Per la liturgia cattolica con il giorno di Santo Stefano iniziava il periodo di Carnevale. I teatri potevano, dunque, riaprire e all’epoca in cui il melodramma era un bene di consumo, un teatro del nome e della fama della Scala di Milano doveva presentare per la serata inaugurale un titolo nuovo in assoluto o almeno nuovo per la “piazza” ambrosiana.
La sera di Santo Stefano alla Scala coincise con la prima rappresentazione di titoli quali Aureliano in Palmira (1813) e Bianca e Falliero (1819), Norma (1831), donizettiani come Lucrezia Borgia e Maria Padilla, rispettivamente nel 1833 e nel 1841, nonché il Giuramento per il 1837. Paradosso: Giuseppe Verdi non venne mai incaricato di comporre un’opera espressamente per la serata inaugurale. Al più si ricorrse a suoi titoli già noti e rappresentanti.
Per Milano ed i milanesi la serata di Santo Stefano fu, per oltre un secolo, quella dell’inaugurazione della Scala, salvo nella stagione 1882-’83, quando l’indisposizione della protagonista del titolo proposto (Stella del Nord ossia Etoile du Nord di Meyerbeer) costrinse a posticipare al 28 dicembre. Inciampo e posticipo, che si ripropose per la stagione 1891-’92 quando il cast, davvero stellare del Tannhäuser, (De Negri protagonista, Darclée/Elisabetta e Teresa Arkel/Venere) presentò parecchie defezioni dovute ai malanni di stagione.
All’inizio dei propri rapporti con la Scala al rispetto della data canonica si attenne anche Arturo Toscanini. Dall’esame dei titoli scelti non possiamo tacere come l’abbandono dei titoli tradizionali (Verdi e Puccini in primis) non rappresenti affatto un guadagno ed una conquista culturale dei tempi recenti, visto che per la propria prima stagione il maestro di Parma propose i Maestri cantori con cast da Scala (De Marchi/Walter, Pandolfini/Eva, Navarrini/Pogner, Scotti/Sachs). Intendiamoci Scala di allora, non di adesso. Imparziale verso i titoli Toscanini propose anche titoli nuovi, ma già di repertorio come Bohème e Carmen. Aveva, però, una certa propensione per Wagner e per i titoli contemporanei.
Nel frattempo si cominciò ad anticipare a mezzo dicembre l’apertura del teatro a partire dalla stagione 1902-’03, scelta che continuò nelle successive, gestite non solo da Toscanini ma da autentici ed indiscussi maestri come Mugnone, Campanini, Vitale ed il giovane Serafin. Con questi maestri più ancora che con Toscanini la fantasia nella scelta dei titoli è esemplare e nega che tale virtù sia appannaggio e conquista degli ultimi anni. Oltre che ad una costante e cospicua dose di Wagner (avverso la quale i puristi leverebbero urla di raccapriccio in quanto in lingua italiana) convivevano titoli recenti (Loreley, Otello e Falstaff) ed addirittura della tradizione preromantica e quindi dimenticati come Vestale (19 dicembre 1908 protagonista Ester Mazzoleni, sul podio il maestro Vitale) o Armida di Gluck (17 dicembre 1911 protagonista Eugenia Burzio, sul podio il maestro Serafin). Gli scaligeri di ferro ricorderanno che anche Riccardo Muti ha proposto questi titoli per un sant’Ambrogio. Protagoniste del primo Karen Huffstodt e del secondo Anna Caterina Antonacci.
Dopo uno sporadico ritorno alla data canonica per la stagione 1922-’23, che segnava il debutto scaligero del Falstaff di Stabile, le prime stagioni del famoso decennio toscaniniano retrodatano ai primi di novembre l’inaugurazione. Non poteva accadere differentemente atteso il numero dei titoli che venivano proposti, circa venticinque, e l’esigenza di finire ai primi di maggio per consentire a cantanti e direttori le famose, remuneratissime tournée in Sud America.
Per altro dalla stagione 1931-’32 la Scala tornò alla data canonica e vi ritornò con un titolo che compiva i cento anni, ossia Norma, affidata alla bacchetta di Ettore Panizza.
E se alla protagonista Bianca Scacciati è giusto muovere appunti perché la voce limpida e penetrante aveva difficoltà con il canto legato e le agilità, a tacere del gusto, nessuna censura può esser neppur tentata per Nazzareno de Angelis (Oroveso), sentite le registrazioni di Mosè, Ugonotti e Roberto il diavolo o per l’Adalgisa di Ebe Stignani, giovane ministra per oltre trent’anni in tutti i i teatri del mondo e la cui sfolgorante dote vocale e tecnica dovrebbe far riflettere, se ne fossero capaci, coloro i quali la additano come zia di Norma ovvero sussiegosa matrona. Certo i melomani vorrebbero la macchina del tempo per sentire il Pollione di turno ossia Aureliano Pertile del quale, purtroppo, non ci sono testimonianze discografiche. Per altro colgo l’occasione per dire come i due coevi proconsoli discografici (Giacomo Lauri Volpi e Francesco Merli) siano in grado di insegnare molto a tutti i successivi tenori che hanno cantato Pollione.
Per la stagione successiva il nuovo “nume tutelare” della Scala, Victor de Sabata, propose un titolo allora usuale ed usuale per l’inaugurazione: Crepuscolo degli dei. Assai più di rottura il titolo scelto per la stagione successiva 1933-’34, ossia Nabucco, dove il teatro milanese schierò, sotto la guida di Vittorio Gui, Gina Cigna, divenuta il soprano drammatico ufficiale della Scala, Carlo Galeffi e Pasero, prendendosi pure il lusso di Ebe Stignani quale Fenena. Era un lusso possibile (e magari di limitato onere) perché la divina Ebe al sera dopo faceva parte del cast del Trovatore, che comprendeva Giacomo Lauri–Volpi, Giuseppe Danise (che il pubblico scaligero si prese il lusso di riprovare) ed Iva Pacetti.
Sulla politica del primo Verdi la Scala insisteva perché il santo Stefano del 1935 fu dedicato ad Ernani (direttore Marinuzzi, cast Cigna, Merli, Pasero, Borgioli) e quello del 1938 previde Macbeth (sempre sotto la direzione di Marinuzzi con la Jacobo, de Sved e Pasero).
Erano gli anni in cui si alternavano sul podio per l’inaugurazione de Sabata e Marinuzzi ed i titoli che proponevano derivavano, principalmente, dalle loro inclinazioni e dalla loro cultura. Quindi de Sabata, che era anche un compositore e ritenuto unanimanente il più completo interprete wagneriano, propose Falstaff (26 dicembre 1936 ed ancora il 26 dicembre 1942), mentre Marinuzzi, incline al melodramma italiano (salvo poi essere il primo direttore di Donna senz’ombra) propose oltre ai titoli del primo Verdi assolute rarità come Poliuto nel 1940 (cast di star come Caniglia, Gigli e Bechi, anche se qualcuno dirà che erano più idonei a Chénier o Tosca) e addirittura il Guglielmo Tell per il Santo Stefano 1939. Quale spunto di polemica riflessione non posso omettere che in epoca giudicata di trito verismo il Tell mancava, quel Santo Stefano, in Scala solo da dieci anni, mentre oggi in piena terza o quarta (ho perso il conto) generazione di cantanti rossiniani l’assenza è ultraventennale.
Mefistofele era ritenuta paradigma di opera da Santo Stefano. Venne, infatti, prescelta quale titolo inaugurale della stagione 1943-’44, che principiò al teatro Sociale di Como, visto che la Scala era inagibile per i pesanti bombardamenti del 14 agosto 1943. Non so quale potesse essere la qualità visiva dello spettacolo (chi ha vissuto e visto quegli spettacoli nelle varie sedi distaccate della Scala, quali il Sociale di Busto un po’ di ironia ce la mette!!), ma in mezzo alla difficoltà bellica si schierava, comunque, il solidissimo e sempre verde Pasero e Giovanni Malipiero. Mi permetto di ricordare che il 10 aprile 1944 al Lirico di Milano ( allora integro ed agibile) e senza che nessuno gridasse all’evento storico Gino Marinuzzi dirigeva Parsifal con Inghilleri/Amfortas, Pasero/Gurnemanz, Tasso/Parsifal e la generosa Franca Somigli quale Kundry.
Gli eventi bellici e post bellici spostano sedi e date dell’inaugurazione per gli anni 1945 e 1946, ma il 26 dicembre 1946 a Scala ricostruita si riparte nella sala del Piermarini. A distanza di trent’anni ritorna per l’inaugurazione sul podio Tullio Serafin con il Nabucco dove, accanto ai cantanti del recente passato (Bechi protagonista) fanno capolino le nuove leve (Fedora Barbieri e Cesare Siepi, che in due facevano poco più di mezzo secolo). In quella data principiava una stagione lirica di trenta titoli, ovvero quanto la nostra attuale Scalà ci offrirà da qui al 2015.
Il ritorno di De Sabata per l’inaugurazione della stagione 1947-’48 è all’insegna di uno dei titoli preferiti dal maestro: Otello. Ed Otello ricomparirà anche per il Santo Stefano 1950, sempre con de Sabata, sempre con Bechi, sempre con Vinay, ma con il cambio del ruolo femminile, che passava da Maria Caniglia e Renata Tebaldi, ossia passaggio di testimone fra le voci d’oro all’italiana.
Assunto il ruolo di direttore principale della Scala de Sabata propose nel 1948 Trovatore e nel 1951 Vespri Siciliani. Fu l’ultimo santo Stefano, poi si passò al sant’Ambrogio perché l’alta borghesia milanese, che pagava (e profumantamente!) i biglietti della prima a Santo Stefano stava già a Saint-Moritz o a Cortina e allora Sant’Ambrogio si aggiudicò l’opening night. In quei Vespri nel ruolo della duchessa Elena, in luogo dell’ipotizzata signora Maria Caniglia, un’altra Maria, anzi LA MARIA. Era l’inizio dei tempi nuovi……..
Le conclusioni sono facili, ovvie e terribilmente passatiste. Negli ultimi anni, chiunque sedesse in direzione artistica o salisse sul podio nulla ha scoperto od inventato nella scelta dei titoli, anzi ha simulato una piccola fantasia ed una piccola cultura davanti alla grande dei propri predecessori, che si limitavano a svolgere il loro mestiere senza presunzione di assurgere all’empireo della storia dell’esecuzione operistica.
Per la cronaca l’articolo è dedicato come spunto di piccola riflessione a chi, come l’estensore del pezzo, nella vita quotidiana porti il venerato nome del protomartire della Chiesa.
La sera di Santo Stefano alla Scala coincise con la prima rappresentazione di titoli quali Aureliano in Palmira (1813) e Bianca e Falliero (1819), Norma (1831), donizettiani come Lucrezia Borgia e Maria Padilla, rispettivamente nel 1833 e nel 1841, nonché il Giuramento per il 1837. Paradosso: Giuseppe Verdi non venne mai incaricato di comporre un’opera espressamente per la serata inaugurale. Al più si ricorrse a suoi titoli già noti e rappresentanti.
Per Milano ed i milanesi la serata di Santo Stefano fu, per oltre un secolo, quella dell’inaugurazione della Scala, salvo nella stagione 1882-’83, quando l’indisposizione della protagonista del titolo proposto (Stella del Nord ossia Etoile du Nord di Meyerbeer) costrinse a posticipare al 28 dicembre. Inciampo e posticipo, che si ripropose per la stagione 1891-’92 quando il cast, davvero stellare del Tannhäuser, (De Negri protagonista, Darclée/Elisabetta e Teresa Arkel/Venere) presentò parecchie defezioni dovute ai malanni di stagione.
All’inizio dei propri rapporti con la Scala al rispetto della data canonica si attenne anche Arturo Toscanini. Dall’esame dei titoli scelti non possiamo tacere come l’abbandono dei titoli tradizionali (Verdi e Puccini in primis) non rappresenti affatto un guadagno ed una conquista culturale dei tempi recenti, visto che per la propria prima stagione il maestro di Parma propose i Maestri cantori con cast da Scala (De Marchi/Walter, Pandolfini/Eva, Navarrini/Pogner, Scotti/Sachs). Intendiamoci Scala di allora, non di adesso. Imparziale verso i titoli Toscanini propose anche titoli nuovi, ma già di repertorio come Bohème e Carmen. Aveva, però, una certa propensione per Wagner e per i titoli contemporanei.
Nel frattempo si cominciò ad anticipare a mezzo dicembre l’apertura del teatro a partire dalla stagione 1902-’03, scelta che continuò nelle successive, gestite non solo da Toscanini ma da autentici ed indiscussi maestri come Mugnone, Campanini, Vitale ed il giovane Serafin. Con questi maestri più ancora che con Toscanini la fantasia nella scelta dei titoli è esemplare e nega che tale virtù sia appannaggio e conquista degli ultimi anni. Oltre che ad una costante e cospicua dose di Wagner (avverso la quale i puristi leverebbero urla di raccapriccio in quanto in lingua italiana) convivevano titoli recenti (Loreley, Otello e Falstaff) ed addirittura della tradizione preromantica e quindi dimenticati come Vestale (19 dicembre 1908 protagonista Ester Mazzoleni, sul podio il maestro Vitale) o Armida di Gluck (17 dicembre 1911 protagonista Eugenia Burzio, sul podio il maestro Serafin). Gli scaligeri di ferro ricorderanno che anche Riccardo Muti ha proposto questi titoli per un sant’Ambrogio. Protagoniste del primo Karen Huffstodt e del secondo Anna Caterina Antonacci.
Dopo uno sporadico ritorno alla data canonica per la stagione 1922-’23, che segnava il debutto scaligero del Falstaff di Stabile, le prime stagioni del famoso decennio toscaniniano retrodatano ai primi di novembre l’inaugurazione. Non poteva accadere differentemente atteso il numero dei titoli che venivano proposti, circa venticinque, e l’esigenza di finire ai primi di maggio per consentire a cantanti e direttori le famose, remuneratissime tournée in Sud America.
Per altro dalla stagione 1931-’32 la Scala tornò alla data canonica e vi ritornò con un titolo che compiva i cento anni, ossia Norma, affidata alla bacchetta di Ettore Panizza.
E se alla protagonista Bianca Scacciati è giusto muovere appunti perché la voce limpida e penetrante aveva difficoltà con il canto legato e le agilità, a tacere del gusto, nessuna censura può esser neppur tentata per Nazzareno de Angelis (Oroveso), sentite le registrazioni di Mosè, Ugonotti e Roberto il diavolo o per l’Adalgisa di Ebe Stignani, giovane ministra per oltre trent’anni in tutti i i teatri del mondo e la cui sfolgorante dote vocale e tecnica dovrebbe far riflettere, se ne fossero capaci, coloro i quali la additano come zia di Norma ovvero sussiegosa matrona. Certo i melomani vorrebbero la macchina del tempo per sentire il Pollione di turno ossia Aureliano Pertile del quale, purtroppo, non ci sono testimonianze discografiche. Per altro colgo l’occasione per dire come i due coevi proconsoli discografici (Giacomo Lauri Volpi e Francesco Merli) siano in grado di insegnare molto a tutti i successivi tenori che hanno cantato Pollione.
Per la stagione successiva il nuovo “nume tutelare” della Scala, Victor de Sabata, propose un titolo allora usuale ed usuale per l’inaugurazione: Crepuscolo degli dei. Assai più di rottura il titolo scelto per la stagione successiva 1933-’34, ossia Nabucco, dove il teatro milanese schierò, sotto la guida di Vittorio Gui, Gina Cigna, divenuta il soprano drammatico ufficiale della Scala, Carlo Galeffi e Pasero, prendendosi pure il lusso di Ebe Stignani quale Fenena. Era un lusso possibile (e magari di limitato onere) perché la divina Ebe al sera dopo faceva parte del cast del Trovatore, che comprendeva Giacomo Lauri–Volpi, Giuseppe Danise (che il pubblico scaligero si prese il lusso di riprovare) ed Iva Pacetti.
Sulla politica del primo Verdi la Scala insisteva perché il santo Stefano del 1935 fu dedicato ad Ernani (direttore Marinuzzi, cast Cigna, Merli, Pasero, Borgioli) e quello del 1938 previde Macbeth (sempre sotto la direzione di Marinuzzi con la Jacobo, de Sved e Pasero).
Erano gli anni in cui si alternavano sul podio per l’inaugurazione de Sabata e Marinuzzi ed i titoli che proponevano derivavano, principalmente, dalle loro inclinazioni e dalla loro cultura. Quindi de Sabata, che era anche un compositore e ritenuto unanimanente il più completo interprete wagneriano, propose Falstaff (26 dicembre 1936 ed ancora il 26 dicembre 1942), mentre Marinuzzi, incline al melodramma italiano (salvo poi essere il primo direttore di Donna senz’ombra) propose oltre ai titoli del primo Verdi assolute rarità come Poliuto nel 1940 (cast di star come Caniglia, Gigli e Bechi, anche se qualcuno dirà che erano più idonei a Chénier o Tosca) e addirittura il Guglielmo Tell per il Santo Stefano 1939. Quale spunto di polemica riflessione non posso omettere che in epoca giudicata di trito verismo il Tell mancava, quel Santo Stefano, in Scala solo da dieci anni, mentre oggi in piena terza o quarta (ho perso il conto) generazione di cantanti rossiniani l’assenza è ultraventennale.
Mefistofele era ritenuta paradigma di opera da Santo Stefano. Venne, infatti, prescelta quale titolo inaugurale della stagione 1943-’44, che principiò al teatro Sociale di Como, visto che la Scala era inagibile per i pesanti bombardamenti del 14 agosto 1943. Non so quale potesse essere la qualità visiva dello spettacolo (chi ha vissuto e visto quegli spettacoli nelle varie sedi distaccate della Scala, quali il Sociale di Busto un po’ di ironia ce la mette!!), ma in mezzo alla difficoltà bellica si schierava, comunque, il solidissimo e sempre verde Pasero e Giovanni Malipiero. Mi permetto di ricordare che il 10 aprile 1944 al Lirico di Milano ( allora integro ed agibile) e senza che nessuno gridasse all’evento storico Gino Marinuzzi dirigeva Parsifal con Inghilleri/Amfortas, Pasero/Gurnemanz, Tasso/Parsifal e la generosa Franca Somigli quale Kundry.
Gli eventi bellici e post bellici spostano sedi e date dell’inaugurazione per gli anni 1945 e 1946, ma il 26 dicembre 1946 a Scala ricostruita si riparte nella sala del Piermarini. A distanza di trent’anni ritorna per l’inaugurazione sul podio Tullio Serafin con il Nabucco dove, accanto ai cantanti del recente passato (Bechi protagonista) fanno capolino le nuove leve (Fedora Barbieri e Cesare Siepi, che in due facevano poco più di mezzo secolo). In quella data principiava una stagione lirica di trenta titoli, ovvero quanto la nostra attuale Scalà ci offrirà da qui al 2015.
Il ritorno di De Sabata per l’inaugurazione della stagione 1947-’48 è all’insegna di uno dei titoli preferiti dal maestro: Otello. Ed Otello ricomparirà anche per il Santo Stefano 1950, sempre con de Sabata, sempre con Bechi, sempre con Vinay, ma con il cambio del ruolo femminile, che passava da Maria Caniglia e Renata Tebaldi, ossia passaggio di testimone fra le voci d’oro all’italiana.
Assunto il ruolo di direttore principale della Scala de Sabata propose nel 1948 Trovatore e nel 1951 Vespri Siciliani. Fu l’ultimo santo Stefano, poi si passò al sant’Ambrogio perché l’alta borghesia milanese, che pagava (e profumantamente!) i biglietti della prima a Santo Stefano stava già a Saint-Moritz o a Cortina e allora Sant’Ambrogio si aggiudicò l’opening night. In quei Vespri nel ruolo della duchessa Elena, in luogo dell’ipotizzata signora Maria Caniglia, un’altra Maria, anzi LA MARIA. Era l’inizio dei tempi nuovi……..
Le conclusioni sono facili, ovvie e terribilmente passatiste. Negli ultimi anni, chiunque sedesse in direzione artistica o salisse sul podio nulla ha scoperto od inventato nella scelta dei titoli, anzi ha simulato una piccola fantasia ed una piccola cultura davanti alla grande dei propri predecessori, che si limitavano a svolgere il loro mestiere senza presunzione di assurgere all’empireo della storia dell’esecuzione operistica.
Per la cronaca l’articolo è dedicato come spunto di piccola riflessione a chi, come l’estensore del pezzo, nella vita quotidiana porti il venerato nome del protomartire della Chiesa.
Gli ascolti
Spontini
La Vestale
Atto II
Toi que j’emplore avec effroi – Ester Mazzoleni (1910)
Rossini
Guillaume Tell
Atto IV
Asile héréditaire – Todor Mazaroff (1951)
Bellini
Norma
Sinfonia – Gino Marinuzzi (1940)
Verdi
Ernani
Atto I
Chi mai vegg’io?…Infelice, e tuo credevi – Tancredi Pasero (1927)
Les vêpres siciliennes
Atto V
Merci, jeunes amies – Maria Callas (1951)
Otello
Atto IV
Ave Maria – Maria Caniglia (1938), Renata Tebaldi (1952)
Falstaff
Atto I
L’onore! Ladri – Mariano Stabile (1926)
Wagner
Die Walküre
Atto I
Winterstürme wichen dem Wonnemond – Isidoro Fagoaga (1929)
Auguri da un altro Stefano!
Sono certo da rimpiangere le inaugurazioni e le voci scaligere d'antan.
Grazie per gli splendidi brani e , soprattutto, per i cantanti da voi scelti.
Una breve postilla : se non vado errata,il "Mercé dilette amiche" postato è il live della mirabile esecuzione – l'incertezza sull'acuto finale non conta nulla- fornita da Maria Callas nei "Vespri siciliani" , diretti da Kleiber senior , in occasione del Magggio fiorentino del 1951.
Se sbaglio, "corrigetemi".
Buon Santo Stefano!
Grazie ancora
Piccarda
Piccarda: è dessa!
Ancora auguri,
AT
"In quella data [1946] principiava una stagione lirica di trenta titoli, ovvero quanto la nostra attuale Scalà ci offrirà da qui al 2015."
"Negli ultimi anni, chiunque sedesse in direzione artistica o salisse sul podio nulla ha scoperto od inventato nella scelta dei titoli…"
Queste due frasi la dicono lunga sull'attuale situazione ( e sugli ultimi 40 anni). Ci fanno capire che in realtà, c'è ben poco da capire, ma talmente poco che i GRANDI cervelli che oggi ci governano atisticamente non l'hanno ancora capita!
Il che è tutto dire.
E poi questi idioti hanno permesso la chiusura delle sedi RAI, hanno permesso la rimozione totale della Piccola Scala e nessuno ha parlato.
Nessuno ha protestato i beni culturali rapiti e distrutti sotto gli occhi (e le orecchie) di tutti!
Hanno recentemente "ricostruito" un Teatro STORICO per aggiungere strutture mostruose, piene di nuovi uffici.
Bravi!
Permettemi, amici,di dire che il vostro atteggiamento di eterno rimpianto è un poco lagnoso; quasi fosse ormai una maniera, al di là di ogni osservazione su ciò che si ascolta al presente. Non esistono secondo me le epoche di decadenza assoluta, in nessun campo; tutto sta nel sapere (o, meglio, nel volere)vedere le caratteristiche di ogni tempo.
Saluti
Marco Ninci
Quindi, Marco, dovremmo accontentarci di culturame spacciato (con soldi pubblici) per cultura, solo perché chi dovrebbe fare cultura… fa altro?
Permettimi di risponderti con Sua Santità Papa Chiaramonti:
NON POSSIAMO, NON DOBBIAMO, NON VOGLIAMO