico che frasi come “mi toglierà” alla chiusura della sezione centrale del duetto sia resa con morbidezza ed accento forbito, mentre quelle infervorate e roventi della chiusa, dal sapore ancora un poco cabalettistico mettano in difficoltà la cantante.
Trattando di direzione di orchestra l’introduzione all’apertura della chiesa è solenne e misteriosa, Siepi (che, sia chiaro, non è Pasero o Pinza, ma il miglior Guardiano del dopo guerra) è, comunque, morbido e l’enunciato del coro “La Vergine degli angeli” sembra veramente discendere dal cielo e, come sempre accade alle voci d’oro (perchè tale era quella del soprano messicano) l’esecuzione della preghiera per bocca di donna Leonora, pentita e convertita, è veramente celestiale. Nessuna enfasi, nessun rumore, che unite a metronomicità e limitata dinamica ammorberanno il Verdi scaligero di Muti. Una grande direzione d’orchestra.Non da meno quella di Levine.
A New York la pellegrina aspirante penitente è Martina Arroyo, accompagnata da James Levine, l’ultimo direttore che, nelle opere verdiane, accompagna con vigore e slancio, e che certa critica, che vuole essere di moda, suole guardare con aria sprezzante perché in odore di banda. Levine, sia detto subito, può permettersi certe scelte perché la protagonista, forse non irresistibile come accento, ma saldissima in tutta la gamma della voce, canta senza nessuno sforzo a tutte le intensità e a tutte le altezze. Che l’acume interpretativo sia limitato lo sentiamo sia nel recitativo che nell’aria. Martina Arroyo è misurata e sobria come interprete, forse non molto presente e salvo qualche sporadica tentazione di emettere suoni ovattati ed ingolati alla Price canta tutto con facilità irrisoria e arrivata al si nat su “ah, ohimè!” emette un suono bello, rotondo e facilissimo oltre che di grande volume. In tutta l’aria colori e sfumature poche. Il direttore stacca un ritmo sostenutissimo e solo al “pietà Signor” conclusivo compare, facile e dolcissima una smorzatura, ancor più efficace per il vigore di soprano e direttore nella conclusione dell’aria. Segnalo applausi da stadio o quasi. Oggi la memoria di siffatta ovazione è perduta. Oggi per continuare in una usata litania il pubblico under trenta ignora l’ascolto di una dote vocale come quella del soprano americano.
Bacquier dimostra la grandezza di Bruscantini e la Arroyo nelle battute di conversazione con il ben poco accogliente Melitone riesce anche a fraseggiare. E sempre, anche nella attesa dell’arrivo del Guardiano, una Leonora lirica nell’accento, ma di grande, opulenta voce.
L’incipit del duetto è interessantissimo perché la delicatezza e lo spavento della Cruz-Romo con Muti divengono il terrore e l’ansia della Arroyo con Levine. Egualmente legittime, egualmente giustificate dalla situazione scenica.
Certo che la Arroyo è piatta nella prima sezione del duetto e si scalda solo quando arriva il si nat della “figlia maledir” nota esemplare per facilità e squillo. Come esemplare è la facilità con cui l’Arroyo affronta e canta frasi come “darmi a Dio”. Come verdiana, in senso tradizionale e positivo, è la cantabilità della sezione che segue.
Non credo che nessuna registrazione e tanto meno esecuzione scenica possa avvalersi di tanto splendore e turgore vocale. Neppure la giovane Price. Arrivata a frasi come “salvati all’ombra” la Arroyo è anche capace di varietà di fraseggio, ma il suo rimane un Verdi la cui peculiarità è la bellezza e facilità del canto. Nella parte conclusiva di questa sezione l’accompagnamento è un poco pesante. Eseguiti alla lettera alla chiusa le indicazioni di “dolce poco rallentando e morendo”.
La sezione conclusiva del duetto “Sull’alba il piede” è staccata da Levine in maniera molto cadenzata e solenne (una sorta di trionfo della fede, per utilizzare il quanto mai opportuno concetto manzoniano della fede avvezza ai trionfi) e anche l’intervento di Leonora è in tempo sostenuto. Però il suono puro, dolcissimo sul mezzo forte mette già in sfera angelica la Leonora di turno. In tutta l’esecuzione non una nota brutta, non un suono che non sia al posto giusto. L’interprete è tutto men che travolgente, ma l’esecuzione vocale di impensabile facilità aiuta e nasconde i limiti di accento.
Angelica la Vergine degli Angeli, come la esegue Martina Arroyo, introdotta non già dal coro rarefatto di Muti a Vienna, ma sostenuta da un tempo e da sonorità, sì eleganti e sobrie, ma consone ad una trionfante chiesa ambrosiana, ancora animata dagli ideali del concilio tridentino. Hanno due pregi: esaltano per contrasto il canto della Arroyo e ritraggono, in fondo, l’istituzione Chiesa, che Verdi vedeva, viveva e, forse, subiva.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
1975 – Martina Arroyo (con Bonaldo Giaiotti & Gabriel Bacquier – dir. James Levine – Met, New York)
1977 – Gilda Cruz-Romo (con Cesare Siepi & Sesto Bruscantini – dir. Riccardo Muti – Opera di Stato, Vienna)
son già passati più di tre anni da questa bella rubrica! che bel percorso che è stato fatto da questo sito! complimenti ancora!
quando si avvicina l’autunno, i miei gusti solitamente mutano da rossini (sto ascoltando semiramide blake-dupuy-gasdia, Marseille 1997) a verdi e ricordo che questo primo ascolto in assoluto di Martina Arroyo nella Forza del destino era stato stupendo.
quando avrete tempo e voglia e possibilità potete ripristinare l’ascolto?
grazie!
Ascolti ripristinati