La Carmen di Walter costituisce un documento preziosissimo dei modi di essere direttori da opera e delle attitudini di fronte al testo ed al canto delle generazioni attive nel primo cinquantennio del XX secolo. Walter si alternò in quell’occasione a Carl Ebert ed i protagonisti furono T. Masaroff /J. Kiepura, Else Brems e Esther Rethy.
A riprova di quanto già assunto da Donzelli, ossia che per la sopravvivenza dell’opera fossero necessari traduzione in lingua ed adozione della versione con i parlati concertati, si pone il documento audio del ’37 di Vienna. Bruno Walter andò in scena nel suo teatro con una edizione di Carmen per la quale venne appositamente redatta una nuova traduzione tedesca, invece della preesistente di Popp, da parte di G. Brecher, direttore d’orchestra e musicologo, già autore nel’11 di un saggio sulle traduzioni nel melodramma.
Il Don Josè prescelto, il bulgaro Mazaroff, aveva debuttato quell’anno a Vienna come Radames, destinato alla difficile successione di Leo Slezak. Con Piccaver al tramonto e Volker ormai lontano dal 1934, al seguito di C. Krauss, Bruno Walter dovette crearsi il nuovo tenore di punta per lo Staatsoper. Ai mezzi naturali straordinari di Mazaroff Walter conferì upgrade tecnico oltre che stilistico ed il risultato, come già nel Don Carlo che vi presentammo l’anno passato, fu eccezionale. Ad un tenore di genere spinto Walter chiese di cantare con grande dolcezza e lirismo il duetto con Micaela, di fare uso frequente di smorzature e piani, giovandosi di un uso perfetto del “misto”. Questa scena, dove anche E. Rethy- Micaela è in grado di assecondare le continue sfumature e variazioni dinamiche che il direttore richiede, trova la sua giusta dimensione da “operà-comique”. Il canto è depurato da ogni gratuito effetto verista, misurato l’accento dei due amanti che attaccano ogni frase con morbida dolcezza, restituendo l’intimità e la tenerezza del loro dialogo.
Nel resto dell’opera, poi, Mazaroff canta con forza, centro pieno, ma sempre con ricchezza dinamica e capacità di sfumare. Il “Fiore” è bellissimo, per la bella qualità vocale e le intenzioni, smorzature comprese, mentre il duetto finale è cantato con accenti tragici ma senza eccesso o effettacci gratuiti. La stessa protagonista, E. Brems, canta compostissima, e quel poco che rimane documentato testimonia una interprete molto “cantante” e per nulla “parlata”.
Semplicità ed efficacia caratterizzano la chanson Bohemienne, che Walter dirige come una canzone leggera, da eseguire legatissima, sensuale ed insinuante, e che accellera vistosamente soltanto nella seconda parte, dove si fa, per dirla con il libretto, “ardente, folle ”. L’ascolto, poi, rivela come l’esecuzione sia a due, perchè è Frasquita, dopo il Tralallala, ad attaccare la sezione “ Les Bohémiens a tours de bras..”, restituendoci in questo modo una esempio delle tante manomissioni esecutive che la tradizione portava con sé.
Insomma, con Walter i personaggi sono vocali, ed anche nei momenti più intensi, come il finale del IV atto, di grande ed elettrizzante effetto, non si scade mai nel clangore, nell’urlo, nella volgarità.
Quella che udiamo, contrariamente a quanto si poteva supporre pensando alla direzione di una leggenda della direzione sinfonica, è la prova di un grandissimo accompagnatore, che esalta in ogni modo l’espressione tramite il canto. Il passo più deludente è certamente il preludio, a mio avviso troppo lento e privo di brillantezza nella sezione veloce iniziale, ma di grande effetto tragico nella profetica sezione centrale che annuncia la tragedia della protagonista. Dei brani sopravvissuti è certo il meno riuscito e in piena contraddizione con la visione dimostrata da Walter nel resto dell’opera. Con le parti cantate, infatti, Walter fissa lucidamente Carmen prima del Verismo, nel pieno della tradizione dell’opera comique francese, imponendo al cast un canto ancora incontaminato da quegli stilemi espressivi che seguirono di lì poco gli anni della composizione di Bizet.Al contrario funziona la Carmen newyorkese del mediterraneo Mitroupoulos.
Con un saldo delle voci pesantemente in passivo, il genio percorse la via del fai-da-te, cioè fai-senza-cantanti, barcamenandosi in varia maniera nell’accompagnamento al “canto” per poi dar sfogo alla sua straordinaria fantasia nel descrivere scene, creare atmosfere, ritmare i momenti topici del dramma. Alle limitate menti odierne che asseriscono la Carmen essere opera funerea e mortifera suggerirei l’ascolto di questa edizione, che, al contrario, evidenzia, sottolinea e mette in risalto le innumerevoli sfaccettature del testo. M. concepisce Carmen all’antica, come un mix di azione drammaturgica e colore, dove la vicenda si snoda sullo sfondo di un mondo articolato di figure, gruppi, personaggi grandi e piccoli, di luoghi e momenti del giorno diversi, persino di temperature che mutano ad ogni cambio di atto. A questo grandioso affresco spagnolo M. dà tanta vita e forza drammaturgica da metterlo sullo stesso piano del dramma dei protagonisti, come una grandiosa pittura di genere. Solo in questo modo la sua Carmen vive e prende senso, andando oltre l’imbarazzante gracchiare sguaiato della senescente R. Stevens, il canto monocorde e forzato di un Del Monaco a pezzi ( il cantante di Reiner 4 anni prima era altra cosa… ), la piccola mediocrità L. Amara e la greve legnosità di F.Guerrera. Un cast da dimenticare, incapace di eseguire una sfumatura, talora in difficoltà persino nell’andare a tempo ( si veda per tutti l’Habanera della Stevens..), che M. segrega in una esecuzione ritmata, veloce, spesso addirittura a tempo. Il canto ha poco rilievo in se stesso, anzi più volte in chiusa ai numeri è proprio M. ad inventarsi qualcosa per variare o creare un effetto per lo spettatore: i rallentando in chiusa all’Habanera; la grandissima velocità della stretta del duetto tra don Josè e Micaela; l’atmosfera sospesa del Larallallalà che precede la Seguidilla, che scopre il lato inquietante della protagonista; la seconda sezione della Chanson Bohémienne, scatenata e quasi orgiastica, more “Mediterraneo arcaico” di M., con una chiusa parossisitica; la poesia struggente del “Fiore”, che sopperisce da sola alla pochezza di colori del tenore; un tempo lentissimo e funebre nella scena delle carte.
Di questa Carmen però colpiscono altri numeri, a cominciare dal velocissimo preludio, di pura tensione drammatica in contrasto con la vitalità incontenibile del tema iniziale. Dall’apertura del sipario sino alla fine, M. non cede un attimo al calo di tensione: tutto è ritmato, vivo, diretto con piglio ed originalità, da momenti interlocutori, come l’entrata di Micaela con i soldati, alle grandi scene di colore. La marcia dei bambini-soldati è impressionante, dilagano per il palco: non sono bimbetti, ma ragazzini che giocano seriamente alla guerra, come quelli di via Pal, perciò cantano con grande vigore e ritmo. Il loro canto è accentatissimo e contrasta di lì poco con quello sfumato e a fior di labbro dei soldati e degli uomini corteggiatori durante l’ingresso delle sigaraie: anche qui M. si preoccupa di trovare, e vi riesce, accenti diversi per tutte le parti del coro, senza cadere in suggestioni decadenti di sorta.
Il preludio al II atto è un altro dei momenti ove M. si stacca dalle più recenti direzioni di Carmen. Di nuovo ne fa una esecuzione molto marcata negli accenti, lenta e con suggestivi effetti dinamici, per restituire il clima popolare della taverna e dei suoi piccoli attori. Dopo la travolgente chiusa della Chanson Bohèmienne è la volta dell’entrata di Escamillo, e di nuovo M. fa teatro da solo, costruendogli una sortita di tale forza e piglio che il povere Guerrrera non può che deludere non appena apre la bocca. Il finale d’atto è intenso ma la vera originalità di M. arriva da altro. A cominciare dall’introduzione al III atto, diretto con sobrietà e senza compiacimenti di sorta. Restituisce allo spettatore ben più del clima del luogo, perché di fatto narra e dipinge un presepe vivente dei luoghi ove l’azione prosegue.
Vi ho già detto come sopperisca ai limiti della Stevens usando una amplificata lentezza nelle carte per dar senso al presagio di morte, per poi scatenarsi in un finale III vibrante.
Il IV atto è pensato un po’alla Reiner, anche se l’esecuzione ha accenti diversi. Nell’introduzione usa ancora dei rallentamenti di grandissimo effetto, volutamente caricati, cui segue l’entrata di gran passo dei toreri. Procede con nerbo e senza leggerezza, dando alla marcia dei toni epici. La corrida è impresa grandiosa ed eroica, ma popolare e retorica , e come tale la restituisce M. Che poi il duetto finale sia sanguigno e violento non stupisce, ma questa è una scena che tutti hanno amministrato in modo abbastanza univoco.
La chiave interpretativa di M., dunque, è quella dei contrasti anche accesi, voluti e caricati, della ricerca di colori sempre diversi che con facilità si ritrovano in Bizet e Meilhac – Halevy. L’opera è una sequenza continua numeri, scene e sottoscene che la bacchetta sapiente ed istrionica può utilizzare per fare teatro in ogni istante. Colpiscono il modo di approcciare il testo, senza alcun intento nobilitativo degli aspetti più popolari e di preludio al Verismo; l’indifferenza per suggestioni o eleganze ricercate ma forse non sempre pertinenti al genere; la tensione drammatica sottesa ad ogni numero, dal primo all’ultimo; la forza teatrale incontenibile.
Un modo di dirigere Carmen che sparirà di lì a breve, e vedremo con quali esiti.
Dirigere Carmen / 2
Preludio – Bruno Walter (1937), Dimitri Mitropoulos (1957)
Atto I
Avec la garde montante – Dimitri Mitropoulos (1957)
Près des remparts de Séville – Risë Stevens (con Mario del Monaco – 1957)
Entr’acte – Dimitri Mitropoulos (1957)
Atto II
Les tringles des sistres tintaient – Dimitri Mitropoulos (1957)
Votre toast, je peux vous le rendre – Frank Guarrera (1957)
Je vais danser en votre honneur – Risë Stevens & Mario del Monaco (1957)
La fleur que tu m’avais jetée – Todor Mazaroff (1937)
Atto III
Entr’acte – Dimitri Mitropoulos (1957)
Atto IV
A deux cuartos – Dimitri Mitropoulos (1957)
Les voici, voici la quadrille – Dimitri Mitropoulos (1957)
Tu ne m’aimes donc plus? – Todor Mazaroff & Elsa Brems (1937)
Bellissimo articolo che condivido al 100%. Quello che Mitropoulos fa fatto ancora oggi non tutti e non tutto si riesce a comprendere appieno. E’ incredibile che di questo direttore non esista nessun filmato mentre dirige, fatta eccezione per brani del Faust di Liszt con la NYPO ripresi per essere inseriti in un film degli anni 50 … mah
Non si potrebbero riattivare anche questi ascolti?
Ascolti riattivati!