“A registi siffatti viene regolarmente indirizzata, da noi che in fatto di teatro lirico siamo all’avanguardia della retroguardia, la puntuale accusa di stravolgimento, bruttura, leso barocco. Si lede sempre qualcosa, per tali accusatrici anime belle: e mai che sospettino di essere loro quelli lesi e handicappati nella percezione di quanto sta accadendo nella viva realtà teatrale contemporanea, di prosa o lirica poco importa, giacché sempre più stanno, per fortuna, avvicinandosi.”
L’estensore di siffatte note si qualifica come persona alquanto sprovveduta o deliberatamente ignara. Non già l’avvicinamento, ma la perfetta fusione di musica e teatro è fenomeno che ha origini ben più remote dell’epoca dei registi cosiddetti provocatori, iconoclasti ed enfant prodige, che nulla hanno inventato, malgrado lo zelo dei loro sostenitori. Per convincersene basta leggere le cronache e ascoltare i documenti risalenti ad anni in cui perduravano in grembo a Giove dvd, dirette in alta definizione e operazioni di “lifting” culturale di varia risma.
Il mito della cantante attrice è antico quanto l’opera e ad essa consustanziale. Ma è alla fine dell’Ottocento che questo mito assunse proporzioni inedite, complici da un lato l’affermazione del repertorio postromantico e liberty, che aveva i suoi esponenti di punta in Puccini e Strauss, dall’altro l’invenzione del grammofono e il conseguente avvento del Divo discografico. Naturalmente poteva assurgere al titolo di Divo discografico solo il cantante che avesse una solida carriera alle spalle nei massimi teatri del mondo. Ai nostri giorni il rapporto appare invertito, ovvero si ritiene che il cantante che disponga dell’appoggio di una solida casa discografica sia, di conseguenza, in grado di cantare nei massimi teatri del mondo, e anzi che questi debbano inchinarsi a lui e all’etichetta che lo sostiene. La realtà dei fatti suole smentire questo assunto.
Uno dei grandi titoli da Diva, se non il supremo, fu ed è Salome. E non è singolare, se si considera che l’opera deriva da un dramma di Wilde destinato alla Diva per eccellenza, Sarah Bernhardt. Vuole la tradizione che Strauss sognasse, per la sua protagonista, una voce da Isotta nel corpo di una sedicenne. Le cronache narrano che la creatrice della parte, Marie Wittich, avesse una bella e robusta voce, ma ben poco dell’adolescente perversa. Facile, vedendola in scena, scambiarla per Erodiade. Ma le cose erano destinate a cambiare.
L’opera calamitò fin dai primi anni l’attenzione di primedonne celebri per la superba presenza scenica, da Gemma Bellincioni, che a Torino fu la prima Salomè italiana, battendo di poche ore Salomea Krusceniski impegnata alla Scala, e riprese più volte il ruolo a Napoli, Roma, Venezia, Bologna e infine a Parigi, a Mary Garden, che cantò l’opera a Manhattan e poi all’Opéra di Parigi, da Emmy Destinn, prima interprete a Berlino e allo Châtelet, e Maria Jeritza, regina della parte alla Staatsoper viennese per quindici anni, a Giulia Tess, Carmen Melis e Franca Somigli, egualmente generose, seppur internazionalmente meno rinomate. Nonostante il grande successo e le numerose produzioni in tutta Europa, l’opera costituì per il Met, dove fu proposta una sola sera nel 1907, protagonista Olive Fremstad, un autentico shock e dovette affrontare un lungo oblio, da cui riemerse a metà degli anni Trenta. Certo dovettero influire anche ragioni legate alla moralità, o assenza di moralità, del titolo, ed è notorio, ad esempio, che Kirsten Flagstad giudicasse indegno di una donna onesta interpretare in scena una creatura così sfrenata e sensuale. Analoghe remore aveva a suo tempo manifestato la Wittich, o come la chiamava bonariamente l’autore, “Nonna Wittich”.
Certo accanto alle difficoltà poste dalla morale e dal comune senso del pudore ci sono quelle previste dalla partitura. Che sono molte, variegate e difficili da sormontare.
La tessitura, innanzi tutto. Salomè canta per buona parte della serata in zona centrale (fa3-sol4), con ampie frasi che mettono a dura prova la resistenza polmonare della cantante, ma non mancano improvvise e fulminanti escursioni in zona acuta: nella scena con il Battista, la principessa di Giudea tocca più volte il la, il si bemolle e il si naturale, in coincidenza con i momenti di maggiore intensità delle blasfeme profferte. In basso il limite estremo è dato da due sol bem 2, rispettivamente nella prima scena (al momento in cui Salomè si affaccia alla cisterna, cercando di contemplare per la prima volta l’inviato di Dio) e al termine della prima sezione del monologo conclusivo. Si tratta di una tessitura che può convenire tanto a un soprano drammatico quanto a un mezzosoprano con acuti sicuri, se non saldi e svettanti. E se si possono tollerare suoni un poco tirati e malsicuri sui rari acuti, la perfetta fusione dei registri, ottenuta da una corretta esecuzione del primo passaggio, è cruciale. E’ possibile verificare l’assunto ascoltando, in sequenza, Grace Bumbry e Catherine Malfitano.
Si potrà obiettare che, ove si consideri la tessitura e null’altro, la parte di Salomè può essere adeguatamente affrontata anche da un soprano lirico spinto, la cui vocalità, tradizionalmente ritenuta più giovanile di quella del soprano drammatico, meglio risponde alle esigenze del personaggio. Purtroppo fra le suddette esigenze, e non certo all’ultimo posto, va compresa la necessità di passare senza fatica l’orchestra, ed è questo lo scoglio contro cui puntualmente s’infrangono le numerose voci di soprano lirico, anche e soprattutto non spinto, che si avventurano nell’opera. Perché non sarà inutile ribadire che gran parte dei nominali mezzosoprani che hanno affrontato e tuttora affrontano il titolo sono in realtà soprani lirici in difetto di tecnica nella zona del primo passaggio di registro, e di conseguenza assai limitati in acuto. Ma soprani lirici restano, per quanto tentino di gonfiare le gote e scurire artificiosamente la voce, riuscendo solo ad ingolfare ulteriormente l’emissione. E che il timbro scuro o bitumato serva poco o nulla lo rammenta Ljuba Welitsch, forse la più completa declinazione della Salome liliale, voce argentina ma di autentico soprano drammatico, insuperata nel rendere l’estasi erotica e l’osceno abbandono della scena finale. Il gusto appare più datato, invece, nei passi concitati, con i centri che risultano a volte un po’ troppo aperti, ma nulla in confronto a quello che combina, nelle medesime pagine, il nominale mezzosoprano Maria Ewing, rinomata Salomè senza veli.
Per capire quali conseguenze produca la mancanza di omogeneità fra primi acuti, centri e gravi, è sufficiente considerare la scena in cui Salomè, dopo avere danzato per il Tetrarca, esige la propria mercede. La frase “Den Kopf des Jochanaan”, che attacca sul si3, sale al re#4 e poi al sol#4 per scendere poi lungo l’arpeggio di mi maggiore fino al mi3, è sede privilegiata per la manifestazione del proverbiale “scalino”, ossia la frattura dei registri. La relativa contiguità delle note toccate rende la suddetta frattura ben più evidente dei tanti passaggi costruiti su ampi intervalli, nei quali all’interprete risulta più agevole contrabbandare per magnifico ed eloquente chiaroscuro quello che è in effetti mero “buco” vocale. Frase altrettanto perigliosa è quella, di poco successiva, “Ich fordre den Kopf des Jochanaan”, con i suoi la naturali sotto il rigo ribattuti e poi la salita al mib3, fa3 e sol3. Un passaggio apparentemente banale, ma sufficiente a verificare se l’interprete disponga di uno strumento che le consenta, per l’appunto, di essere interprete.
Altro momento topico è il finale. Il delirio di Salomè che attende il ritorno del carnefice attacca in zona medio-grave e trapassa, con sempre maggiore veemenza, all’acuto, mentre le frasi rivolte alla testa mozzata di Jochanaan segnano, nell’arco della serata, il momento in cui la tessitura del soprano è in assoluto più alta, malgrado la nota estrema sia un si bemolle. Dopo una sera passata a cantare al centro, in un’opera che vede il soprano protagonista assoluta dell’azione per nove decimi della sua durata, questi venti minuti conclusivi, con sovrabbondanza di frasi di monumentale lunghezza, da cantarsi con grande passione ma senza che vengano meno la purezza d’accento e la qualità del legato, essenziali per ritrarre l’estasi irrecuperabile del personaggio, sono un vero e proprio “cazzaccio” paragonabile alle grandi scene di follia del melodramma romantico. E come in quelle, solo una voce tecnicamente sicura potrà sortirne un effetto che non sia velleitario o fiacco. Come del resto solo un’interprete che padroneggi perfettamente il proprio strumento potrà essere, di volta in volta, seduttiva, insinuante, manipolatrice, furtiva e sognante come può e deve essere Salomè.
Una riflessione peculiare merita Anja Silja, voce di soprano leggero ritenuta, da alcuni, capofila delle cosiddette declamatrici, che gridacchia e stride su un banale fa#4 (conclusione della scena con Narraboth: ascoltare, per comparazione, il filato esibito nel medesimo punto da Grace Bumbry) e che, smessi i panni di Salomè, ha poi con eguale mancanza di proprietà rivestito quelli di Erodiade. Tale madre tale figlia, come suol dirsi.
Anche qui è il caso di intendersi: ove si consideri la declamazione un’alternativa al canto professionale, la designazione della signora Silja come portabandiera della categoria non manca di fondamento. Certo che poi basta sentire quel che resta (in tutti i sensi) di due grandi cantanti attrici, Emmy Destinn e Maria Jeritza, per capire che la declamazione, la scansione bruciante del testo e (almeno in parte) della musica non sono riducibili a un campionario di farfugliamenti e smancerie di quart’ordine. E sì che tanto la Destinn quanto la Jeritza escono proprio male dagli ascolti proposti: in conflitto con l’intonazione, spesso in debito d’ossigeno, con i gravi ovattati (Jeritza, che peraltro negli estratti proposti contava già più di vent’anni di onorata e onerosa carriera) e gli acuti fissi (Destinn), riescono tuttavia entrambe a essere più espressive e appropriate delle loro sventurate epigone, anche solo per la banale ragione che le voci risultano meglio proiettate e di conseguenza possono piegarsi al piano e al pianissimo senza sconfinare nella prosa. A volte basta poco, ma veramente poco!!!
E… i celebri e celebrati exploit scenici – su cui così volentieri s’intrattengono i critici, forse perché così facendo evitano di parlare di musica… – di tante Salome, comprese quelle che scambiano la danza dei sette veli per un numero usurpato alle Folies Bergère?
“Ciò che attrici esotiche, degne di un varietà di infimo ordine, si sono permesse di fare in rappresentazioni posteriori muovendosi come serpenti e facendo volteggiare per aria la testa di Jochanaan, ha spesso superato ogni limite di decenza e gusto! Chi è stato in Oriente e ha osservato il decoro delle donne di laggiù capirà che Salome, giovinetta casta e principessa orientale, deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti, incapace com’è di fronteggiare il miracolo del mondo straordinario, ostile che si trova davanti, invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore”.
Chi è mai l’ottuso reazionario, responsabile di queste righe grondanti disprezzo per la viva realtà teatrale? Il dottor Richard Strauss (Ricordi delle prime rappresentazioni delle mie opere, in Note di passaggio, Torino 1991, p. 130).
Gli ascolti
Strauss – Salome
Ich will nicht bleiben!…Du wirst das für mich tun, Narraboth – Maria Cebotari (con Marko Rothmuller & Karl Friedrich – 1947), Anja Silja (con Gerd Nienstedt & Glade Peterson – 1970), Grace Bumbry (con Norman Bailey & Frank Little – 1978)
Jochanaan! Ich bin verliebt in deinen Leib – Emmy Destinn (1907), Maria Jeritza (1933)
Dein Leib ist grauenvoll…In dein Haar bin ich verliebt – Maria Cebotari (1947), Ljuba Welitsch (1949)
Dein Haar ist gräßlich…Deinen Mund begehre ich, Jochanaan – Emmy Destinn (1907), Catherine Malfitano (1992)
Sieh diesen Mann nicht an…Ich will deinen Mund küssen – Maria Jeritza (con Emil Schipper & Georg Maikl – 1933), Göta Ljungberg (con Friedrich Schorr & Hans Clemens – 1934)
Ah! Herrlich! Wundervoll, wundervoll! – Göta Ljungberg (con Max Lorenz & Dorothee Manski – 1934), Ljuba Welitsch (con Frederick Jagel & Kerstin Thorborg – 1949), Anja Silja (con Ragnar Ulfung & Sona Cervená – 1970), Karita Mattila (con Siegfried Jerusalem & Larissa Diadkova – 2004)
Es ist kein Laut zu vernehmen – Ljuba Welitsch (1949), Anja Silja (1970), Maria Ewing (1988), Catherine Malfitano (1992)
Ah! Du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lassen, Jochanaan! – Göta Ljungberg (1929), Maria Jeritza (1933), Maria Cebotari (1941), Ljuba Welitsch (1949), Grace Bumbry (1978), Maria Ewing (1988), Karita Mattila (2004)
Ahi ahi manca il soprano che dal punto di vista strettamente vocale è stata la miglior Salomè del dopoguerra come risulta evidente dalla insuperabile ed insuperata edizione RCA del 1968. Tanto aveva in gola la parte imparata agli inizi di carriera /il primo live data 1957) che Zubin Metha ancora oggi quando parla di quella edizione RAI del 1971 luccica negli occhi mentre quando nel 1987 arrivò a sorpresa alla Scala per sostituire all'ultimo momento la Marton al termine della memorabile recita il pubblico esplose in una ovazione che non ho più sentito in Scala e io c'ero e non dormivo !!!!
L'articolo è sulle Salomè delle grandi cantanti attrici. E la Caballé non è mai stata cantante attrice, neppure quando era giovane, fresca, piacevole di volto e soprattutto con la voce intatta. Su questo credo che neppure i devoti più fanatici possano smentirmi. Ma sono pronto a ricredermi. Sui devoti, non sulla Caballé.
Poi se permetti, prima di attaccare il rosario in onore della Vergine di Montserrat ci sono ben altre Salomè, anche post guerra, realmente storiche e importanti, in primis Birgit Nilsson, probabilmente la più vicina all'ideale (vocale) sognato dall'autore. Ma anche lei, non certo una cantante attrice. Di qui la dolorosa (questa per davvero) esclusione dall'articolo.
Preferisco non parlare del live scaligero della Señora e della sua unicità, perché potrei diventare volgare. Magari ne parlerà Donzelli, visto che (se non erro) c'era anche lui.
non mi è chiara la distinzione tra soprano drammatico e lirico spitno, perché spesso vengono assimilate come categorie…qualcuno potrebbe fare esempi? grazie…
Il soprano lirico spinto è un tipo vocale intermedio fra il soprano lirico e quello drammatico, tanto in termini di volume necessario a passare l'orchestra, quanto di peculiarità di fraseggio. Tanto per rimanere nell'ambito di un solo autore, si può dire che Eva è soprano lirico, Isolde drammatico, Sieglinde lirico spinto. Ma come in tutte le categorie contigue, c'è un margine di tolleranza e negoziabilità, legato anche al dato storico: vedi il caso di Turandot, cui abbiamo dedicato una puntata del Mito della primadonna (la trovi in archivio).
Caro tamburini nell'opera si recita col canto non con la gestualità sennò finisci col dare ragione agli attuali sovrintendenti che scelgono i cast sulla base della avvenenza. Una sola frase di una Scotto o di una Caballé rendevano il travaglio esistenziale di Violetta in modo assai più eloquente di una Georghiu o di una Ciofi con tutto il loro magari pure apprezzabile "agitarsi" in scena, la Sutherland non aveva bisogno (come la Horne) di fare alcunchè per creare la sua magia bastava aprisse…bocca !
Caro Stecca, allora parliamo e non ci capiamo! Il pezzo è sulle Salomè CANTANTI ATTRICI. Se ti prendi il disturbo di leggerlo, non faticherai a capire che l'approccio della cantante attrice è solo uno dei possibili al personaggio, che c'è modo e modo di essere cantante attrice e che essere cantante attrice non esclude a priori essere ANCHE attrice vocale, cioè interprete nel senso più pieno ed esatto della parola. Tanto è vero che la Welitsch o la Bumbry – bellissime e fascinose in scena – "sono" Salome anche al mero ascolto della registrazione, senza bisogno di gesti o nudità.
Poi, se preferisci continuare nel perpetuo offizio della Catalana, padrone di farlo, ovviamente.
Nessun "perpetuo offizio della catalana" mi limitavo a rilevare (spingendo quindi sulla enfasi) la rilevante omissione che ritengo grave per il tuo pezzo (peraltro egregio), come s euno scrivesse un trattato sui numeri 10 che hanno fatto la storia del calcio senza menzionare…Maradona o se preferisci sui grandi romanzieri milanesi senza Manzoni oppure sui più preparati blogger di opera lirica senza Grisi & Donzelli insomma scegli tu…il senso era solo quello, la "catalana" non abbisogna certo di me "povero untorello" per avere il suo posto nella storia di salomè
Per tornare alle Salome belle di volto e voce, qualcuno sa se esiste una registrazione di Lisa della Casa? So che ha cantato almeno una volta il ruolo in teatro (München 1961) e sarei curioso di sentirla…
Mi inserisco nella discussione con alcune semplici annotazioni, fuori da polemica (come sapete mi spendo quasi sempre in sperticati rigraziamenti, tenendomi lontano dagli schiamazzi).
Credo sia antistorico e completamente errato affermare che se un cantante è baciato in natura da timbro splendido, colore etc. sia allora giocoforza un grande cantante (o giù di lì). La Storia del Belcanto è ricca di controesempi. Il più eclatante forse è Pertile. Ma anche Schipa certo non aveva una "spada" lucente. Eppure sono tra i massimi tenori di ogni tempo.
E direi che, a parte un'infinità di aggettivi che si potrebbero spendere per descriverli entrambi (sopratutto vocalmente), tra le loro
massime qualità, riconosciute loro dai contemporanei, era il loro essere ATTORI grandissimi. Altro immenso attore, d'altra corda, fu il De Luca. Questo essere Attore significa certo molte cose. Si recita, sopratutto, con la Voce. Questo è vero. Ma direi ancor più con il Cervello. E' quest'ultimo che nobilita la voce. E sotto molti punti di vista.
Che la nostra epoca sia stata caratterizzata da progressivo declino nel Belcanto è noto a tutti.
Questo (declino) vale pure per il Pubblico ed i suoi gusti.
Esempio (anzi doppio esempio).
John Mccormack, in natura voce sublime, da Arcangelo, ebbe una carriera quasi esclusivamente da concertista. Il pubblico mal "tollerava"
che un omone massiccio di quasi due metri potesse recitare gli eroi romantici che la sua voce cantava tanto magnificamente (sto parafrasando un passo di Lauri Volpi, cfr. Voci Parallele). Bernardo De Muro, l'altro esempio: benché strepitoso Otello su 78g non si azzardò mai ad interpretare il Moro in scena. Era troppo esile e non se la sarebbe "sentita" di recitare qualcosa di tanto lontano dalla sua…stazza. (Le interviste radiofoniche di De Muro, oltreché commoventi, sono un prezioso documento dell'umiltà di un grande artista e dei suoi anni giovanili…quelli del "Colon 1915", per intendersi.)
Così usava.
Altri tempi. Ossia: tempi in cui essere artista-cantante era mestiere difficile e complesso. Non solo una questione di essere dei vocalisti, a qualsivoglia grado di perfezione, né tantomeno avere "bella voce".
Del resto due giganti dell'800 come Mario e la sua Divina consorte fecero furore anche perchè immensi attori.
Mario venne paragonato a Kean…
Certo. sono discorsi lontani anni luce dal presente.
(Ma come del medioevo onoriamo coloro che tramandarono i testi "classici", così dovremmo fare in quest'epoca anche per il Belcanto… Ma, penso che almeno su questo punto sfondo una porta aperta con tutti voi!)
Ossequi, MB
Ecco un documento rarissimo: si tratta del debutto in salomè a Basilea nel gennaio 1957 che costituisce la prima testimonianza sonora in assoluto disponibile di M.C
http://www.youtube.com/watch?v=hTpjbehUiHY
sono stupito, esterrefatto e basito!
stecca, che non dispone di montsy che canta l'inno della guardia civil, o i lai di dolore espressi con deliziosi filatini in occasione del menarca!