La ridotta stagione operistica del Comunale si è aperta ieri sera con Salome.
Il medesimo titolo era stato proposto dieci anni fa, e da allora nessun’altra opera di Strauss era stata presentata nel teatro felsineo. Ricordiamo che in tempi relativamente recenti, vale a dire nei tanto deprecati, oggi, anni Ottanta e Novanta, il teatro allestì fra gli altri Capriccio (in italiano) e Rosenkavalier, dimostrando, i dirigenti di allora, un poco più di fantasia e creatività rispetto agli attuali. Dopo dieci anni è immutato il titolo, ma naturalmente è cambiato l’allestimento, subentrando allo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, originariamente concepito per Reggio Emilia, una nuova produzione realizzata in collaborazione con il Verdi di Trieste.
Ulteriore riduzione, rispetto a quanto annunciato al momento della prevendita, l’assenza della designata protagonista Nadja Michael, la cui non meglio specificata malattia è stata comunicata dal teatro con una settimana di anticipo rispetto alla première. Anziché ricorrere, sull’esempio ambrosiano, a una studentessa della ormai celebre Scuola dell’Opera, il Comunale ha convocato Erika Sunnegårdh, che pur relativamente giovane ha già sostenuto più volte il ruolo della principessa di Giudea. Il che non è, purtroppo, sinonimo della capacità di cantarlo così come l’autore l’ha concepito.
Voce di soprano lirico leggero, da Manon di Auber più che di Massenet, la signora sembra ignorare che cosa siano il sostegno e la respirazione, ovvero quelli che per noi, obsoleti passatisti, sono le precondizioni del canto professionale. In prima ottava, regione eminentemente sollecitata dal ruolo, la voce è magra, spesso difficile a udirsi, quando non sostituita da un semplice parlato che fa della protagonista straussiana una parente delle più dimesse eroine di Bertolt Brecht. E gonfiare i centri serve a poco, quando si dispone di una voce così limitata. Dal do4 in su lo strumento aumenta di volume, ma a condizione che la cantante strilli, perché a ogni tentativo di cantare piano e sfumato la voce si perde di nuovo e resta, in ogni caso, assai povera di armonici. Lo sforzo di essere una Salomè piccante e insinuante sino al rifiuto di Jochanaan, torbida e manipolatrice nella scena con Erode e folle di passione al finale si scontra con un’organizzazione vocale così precaria e con le scarse attrattive di uno strumento acido e stridulo, non per limitata natura, ma per limitata tecnica. Improprio parlare di legato, viste le numerose riprese di fiato cui la cantante è costretta per sostenere tanto le brucianti frasi rivolte al Battista quanto le arroganti rivendicazioni indirizzate al Tetrarca al termine della danza. Danza che la Sunnegårdh onora di un fugace nudo integrale. Con tutto il rispetto per l’avvenenza della donna, avremmo preferito udirla in una parte per lei meno gravosa: Susanna, Despina, Musetta, al limite una Rosina taglia soubrette. O per restare in ambito straussiano, una bella Sofia.
Il Profeta di Mark S. Doss, di sicura presenza scenica (sebbene le scelte registiche facciano pensare più a un Cristo deposto dalla croce, che a colui che prepara le vie del Signore), ha voce di limitato volume e ancor più limitata ampiezza, periclitante in acuto (un semplice mi bemolle dà luogo a suoni tremuli e scarsamente attinenti al canto lirico), ovattata al centro e sorda nei gravi, sostituiti da parlati, come nella frase “Niemals, Tochter Babylons”. L’emissione, ben poco nobile anche e soprattutto nei passi più ispirati e profetici, nei quali la voce sbianca e va indietro, fa dell’araldo divino una sorta di ubriaco farneticante, che non si capisce come possa risultare attraente per l’ingenua e allucinata figliuola di Erodiade.
Quanto alla coppia regale, che una deteriore tradizione impone di affidare a cantanti anziani di aspetto o almeno di voce, con il risultato di avere in scena non già i perversi sovrani di Giudea, bensì il dottor Cajus e la Quickly di un teatro della provincia tedesca, è stata all’altezza della suddetta tradizione. In particolare Erodiade ha esibito una vocalità dissestata al centro, qualche strilletto in acuto e una forte propensione al declamato in prosa in tutta la gamma. Un poco meglio Erode, che è risultato, fra i protagonisti, quello con la voce di maggiore volume, benché dura, legnosa e occasionalmente stonata.
Il Narraboth di Mark Milhofer, l’unico membro della compagnia colpito dalle sporadiche contestazioni del loggione, è un lirico leggero di voce piccola e non sgradevole, purtroppo strozzata sul passaggio e piuttosto malferma subito dopo. Lo strumento, di contenuto volume, lo renderebbe più idoneo a Cimarosa e al Rossini comico, previa risoluzione dei problemi tecnici che bloccano la voce allo stadio larvale. Che il pubblico abbia censurato la sua prova, approvando invece vigorosamente quella di tutti gli altri solisti, è cosa che non desta meraviglia, essendo acclarato, e non da oggi, che una parte del pubblico utilizza le orecchie solo in alcune circostanze, e non in altre.
Ingolato e fin dalle prime battute in debito d’ossigeno il Paggio, che dispone comunque della più consistente fra le voci femminili della serata. Fra l’altro dobbiamo rilevare come alcuni dei comprimari (ad esempio lo Schiavo e il secondo Nazareno) fossero udibili senza problemi fino agli estremi settori del teatro, laddove i protagonisti faticavano e arrancavano, quasi sempre con scarsi esiti. E anche questo, si sa, è un segno dei tempi!
Sul podio Nicola Luisotti, evidentemente conscio del materiale vocale non certo di prima scelta di cui disponeva, ha optato, nella prima parte, per sonorità contenute, da Delibes più che da Strauss, salvo poi infuriare negli intermezzi orchestrali(peraltro il secondo è stato funestato da alcune imprecisioni degli ottoni). Peggio la seconda metà dello spettacolo, con un quintetto degli Ebrei greve e privo di humour, una Danza dei sette veli scarsamente sensuale e un confronto fra Erode e Salomè fin troppo roboante, ma non eloquente. Leggermente meglio la scena finale, in cui è toccato all’orchestra esprimere il delirio della protagonista, visto che la medesima era appena in grado di accennare le proprie frasi.
Lo spettacolo di Gabriele Lavia, il cui cachet sarà verosimilmente risultato più oneroso degli arredi scenici impiegati, colloca la vicenda all’epoca della composizione, riservando al solo Profeta gli abiti, o meglio, la nudità di stampo classico, con il risultato di fare del Battista una sorta di esibizionista alla corte di un regno della Mitteleuropa. Il palcoscenico è costituito da un pavimento rossastro solcato da crepe, dalle quali si affacciano dapprima il Battista, poi la sua testa mozzata, un blocco di marmo bianco su cui Salomè si arrampica nel corso del monologo conclusivo. La scelta, felicemente antinaturalistica, è contraddetta da effettacci di dubbio gusto, quali Jochanaan appeso alle catene e ingabbiato come uno scimpanzè, la reggia di Erode rimpiazzata da un divanetto di velluto verde e il cadavere decollato esibito al proscenio nella scena finale. Altro elemento ricorrente di uno spettacolo a dir poco minimalista è la luna, vista dapprima sullo sfondo, poi convertita in una gigantesca lente che deforma i momenti più lascivi della danza, quindi in un’ascia che cala sulla scena proiettando un’ombra rosso sangue, infine oscurata da un’eclisse al termine della quale Salomè e i soldati restano immobili, mentre cala la tenda cremisi che aveva aperto l’opera, isolando alla ribalta la sconcertata Erodiade. Nel complesso uno spettacolo piacevole e scarsamente originale, per infiammare il quale sarebbero occorsi ben altro podio e, soprattutto, ben altro cast.
Il medesimo titolo era stato proposto dieci anni fa, e da allora nessun’altra opera di Strauss era stata presentata nel teatro felsineo. Ricordiamo che in tempi relativamente recenti, vale a dire nei tanto deprecati, oggi, anni Ottanta e Novanta, il teatro allestì fra gli altri Capriccio (in italiano) e Rosenkavalier, dimostrando, i dirigenti di allora, un poco più di fantasia e creatività rispetto agli attuali. Dopo dieci anni è immutato il titolo, ma naturalmente è cambiato l’allestimento, subentrando allo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, originariamente concepito per Reggio Emilia, una nuova produzione realizzata in collaborazione con il Verdi di Trieste.
Ulteriore riduzione, rispetto a quanto annunciato al momento della prevendita, l’assenza della designata protagonista Nadja Michael, la cui non meglio specificata malattia è stata comunicata dal teatro con una settimana di anticipo rispetto alla première. Anziché ricorrere, sull’esempio ambrosiano, a una studentessa della ormai celebre Scuola dell’Opera, il Comunale ha convocato Erika Sunnegårdh, che pur relativamente giovane ha già sostenuto più volte il ruolo della principessa di Giudea. Il che non è, purtroppo, sinonimo della capacità di cantarlo così come l’autore l’ha concepito.
Voce di soprano lirico leggero, da Manon di Auber più che di Massenet, la signora sembra ignorare che cosa siano il sostegno e la respirazione, ovvero quelli che per noi, obsoleti passatisti, sono le precondizioni del canto professionale. In prima ottava, regione eminentemente sollecitata dal ruolo, la voce è magra, spesso difficile a udirsi, quando non sostituita da un semplice parlato che fa della protagonista straussiana una parente delle più dimesse eroine di Bertolt Brecht. E gonfiare i centri serve a poco, quando si dispone di una voce così limitata. Dal do4 in su lo strumento aumenta di volume, ma a condizione che la cantante strilli, perché a ogni tentativo di cantare piano e sfumato la voce si perde di nuovo e resta, in ogni caso, assai povera di armonici. Lo sforzo di essere una Salomè piccante e insinuante sino al rifiuto di Jochanaan, torbida e manipolatrice nella scena con Erode e folle di passione al finale si scontra con un’organizzazione vocale così precaria e con le scarse attrattive di uno strumento acido e stridulo, non per limitata natura, ma per limitata tecnica. Improprio parlare di legato, viste le numerose riprese di fiato cui la cantante è costretta per sostenere tanto le brucianti frasi rivolte al Battista quanto le arroganti rivendicazioni indirizzate al Tetrarca al termine della danza. Danza che la Sunnegårdh onora di un fugace nudo integrale. Con tutto il rispetto per l’avvenenza della donna, avremmo preferito udirla in una parte per lei meno gravosa: Susanna, Despina, Musetta, al limite una Rosina taglia soubrette. O per restare in ambito straussiano, una bella Sofia.
Il Profeta di Mark S. Doss, di sicura presenza scenica (sebbene le scelte registiche facciano pensare più a un Cristo deposto dalla croce, che a colui che prepara le vie del Signore), ha voce di limitato volume e ancor più limitata ampiezza, periclitante in acuto (un semplice mi bemolle dà luogo a suoni tremuli e scarsamente attinenti al canto lirico), ovattata al centro e sorda nei gravi, sostituiti da parlati, come nella frase “Niemals, Tochter Babylons”. L’emissione, ben poco nobile anche e soprattutto nei passi più ispirati e profetici, nei quali la voce sbianca e va indietro, fa dell’araldo divino una sorta di ubriaco farneticante, che non si capisce come possa risultare attraente per l’ingenua e allucinata figliuola di Erodiade.
Quanto alla coppia regale, che una deteriore tradizione impone di affidare a cantanti anziani di aspetto o almeno di voce, con il risultato di avere in scena non già i perversi sovrani di Giudea, bensì il dottor Cajus e la Quickly di un teatro della provincia tedesca, è stata all’altezza della suddetta tradizione. In particolare Erodiade ha esibito una vocalità dissestata al centro, qualche strilletto in acuto e una forte propensione al declamato in prosa in tutta la gamma. Un poco meglio Erode, che è risultato, fra i protagonisti, quello con la voce di maggiore volume, benché dura, legnosa e occasionalmente stonata.
Il Narraboth di Mark Milhofer, l’unico membro della compagnia colpito dalle sporadiche contestazioni del loggione, è un lirico leggero di voce piccola e non sgradevole, purtroppo strozzata sul passaggio e piuttosto malferma subito dopo. Lo strumento, di contenuto volume, lo renderebbe più idoneo a Cimarosa e al Rossini comico, previa risoluzione dei problemi tecnici che bloccano la voce allo stadio larvale. Che il pubblico abbia censurato la sua prova, approvando invece vigorosamente quella di tutti gli altri solisti, è cosa che non desta meraviglia, essendo acclarato, e non da oggi, che una parte del pubblico utilizza le orecchie solo in alcune circostanze, e non in altre.
Ingolato e fin dalle prime battute in debito d’ossigeno il Paggio, che dispone comunque della più consistente fra le voci femminili della serata. Fra l’altro dobbiamo rilevare come alcuni dei comprimari (ad esempio lo Schiavo e il secondo Nazareno) fossero udibili senza problemi fino agli estremi settori del teatro, laddove i protagonisti faticavano e arrancavano, quasi sempre con scarsi esiti. E anche questo, si sa, è un segno dei tempi!
Sul podio Nicola Luisotti, evidentemente conscio del materiale vocale non certo di prima scelta di cui disponeva, ha optato, nella prima parte, per sonorità contenute, da Delibes più che da Strauss, salvo poi infuriare negli intermezzi orchestrali(peraltro il secondo è stato funestato da alcune imprecisioni degli ottoni). Peggio la seconda metà dello spettacolo, con un quintetto degli Ebrei greve e privo di humour, una Danza dei sette veli scarsamente sensuale e un confronto fra Erode e Salomè fin troppo roboante, ma non eloquente. Leggermente meglio la scena finale, in cui è toccato all’orchestra esprimere il delirio della protagonista, visto che la medesima era appena in grado di accennare le proprie frasi.
Lo spettacolo di Gabriele Lavia, il cui cachet sarà verosimilmente risultato più oneroso degli arredi scenici impiegati, colloca la vicenda all’epoca della composizione, riservando al solo Profeta gli abiti, o meglio, la nudità di stampo classico, con il risultato di fare del Battista una sorta di esibizionista alla corte di un regno della Mitteleuropa. Il palcoscenico è costituito da un pavimento rossastro solcato da crepe, dalle quali si affacciano dapprima il Battista, poi la sua testa mozzata, un blocco di marmo bianco su cui Salomè si arrampica nel corso del monologo conclusivo. La scelta, felicemente antinaturalistica, è contraddetta da effettacci di dubbio gusto, quali Jochanaan appeso alle catene e ingabbiato come uno scimpanzè, la reggia di Erode rimpiazzata da un divanetto di velluto verde e il cadavere decollato esibito al proscenio nella scena finale. Altro elemento ricorrente di uno spettacolo a dir poco minimalista è la luna, vista dapprima sullo sfondo, poi convertita in una gigantesca lente che deforma i momenti più lascivi della danza, quindi in un’ascia che cala sulla scena proiettando un’ombra rosso sangue, infine oscurata da un’eclisse al termine della quale Salomè e i soldati restano immobili, mentre cala la tenda cremisi che aveva aperto l’opera, isolando alla ribalta la sconcertata Erodiade. Nel complesso uno spettacolo piacevole e scarsamente originale, per infiammare il quale sarebbero occorsi ben altro podio e, soprattutto, ben altro cast.
La locandina
Salome – Erika Sunnegårdh
Jochanaan – Mark S. Doss
Herodes – Robert Brubaker
Herodias – Dalia Schaechter
Narraboth – Mark Milhofer
Der Page der Herodias – Nora Sourouzian
Fünf Juden – Gabriele Mangione, Paolo Cauteruccio, Dario Di Vietri, Ramtin Ghazavi, Masashi Mori
Ein Kappadozier – Masashi Mori
Zwei Nazarener – Rainer Zaun, Paulo Paolillo
Erster Soldat – Cesare Lana
Zweiter Soldat – Rainer Zaun
Ein Sklave – Edoardo Milletti
Direttore – Nicola Luisotti
Regia – Gabriele Lavia
Scene – Alessandro Camera
Costumi – Andrea Viotti
Luci – Daniele Naldi
Movimenti coreografici – Sara Di Salvo
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Giuseppe Verdi di Trieste
chi di Montse ferisce…..
caro stecca,
bastassero pessime esecuzioni successive a giustificare le onnivore esibizioni della Señora, dovremmo concludere che la medesima non abbia mai sbagliato un ruolo. come persino tu saprai, non è così.