Ad ogni rappresentazione del capolavoro di Bizet – e ad ogni nuova uscita discografica – immancabilmente si pone la questione circa la versione dell’opera da seguire, quale edizione privilegiare, quali aggiustamenti – funzionali a spettacolo, visione interpretativa, valore e capacità degli esecutori – apportarvi. Una vera e propria crux filologica dovuta, in parte, agli interventi che la partitura ha subito nel corso dei suoi primi anni di vita (e grazie ai quali ha conosciuto l’universale celebrità), ed in parte alle ricerche musicologiche degli ultimi 50 anni, che hanno permesso una maggior conoscenza di tutte le fasi della gestazione di Carmen (portandone alla luce aspetti non approfonditi). Ma prima di addentrarsi negli intrichi delle diverse versioni del testo, un pò di storia: Bizet, nei primi mesi del 1873, comincia a scrivere un’opéra-comique tratta da una novella di successo di Prosper Mérimée, su commissione di Camille du Locle, allora direttore del teatro di place Boieldieu.
Com’è noto, il genere prevede l’alternarsi di numeri musicali e dialoghi: derivato dal più antico vaudeville (e corrispondente, sia pur con sostanziali differenze, al singspiel di area austro-tedesca, alla ballad opera inglese e alla zarzuela spagnola), si contrapponeva, nella Parigi dell’800, alle produzioni, più “classiche” e paludate, dell’Académie Royale de Musique. In origine caratterizzata da soggetti brillanti e leggeri, poi, col tempo, affievolendosi le rigide divisioni per genere tipiche del teatro francese, comprese poi, anche lavori fortemente drammatici. Le prove cominciarono nell’ottobre del 1874 e proseguirono tra difficoltà e problemi (non da ultimi quelli privati dell’autore, in piena crisi coniugale) per oltre 5 mesi, durante i quali Bizet continua a lavorare sull’opera, attraverso tagli più o meno consistenti, modifiche talvolta sostanziali, aggiustamenti nell’orchestrazione, sostituzioni di brani, aggiunte e, soprattutto, arricchendo la partitura di nuovi e dettagliati segni d’espressione. Oltre naturalmente a tutti quegli altri interventi, di natura più pratica, resisi necessari, durante il prosieguo delle prove, per andare incontro agli interpreti. Un complesso e articolato labor limae, dunque, che confluisce nella pubblicazione, sotto la supervisione e l’approvazione dell’autore, dello spartito per canto e pianoforte che, proprio a seguito dei numerosi interventi, differisce anche notevolmente dal manoscritto.
L’opera in questa sua veste definitiva – che è quella voluta, sanzionata e approvata da Bizet – va in scena la sera del 3 marzo 1875 (lo stesso giorno in cui viene premiato con la Legion d’onore): tra il folto pubblico che riempiva la sala, vi era il meglio della cultura musicale francese dell’epoca, Massenet, Delibes, Gounod, Lecocq, Offenbach, ma anche cantanti, scrittori, editori, ansiosi di ascoltare il nuovo lavoro del 36enne compositore. L’esito, pur non essendo quel fiasco che un certa vulgata ha voluto tramandare, fu decisamente inferiore alle aspettative: tra applausi non solo di cortesia e imbarazzati silenzi, la critica si scatenò, attribuendo il mancato successo ad un libretto inadeguato ad una opéra-comique e al fatto che Bizet non avesse voluto accogliere gli “insegnamenti” wagneriani (ritenuti imprescindibili per aver la patente di “musicista dell’avvenire”). Carmen, tuttavia, proseguì il suo cammino, non trionfale certo, con ben 48 repliche durante le quali l’accoglienza del pubblico si fece sempre più generosa. Nell’ottobre dello stesso anno era prevista la prima esecuzione fuori dalla Francia, a Vienna, per poi sbarcare a San Pietroburgo, Stoccolma, Londra, Dublino, fino a New York, Philadelphia e Melbourne (la prima italiana avvenne a Napoli nel 1879, mentre in Spagna arrivò solo nel 1881 a Barcellona). In prospettiva della sua diffusione internazionale l’opera avrebbe dovuto subire quelle modifiche necessarie affinchè venisse rappresentata su palcoscenici diversi dall’Opéra-Comique: ossia la sostituzione dei dialoghi con recitativi musicati (non era accettabile allora, infatti, in Inghilterra, negli Stati Uniti o in Italia uno spettacolo che mischiasse prosa e canto). La medesima sorte sarebbe toccata a tante altre opéra-comique, precedenti, contemporanee o successive: dal Faust di Gounod, alla Lakmé di Delibes, dal Fra Diavolo di Auber al Benvenuto Cellini di Berlioz, etc… Era prassi comune e comunemente accettata, dagli autori in primis, che non pensavano ad alcuno “stupro” delle proprie volontà artistiche: erano le regole del gioco (come le traduzioni ritmiche in italiano per le opere tedesche rappresentate fuori dalla Germania, o quelle in francese per le opere russe, o il balletto obbligatorio se si voleva scrivere per l’Opéra). Purtroppo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno 1875, alla vigilia di questo lavoro di revisione, Bizet morì a 37 anni non ancora compiuti (attacco cardiaco o suicidio: non è mai stato chiarito). Che accadde a questo punto? I solenni funerali svolti a Montmartre, il 5 giugno, con la partecipazione di 4.000 parigini, non interruppero il cammino di Carmen, ma si rese necessario – per garantire un futuro all’ultima creazione del musicista – proseguire quel lavoro di revisione senza il quale l’opera non avrebbe mai potuto valicare i confini francesi.
Se ne occupò Ernest Guiraud – compositore di poco successo, ma docente di chiara fama al conservatorio di Parigi (nel 1891 assunse la prestigiosa cattedra di composizione), maestro di Debussy, Satie e Dukas, teorico (il suo trattato di armonia e orchestrazione ebbe enorme diffusione all’epoca), fondatore della Société Nationale de Musique e membro dell’Académie des beaux-arts – intimo amico di Bizet (e di tanti altri compositori) lo aiutò durante le fasi della sua carriera (collaborando con lui durante le tormentate prove di Carmen) e alla sua morte curò l’edizione delle sue opere. Fu lui ad assumersi l’incarico di mettere in musica i dialoghi, adattandone i versi e raccordandoli ai numeri musicali. Operò con competenza, rispetto e attenzione, Intervento discutibile? Forse, ma intervento necessario (si è già detto): lo stesso Bizet ci avrebbe messo mano se la morte non l’avesse colto anzitempo. Nessun tradimento della visione artistica dell’autore, nessun arbitrio, in realtà. L’opera, così modificata, venne pubblicata nel 1877 da Choudens: la partitura, curata dallo stesso Guiraud, rispecchia fedelmente lo spartito per canto e pianoforte predisposto da Bizet nel 1875 all’indomani della prima rappresentazione (quindi con tutte le revisioni d’autore, maturate nel corso delle prove), salvo i dialoghi sostituiti dai recitativi composti di proprio pugno, alcune varianti in acuto per il ruolo di Carmen (reso così alla portata di un registro sopranile, in previsione dell’attrattiva che il personaggio avrebbe esercitato sulle primedonne dell’epoca), tre piccoli tagli (pantomima nell’atto I, già soppressa dall’autore durante le prove, parte del duello Don José/Escamillo, coda orchestrale nel coro che apre l’atto IV) e l’aggiunta facoltativa di un balletto all’inizio dell’ultimo atto (ricavato dalla rielaborazione di alcune musiche precedenti dello stesso Bizet: tratte dall’Arlesienne e dalla Jolie fille de Perth). Tutte le modifiche precedenti alla prima, dunque, vennero mantenute e accolte.
Carmen in questa forma, con i recitativi di Guiraud, in francese (ma più spesso tradotta in italiano) ebbe la sua consacrazione e si diffuse in tutto il mondo, amata dai pubblici di ogni livello e ammirata da grandi musicisti e uomini di cultura dell’epoca, da Brahms a Ciaikovskij, a Nietzsche fino a Strauss (che scrisse: “se volete imparare l’arte della strumentazione, non studiate le partiture di Wagner, ma quella di Carmen”). Per quasi un secolo quella di Guiraud fu la versione ufficiale dell’opera (in questa forma fece il suo ingresso all’Opéra, il 10 novembre 1959, alla presenza di De Gaulle in persona), anche se negli anni ’50, in area francese, qualche produzione tornò alla originaria opéra-comique. Tale rimase la situazione sino a che, nel 1964, il musicologo tedesco Fritz Oeser, studiando il manoscritto dell’opera, e confrontandolo con lo spartito del ’75, la partitura del ’77 e alcune copie del materiale d’orchestra usato in occasione della prima esecuzione, iniziò un complesso lavoro di revisione critica. Il fatto che l’autografo fosse, in alcuni punti, assai diverso dalle successive edizioni a stampa, generò in Oeser il convincimento che ciò fosse dipeso dagli arbitri di Guiraud e da certe costrizioni imposte allo stesso Bizet.
Il lavoro di Oeser si basa sostanzialmente su due pregiudizi: la teutonica (e ottusa) convinzione della suprema autorità del manoscritto rispetto a qualsiasi altra fonte; la pretesa per cui tutte le modifiche successive fossero spurie ovvero, se di mano autoriale, dovute a imposizioni, necessità pratiche, incapacità degli interpreti. Oggi questo ragionamento appare inaccettabile, e già all’indomani della pubblicazione dell’edizione Oeser, si levarono autorevoli voci di dissenso (le voci dei più accreditati studiosi di Bizet): da Winton Dean a Michel Poupet a Rudolf Klein. Tutti criticarono aspramente il metodo poco scientifico seguito dal revisore: Oeser – che aveva scarsa dimestichezza con il francese e conosceva poco la biografia di Bizet – fa, innanzitutto, un uso scorretto delle fonti, non fornendo alcuna prova dei suoi assunti, intervenendo pesantemente sulla scrittura e ignorando completamente lo spartito del 1875, curato dallo stesso Bizet e ricchissimo di modifiche e varianti. Così facendo elimina gli innumerevoli miglioramenti e, soprattutto, cancella tutti i segni espressivi e le indicazioni d’autore, maturati nel corso delle prove, attribuendoli a non meglio precisate interferenze esterne. Egli, avendo il solo manoscritto come feticcio, non considerò neppure la possibilità che tali modifiche fossero volute da Bizet, anzi, arrivò a negarne l’evidenza, incolpando degli interventi non riconducibili a Guiraud, gli esecutori, a suo avviso mediocri e svogliati. Basterebbe però scorrere il cast della prima per contestarne l’assunto: da Célestine Galli-Marié nel title role (fu anche la prima interprete di Mignon di Thomas, contribuendo al suo trionfo) al tenore Paul Lhérie (celebrato interprete di Saint-Saens, Massenet, Delibes, ebbe una seconda carriera da baritono, ancor più ragguardevole della prima: fu il primo Posa del Don Carlo in 4 atti del 1882, e interpretò con successo Rigoletto, Germont, il Conte di Luna, Alfonso d’Aragona, creò nel 1892 il ruolo di David nell’Amico Fritz di Mascagni), dall’Escamillo di Jacques Bouhy alla bacchetta di Adolphe Deloffre che, considerato alla stregua di mediocre kappelmeister da Oeser, fu in realtà uno dei maggiori direttori d’orchestra della seconda metà dell’800 e tenne a battesimo alcune delle più importanti creazioni musicali dell’epoca. Solo congetture, dunque, funzionali a giustificare gli arbitri di Oeser che considera tutti i brani espunti, come parte integrante dell’opera e che solo la stupidità dei primi interpreti (e di Bizet stesso?) ha portato a cancellare.
Egli credette che quasi tutte le alterazioni dell’autografo fossero successive alla morte dell’autore e in base a questo reinserì nel corpus dell’opera quei passaggi, a scapito degli evidenti e più logici miglioramenti. Intervenne anche sul libretto, modificandolo (in un pessimo francese che suscitò l’ilarità dei suoi colleghi d’oltralpe), sbagliando la grafia dei nomi e aggiungendo pure un personaggio (eliminato fin da subito da Bizet, ma ottusamente reintrodotto). Analoga operazione – e con esiti ancora più disastrosi – Oeser la compì su Les contes d’Hoffmann, e solo recentemente le ricerche musicologiche di Kaye hanno rimediato agli scempi compiuti in nome di un preteso ripristino delle volontà di Offenbach, anche stavolta “tradite” dal povero Guiraud. Ma quali sono i passaggi interessati dalla revisione di Oeser? Quali i brani “riscoperti”? Quali le differenze con la partitura tradizionale?
Oltre al ripristino dei dialoghi le due versioni divergono in modo consistente almeno in 20 punti. Li elenca molto chiaramente Winton Dean: 1) nell’atto I, dopo il coro d’introduzione, il manoscritto prevede una pantomima per il baritono che interpreta Moralès, per la quale Bizet preparò almeno 3 versioni, prima di decidere di eliminarla poichè interrompeva inutilmente l’azione; 2) all’interno del mélodrame Moralès/Don José, Oeser ripristina 42 battute di un canone per violino e violoncello, su pizzicato degli archi; 3) al termine del coro dei ragazzi vengono ripristinate 8 battute di transizione, tagliate forse, per esigenza di brevità; 4) l’introduzione al coro delle sigaraie, nel manoscritto è più lunga di 12 battute di musica scadente che rallenta l’azione; 5) all’interno dello stesso coro Oeser ripristina la sezione dei tenori (mentre nella versione tradizionale compaiono solo voci femminili) prima della ripetizione del coro delle sigaraie; 6) dopo l’habanera, prima che Carmen getti a Don José il fiore, l’orchestra suona il tema del destino, esattamente come nel preludio, mentre Bizet l’aveva ridotto, per evitare la ripetizione esatta di un brano già sentito: ma ad Oeser pare non interessino i miglioramenti di Bizet, anzi cerca di correggerlo, per renderlo più bizetiano di sè stesso; 7) la scena del litigio è più articolata nel manoscritto, presentando la comparsa di Carmen a metà del coro e non solo al termine (Dean considera questo il contributo forse più interessante della revisione Oeser); 8) dopo la seguidilla di Carmen, Oeser ripristina un passaggio transizionale, complicato e privo di effetto; 9) nell’atto II Oeser reintroduce il personaggio di Andres, che si appropria delle battute di Moralés; 10) le due strofe dell’aria di Escamillo sono divise da un breve passaggio orchestrale e non dall’integrale ripetizione dell’introduzione, come nella partitura tradizionale; 11) alla fine dell’aria la versione di Oeser presenta la ripresa corale del tema della stessa, abbassata di tono e appesantita: Bizet si affrettò a tagliarla perchè di scarso effetto e dubbio gusto; 12) nel duetto Carmen/DonJosé, Oeser riapre un taglio in cui la prima “faceva il verso” al secondo, ripetendo con sarcasmo e in differente tonalità, le sue frasi appassionate; 13) il finale II presenta 12 battute in più, affidate al coro, che ripete le parole che la protagonista rivolge a Don José esaltando la vita libera del contrabbandiere; 14) nell’atto III, dopo il suggestivo interludio, Oeser ripristina il richiamo del corno, in luogo dell’accordo dei fiati presentato nella versione tradizionale; 15) il duello Don José/Escamillo è presentato da Oeser nella sua versione lunga, versione già presente nello spartito, ma poi ridotta nella partitura del 1877; 16) Oeser interviene pesantemente nel finale III, alterando le disposizioni sceniche (predisponendone di nuove e del tutto inventate), le didascalie, i versi e ripristinando brani cancellati già sull’autografo, il tutto per giustificare una propria elucubrazione circa il fatto che Carmen si fosse già da tempo invaghita del torero, alla fine fa anche ripetere a Escamillo tutto il ritornello della sua aria; 17) nell’atto IV Oesere ripristina alcune battute del coro maldestramente inserite nel mezzo della sfilata, prima del duetto finale; 18) il coro di vittoria, fuori scena è, nella versione Oeser, reso complesso da una alambiccata costruzione armonica, assai pesante complessa, in luogo della più semplice e lineare melodia accompagnata dalla tromba nella redazione tradizionale; 19) dopo il coro Oeser muta l’indicazione di tempo che introduce alla ripresa del tema del destino: in luogo del rallentamento suggestivo, la revisione impone un tempo veloce e triviale che rovina il pathos dell’intera scena; 20) nel finale ultimo Oeser ripristina una versione intermedia, scartata da Bizet prima di arrivare alla quarta e definitiva (ma ritenuta da Oeser addirittura offensiva verso i principi della drammaturgia bizetiana), aggiungendo 4 battute orchestrali prima della morte di Carmen e modificandone altre 3, in modo del tutto arbitrario, per evitare una ripetizione del “Ah ma Carmen adorée” del tutto incomprensibile.
Tuttavia, nonostante gli errori metodologici, l’uso disinvolto delle fonti, gli arbitri e le omissioni, almeno due meriti vanno riconosciuti alla criticabilissima edizione Oeser. Innanzitutto l’aver creato un prima e un poi con cui confrontarsi: un ritorno d’interesse per la partitura di Carmen, per le sue fasi creative e la riscoperta della sua dimensione di opéra-comique (messa effettivamente in ombra dalla tradizione esecutiva). E poi l’aver portato alla luce alcuni brani, alcuni passaggi, fino ad allora sconosciuti, alcuni dei quali certamente meritevoli di un reinserimento nel corpus dell’opera. Sbaglia, tuttavia, chi associa l’edizione Oeser al mero ripristino dei dialoghi, quale titolo di merito (sempre conosciuti e disponibili, e già utilizzati in alcune produzioni francesi), quasi ponendo un’alternativa tra questa e l’infame Guiraud. Sbaglia ancor di più chi attribuisce alla revisione di Guiraud la colpa di aver avvicinato Carmen ad un’ottica interpretativa di stampo verista: come se la sola presenza dei recitativi musicati dovesse di per sé comportare la rinuncia a tutte le raffinatezze della scrittura di Bizet, all’equilibrio formale, alla perfezione della frase cantata, a vantaggio di truculente esibizioni muscolari, eccessi ed effettacci (con cui, in effetti, spesso è stata rappresentata). In realtà il problema risiede, come sempre, nel gusto e nelle capacità degli interpreti: se un tenore è sguaiato e volgare poco importa che dopo gli strilli esegua un recitativo di Giraud o declami i dialoghi originali, sempre volgare e sguaiato rimane. E del resto chi potrebbe definire caricata e truculenta la Carmen incisa da Karajan nel 1964, per il solo fatto di adottare l’edizione tradizionale?
Eppure, anche in tempi recenti, vi sono critici che, in preda a incontrollabili furie e crisi isteriche, si scagliano scandalizzati contro la “nefandezza” della versione Guiraud, considerandola alla stregua di un peccato imperdonabile, una sorta di aborto da gettare nella spazzatura (e allo stesso modo si esprimono avverso il Don Carlo in 4 atti o il Boris nella revisione di Rimsky-Korsakov), dando così prova per primi, di non saper svolgere il loro mestiere con giudizi sommari, volgari e stupidi. Ma la testimonianza di quanto fosse inaccettabile il lavoro di Oeser, e di quanto poco avesse convinto la quasi totalità degli interpreti, risiede nel fatto che fin dalla comparsa della sua revisione, nessuna delle produzioni – teatrali o discografiche – che pure hanno dichiarato di adottarla, la seguono integralmente! Con il risultato che nessuna edizione di Carmen è uguale all’altra.
In particolare i diversi direttori d’orchestra chiamati di volta in volta a concertare l’opera, hanno operato diversi tagli, hanno rigettato parte delle soluzioni proposte da Oeser (accogliendone altre), hanno recuperato, soprattutto, il ricchissimo corredo di indicazioni espressive (che Oeser neppure considera o scarta deliberatamente in quanto ritenuto apocrifo), guidati dal gusto personale, dalla logica esecutiva e da superiori ragioni estetiche. Da Fruhbeck de Burgos a Maazel, da Bernstein ad Abbado, dal secondo Karajan a Levine, da Haitink a Ozawa. Fino allo stesso Solti, che pur tra i più convinti assertori della validità delle soluzioni di Oeser, non solo non le esegue integralmente, ma recupera tutti i segni espressivi cancellati dal professore tedesco (con grande proteste da parte sua, consultato prima delle sedute in sala d’incisione) e affida l’estensione delle note di accompagnamento ad uno dei più tenaci avversari di Oeser: Winton Dean.
Negli ultimi anni, comunque, altri musicologi e studiosi si sono presi l’impegno di rivedere l’affaire Carmen: tutti accomunati dal rigetto della Oeser e della sua dittatura del manoscritto (ormai ritenuto metodo inaccettabile e foriero di gravi manomissioni), dal recupero di tutti i miglioramenti operati da Bizet durante le prove e dal ripristino soltanto di quei passaggi che effettivamente furono espunti per motivi occasionali ed il cui recupero appaia motivato da ragioni artistiche ed estetiche evidenti.
La situazione editoriale di Carmen, almeno in quest’ultimo decennio, sta vivendo una stagione di grande fermento. Schott ha pubblicato, nel 2000, una nuova edizione, a cura di Robert Didion e Josef Heinzelmann (già utilizzata da Barenboim a Berlino e che, verosimilmente, sarà quella che udremo alla Scala il 7 di dicembre) che oltre a recuperare la maggior parte dei segni d’espressione contenuti nello spartito del 1875 e a ricontrollare tutti i dettagli vocali e strumentali sulla scorta del materiale d’orchestra, del testo in uso al direttore e dello spartito per canto e pianoforte (relegando in secondo piano, dunque, il manoscritto su cui si fonda la Oeser), ripristina 5 passaggi (dei 20 di Oeser) non contenuti nell’edizione tradizionale: 1) il mélodrame dell’atto I, con il raffinato canone di violino e violoncello sul pizzicato degli archi; 2) la sezione maschile (tenori) nel coro delle sigaraie; 3) l’ingresso di Carmen a metà della scena del litigio; 4) il mélodrame che precede l’ingresso di Escamillo; 5) la parte centrale del duetto Carmen/Don José con la ripresa in cui la bella gitana deride le incertezze e la passione del dragone.
Ma quella di Didion non è la sola ipotesi editoriale dell’opera né, tantomeno, quella definitiva. L’editore Peters ha pubblicato di recente una nuova versione curata da Richard Langham-Smith, basata essenzialmente sul materiale d’orchestra conservato negli archivi dell’Opèra-Comique e sullo spartito per canto e pianoforte approvato dallo stesso Bizet. Nel 2005, Michael Rot, per una produzione dell’opera eseguita a Graz con la direzione di Harnoncourt (poi ripresa l’anno scorso a Zurigo da Welser-Most), preparò un’edizione ancora differente, che addirittura parte dalla versione Guiraud e include tutti i recitativi musicati (in luogo dei dialoghi), la pantomima, la versione lunga del duello Don José/Escamillo e del finale ultimo (ma elimina la parte dei tenori nel mezzo del coro delle sigaraie e, all’inizio dell’atto IV, tutta la parte che precede il coro “Voici la quadrille”, ossia lo scambio di battute tra venditori di ventagli e soldati, probabilmente ritenuti da Harnoncourt mediocre folklorismo), che alcuni critici all’epoca stigmatizzarono come reazionaria poiché avrebbe fatto ripiombare l’opera “dans les lordeures de l’ancienne version, intégralement chantée”.
Infine è prevista per il 2014 una nuova, e pare definitiva, edizione critica, curata da Hervé Lacombe, per l’editore Bärenreiter, nell’ambito di una nuova serie dedicata all’opera francese, annunciata in 35 volumi di cui sono in preparazione i primi 10 (oltre a Carmen, sino ad ora sono previsti: Le Toréador di Adam, già disponibile; Fiesque di Lalo, di imminente pubblicazione; L’Etoile di Chabrier nel 2011; Le Domino noir di Auber nel 2012; Hamlet di Thomas e Werther di Massenet nel 2012; Samson et Dalila di Saint-Saens nel 2014; Roméo et Juliette e Faust di Gounod nel 2015). Ognuna presenterà caratteristiche e peculiarità differenti, ognuna sarà oggetto di lodi e critiche: ciascuna di esse, però, dovrà ricorrere a scelte arbitrarie, atteso che qualunque inserzione di materiale estraneo a quello sanzionato da Bizet in occasione della premiére – bello o brutto che sia – necessariamente sarà un arbitrio. La discussione circa la forma autentica di Carmen è, quindi, destinata a proseguire.
Ma proprio qui sta il punto: alla fine, cosa è davvero autentico? Un testo che, seppur con interventi e modifiche (necessarie però, come già è stato esposto, per garantire un immediato futuro all’opera) è stato preparato da chi, in rapporto di confidenza e amicizia con l’autore, ha collaborato con lui nel corso delle prove e, verosimilmente, con questi si è consultato durante le concitate fasi preparatorie (durante le quali sono state apportate le numerose modifiche oggetto di tutte le dispute filologiche), oppure il risultato di ricerche e scelte editoriali – più o meno corrette e serie – di studiosi e musicologi che operano un secolo dopo la prima rappresentazione (non si tratta, infatti, solo di ristabilire un testo originale esistente, ma incrostato da interventi apocrifi – come nell’edizione critica delle opere di Rossini – bensì di ricostruire una nuova versione del testo, che non esiste ab origine)? Difficile rispondere. Certo il mito per cui Guiraud trasforma Carmen in una specie di Cavalleria Rusticana in salsa francese è da sfatare con forza, poiché frutto di ignoranza, pregiudizio e partigianeria.
Com’è noto, il genere prevede l’alternarsi di numeri musicali e dialoghi: derivato dal più antico vaudeville (e corrispondente, sia pur con sostanziali differenze, al singspiel di area austro-tedesca, alla ballad opera inglese e alla zarzuela spagnola), si contrapponeva, nella Parigi dell’800, alle produzioni, più “classiche” e paludate, dell’Académie Royale de Musique. In origine caratterizzata da soggetti brillanti e leggeri, poi, col tempo, affievolendosi le rigide divisioni per genere tipiche del teatro francese, comprese poi, anche lavori fortemente drammatici. Le prove cominciarono nell’ottobre del 1874 e proseguirono tra difficoltà e problemi (non da ultimi quelli privati dell’autore, in piena crisi coniugale) per oltre 5 mesi, durante i quali Bizet continua a lavorare sull’opera, attraverso tagli più o meno consistenti, modifiche talvolta sostanziali, aggiustamenti nell’orchestrazione, sostituzioni di brani, aggiunte e, soprattutto, arricchendo la partitura di nuovi e dettagliati segni d’espressione. Oltre naturalmente a tutti quegli altri interventi, di natura più pratica, resisi necessari, durante il prosieguo delle prove, per andare incontro agli interpreti. Un complesso e articolato labor limae, dunque, che confluisce nella pubblicazione, sotto la supervisione e l’approvazione dell’autore, dello spartito per canto e pianoforte che, proprio a seguito dei numerosi interventi, differisce anche notevolmente dal manoscritto.
L’opera in questa sua veste definitiva – che è quella voluta, sanzionata e approvata da Bizet – va in scena la sera del 3 marzo 1875 (lo stesso giorno in cui viene premiato con la Legion d’onore): tra il folto pubblico che riempiva la sala, vi era il meglio della cultura musicale francese dell’epoca, Massenet, Delibes, Gounod, Lecocq, Offenbach, ma anche cantanti, scrittori, editori, ansiosi di ascoltare il nuovo lavoro del 36enne compositore. L’esito, pur non essendo quel fiasco che un certa vulgata ha voluto tramandare, fu decisamente inferiore alle aspettative: tra applausi non solo di cortesia e imbarazzati silenzi, la critica si scatenò, attribuendo il mancato successo ad un libretto inadeguato ad una opéra-comique e al fatto che Bizet non avesse voluto accogliere gli “insegnamenti” wagneriani (ritenuti imprescindibili per aver la patente di “musicista dell’avvenire”). Carmen, tuttavia, proseguì il suo cammino, non trionfale certo, con ben 48 repliche durante le quali l’accoglienza del pubblico si fece sempre più generosa. Nell’ottobre dello stesso anno era prevista la prima esecuzione fuori dalla Francia, a Vienna, per poi sbarcare a San Pietroburgo, Stoccolma, Londra, Dublino, fino a New York, Philadelphia e Melbourne (la prima italiana avvenne a Napoli nel 1879, mentre in Spagna arrivò solo nel 1881 a Barcellona). In prospettiva della sua diffusione internazionale l’opera avrebbe dovuto subire quelle modifiche necessarie affinchè venisse rappresentata su palcoscenici diversi dall’Opéra-Comique: ossia la sostituzione dei dialoghi con recitativi musicati (non era accettabile allora, infatti, in Inghilterra, negli Stati Uniti o in Italia uno spettacolo che mischiasse prosa e canto). La medesima sorte sarebbe toccata a tante altre opéra-comique, precedenti, contemporanee o successive: dal Faust di Gounod, alla Lakmé di Delibes, dal Fra Diavolo di Auber al Benvenuto Cellini di Berlioz, etc… Era prassi comune e comunemente accettata, dagli autori in primis, che non pensavano ad alcuno “stupro” delle proprie volontà artistiche: erano le regole del gioco (come le traduzioni ritmiche in italiano per le opere tedesche rappresentate fuori dalla Germania, o quelle in francese per le opere russe, o il balletto obbligatorio se si voleva scrivere per l’Opéra). Purtroppo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno 1875, alla vigilia di questo lavoro di revisione, Bizet morì a 37 anni non ancora compiuti (attacco cardiaco o suicidio: non è mai stato chiarito). Che accadde a questo punto? I solenni funerali svolti a Montmartre, il 5 giugno, con la partecipazione di 4.000 parigini, non interruppero il cammino di Carmen, ma si rese necessario – per garantire un futuro all’ultima creazione del musicista – proseguire quel lavoro di revisione senza il quale l’opera non avrebbe mai potuto valicare i confini francesi.
Se ne occupò Ernest Guiraud – compositore di poco successo, ma docente di chiara fama al conservatorio di Parigi (nel 1891 assunse la prestigiosa cattedra di composizione), maestro di Debussy, Satie e Dukas, teorico (il suo trattato di armonia e orchestrazione ebbe enorme diffusione all’epoca), fondatore della Société Nationale de Musique e membro dell’Académie des beaux-arts – intimo amico di Bizet (e di tanti altri compositori) lo aiutò durante le fasi della sua carriera (collaborando con lui durante le tormentate prove di Carmen) e alla sua morte curò l’edizione delle sue opere. Fu lui ad assumersi l’incarico di mettere in musica i dialoghi, adattandone i versi e raccordandoli ai numeri musicali. Operò con competenza, rispetto e attenzione, Intervento discutibile? Forse, ma intervento necessario (si è già detto): lo stesso Bizet ci avrebbe messo mano se la morte non l’avesse colto anzitempo. Nessun tradimento della visione artistica dell’autore, nessun arbitrio, in realtà. L’opera, così modificata, venne pubblicata nel 1877 da Choudens: la partitura, curata dallo stesso Guiraud, rispecchia fedelmente lo spartito per canto e pianoforte predisposto da Bizet nel 1875 all’indomani della prima rappresentazione (quindi con tutte le revisioni d’autore, maturate nel corso delle prove), salvo i dialoghi sostituiti dai recitativi composti di proprio pugno, alcune varianti in acuto per il ruolo di Carmen (reso così alla portata di un registro sopranile, in previsione dell’attrattiva che il personaggio avrebbe esercitato sulle primedonne dell’epoca), tre piccoli tagli (pantomima nell’atto I, già soppressa dall’autore durante le prove, parte del duello Don José/Escamillo, coda orchestrale nel coro che apre l’atto IV) e l’aggiunta facoltativa di un balletto all’inizio dell’ultimo atto (ricavato dalla rielaborazione di alcune musiche precedenti dello stesso Bizet: tratte dall’Arlesienne e dalla Jolie fille de Perth). Tutte le modifiche precedenti alla prima, dunque, vennero mantenute e accolte.
Carmen in questa forma, con i recitativi di Guiraud, in francese (ma più spesso tradotta in italiano) ebbe la sua consacrazione e si diffuse in tutto il mondo, amata dai pubblici di ogni livello e ammirata da grandi musicisti e uomini di cultura dell’epoca, da Brahms a Ciaikovskij, a Nietzsche fino a Strauss (che scrisse: “se volete imparare l’arte della strumentazione, non studiate le partiture di Wagner, ma quella di Carmen”). Per quasi un secolo quella di Guiraud fu la versione ufficiale dell’opera (in questa forma fece il suo ingresso all’Opéra, il 10 novembre 1959, alla presenza di De Gaulle in persona), anche se negli anni ’50, in area francese, qualche produzione tornò alla originaria opéra-comique. Tale rimase la situazione sino a che, nel 1964, il musicologo tedesco Fritz Oeser, studiando il manoscritto dell’opera, e confrontandolo con lo spartito del ’75, la partitura del ’77 e alcune copie del materiale d’orchestra usato in occasione della prima esecuzione, iniziò un complesso lavoro di revisione critica. Il fatto che l’autografo fosse, in alcuni punti, assai diverso dalle successive edizioni a stampa, generò in Oeser il convincimento che ciò fosse dipeso dagli arbitri di Guiraud e da certe costrizioni imposte allo stesso Bizet.
Il lavoro di Oeser si basa sostanzialmente su due pregiudizi: la teutonica (e ottusa) convinzione della suprema autorità del manoscritto rispetto a qualsiasi altra fonte; la pretesa per cui tutte le modifiche successive fossero spurie ovvero, se di mano autoriale, dovute a imposizioni, necessità pratiche, incapacità degli interpreti. Oggi questo ragionamento appare inaccettabile, e già all’indomani della pubblicazione dell’edizione Oeser, si levarono autorevoli voci di dissenso (le voci dei più accreditati studiosi di Bizet): da Winton Dean a Michel Poupet a Rudolf Klein. Tutti criticarono aspramente il metodo poco scientifico seguito dal revisore: Oeser – che aveva scarsa dimestichezza con il francese e conosceva poco la biografia di Bizet – fa, innanzitutto, un uso scorretto delle fonti, non fornendo alcuna prova dei suoi assunti, intervenendo pesantemente sulla scrittura e ignorando completamente lo spartito del 1875, curato dallo stesso Bizet e ricchissimo di modifiche e varianti. Così facendo elimina gli innumerevoli miglioramenti e, soprattutto, cancella tutti i segni espressivi e le indicazioni d’autore, maturati nel corso delle prove, attribuendoli a non meglio precisate interferenze esterne. Egli, avendo il solo manoscritto come feticcio, non considerò neppure la possibilità che tali modifiche fossero volute da Bizet, anzi, arrivò a negarne l’evidenza, incolpando degli interventi non riconducibili a Guiraud, gli esecutori, a suo avviso mediocri e svogliati. Basterebbe però scorrere il cast della prima per contestarne l’assunto: da Célestine Galli-Marié nel title role (fu anche la prima interprete di Mignon di Thomas, contribuendo al suo trionfo) al tenore Paul Lhérie (celebrato interprete di Saint-Saens, Massenet, Delibes, ebbe una seconda carriera da baritono, ancor più ragguardevole della prima: fu il primo Posa del Don Carlo in 4 atti del 1882, e interpretò con successo Rigoletto, Germont, il Conte di Luna, Alfonso d’Aragona, creò nel 1892 il ruolo di David nell’Amico Fritz di Mascagni), dall’Escamillo di Jacques Bouhy alla bacchetta di Adolphe Deloffre che, considerato alla stregua di mediocre kappelmeister da Oeser, fu in realtà uno dei maggiori direttori d’orchestra della seconda metà dell’800 e tenne a battesimo alcune delle più importanti creazioni musicali dell’epoca. Solo congetture, dunque, funzionali a giustificare gli arbitri di Oeser che considera tutti i brani espunti, come parte integrante dell’opera e che solo la stupidità dei primi interpreti (e di Bizet stesso?) ha portato a cancellare.
Egli credette che quasi tutte le alterazioni dell’autografo fossero successive alla morte dell’autore e in base a questo reinserì nel corpus dell’opera quei passaggi, a scapito degli evidenti e più logici miglioramenti. Intervenne anche sul libretto, modificandolo (in un pessimo francese che suscitò l’ilarità dei suoi colleghi d’oltralpe), sbagliando la grafia dei nomi e aggiungendo pure un personaggio (eliminato fin da subito da Bizet, ma ottusamente reintrodotto). Analoga operazione – e con esiti ancora più disastrosi – Oeser la compì su Les contes d’Hoffmann, e solo recentemente le ricerche musicologiche di Kaye hanno rimediato agli scempi compiuti in nome di un preteso ripristino delle volontà di Offenbach, anche stavolta “tradite” dal povero Guiraud. Ma quali sono i passaggi interessati dalla revisione di Oeser? Quali i brani “riscoperti”? Quali le differenze con la partitura tradizionale?
Oltre al ripristino dei dialoghi le due versioni divergono in modo consistente almeno in 20 punti. Li elenca molto chiaramente Winton Dean: 1) nell’atto I, dopo il coro d’introduzione, il manoscritto prevede una pantomima per il baritono che interpreta Moralès, per la quale Bizet preparò almeno 3 versioni, prima di decidere di eliminarla poichè interrompeva inutilmente l’azione; 2) all’interno del mélodrame Moralès/Don José, Oeser ripristina 42 battute di un canone per violino e violoncello, su pizzicato degli archi; 3) al termine del coro dei ragazzi vengono ripristinate 8 battute di transizione, tagliate forse, per esigenza di brevità; 4) l’introduzione al coro delle sigaraie, nel manoscritto è più lunga di 12 battute di musica scadente che rallenta l’azione; 5) all’interno dello stesso coro Oeser ripristina la sezione dei tenori (mentre nella versione tradizionale compaiono solo voci femminili) prima della ripetizione del coro delle sigaraie; 6) dopo l’habanera, prima che Carmen getti a Don José il fiore, l’orchestra suona il tema del destino, esattamente come nel preludio, mentre Bizet l’aveva ridotto, per evitare la ripetizione esatta di un brano già sentito: ma ad Oeser pare non interessino i miglioramenti di Bizet, anzi cerca di correggerlo, per renderlo più bizetiano di sè stesso; 7) la scena del litigio è più articolata nel manoscritto, presentando la comparsa di Carmen a metà del coro e non solo al termine (Dean considera questo il contributo forse più interessante della revisione Oeser); 8) dopo la seguidilla di Carmen, Oeser ripristina un passaggio transizionale, complicato e privo di effetto; 9) nell’atto II Oeser reintroduce il personaggio di Andres, che si appropria delle battute di Moralés; 10) le due strofe dell’aria di Escamillo sono divise da un breve passaggio orchestrale e non dall’integrale ripetizione dell’introduzione, come nella partitura tradizionale; 11) alla fine dell’aria la versione di Oeser presenta la ripresa corale del tema della stessa, abbassata di tono e appesantita: Bizet si affrettò a tagliarla perchè di scarso effetto e dubbio gusto; 12) nel duetto Carmen/DonJosé, Oeser riapre un taglio in cui la prima “faceva il verso” al secondo, ripetendo con sarcasmo e in differente tonalità, le sue frasi appassionate; 13) il finale II presenta 12 battute in più, affidate al coro, che ripete le parole che la protagonista rivolge a Don José esaltando la vita libera del contrabbandiere; 14) nell’atto III, dopo il suggestivo interludio, Oeser ripristina il richiamo del corno, in luogo dell’accordo dei fiati presentato nella versione tradizionale; 15) il duello Don José/Escamillo è presentato da Oeser nella sua versione lunga, versione già presente nello spartito, ma poi ridotta nella partitura del 1877; 16) Oeser interviene pesantemente nel finale III, alterando le disposizioni sceniche (predisponendone di nuove e del tutto inventate), le didascalie, i versi e ripristinando brani cancellati già sull’autografo, il tutto per giustificare una propria elucubrazione circa il fatto che Carmen si fosse già da tempo invaghita del torero, alla fine fa anche ripetere a Escamillo tutto il ritornello della sua aria; 17) nell’atto IV Oesere ripristina alcune battute del coro maldestramente inserite nel mezzo della sfilata, prima del duetto finale; 18) il coro di vittoria, fuori scena è, nella versione Oeser, reso complesso da una alambiccata costruzione armonica, assai pesante complessa, in luogo della più semplice e lineare melodia accompagnata dalla tromba nella redazione tradizionale; 19) dopo il coro Oeser muta l’indicazione di tempo che introduce alla ripresa del tema del destino: in luogo del rallentamento suggestivo, la revisione impone un tempo veloce e triviale che rovina il pathos dell’intera scena; 20) nel finale ultimo Oeser ripristina una versione intermedia, scartata da Bizet prima di arrivare alla quarta e definitiva (ma ritenuta da Oeser addirittura offensiva verso i principi della drammaturgia bizetiana), aggiungendo 4 battute orchestrali prima della morte di Carmen e modificandone altre 3, in modo del tutto arbitrario, per evitare una ripetizione del “Ah ma Carmen adorée” del tutto incomprensibile.
Tuttavia, nonostante gli errori metodologici, l’uso disinvolto delle fonti, gli arbitri e le omissioni, almeno due meriti vanno riconosciuti alla criticabilissima edizione Oeser. Innanzitutto l’aver creato un prima e un poi con cui confrontarsi: un ritorno d’interesse per la partitura di Carmen, per le sue fasi creative e la riscoperta della sua dimensione di opéra-comique (messa effettivamente in ombra dalla tradizione esecutiva). E poi l’aver portato alla luce alcuni brani, alcuni passaggi, fino ad allora sconosciuti, alcuni dei quali certamente meritevoli di un reinserimento nel corpus dell’opera. Sbaglia, tuttavia, chi associa l’edizione Oeser al mero ripristino dei dialoghi, quale titolo di merito (sempre conosciuti e disponibili, e già utilizzati in alcune produzioni francesi), quasi ponendo un’alternativa tra questa e l’infame Guiraud. Sbaglia ancor di più chi attribuisce alla revisione di Guiraud la colpa di aver avvicinato Carmen ad un’ottica interpretativa di stampo verista: come se la sola presenza dei recitativi musicati dovesse di per sé comportare la rinuncia a tutte le raffinatezze della scrittura di Bizet, all’equilibrio formale, alla perfezione della frase cantata, a vantaggio di truculente esibizioni muscolari, eccessi ed effettacci (con cui, in effetti, spesso è stata rappresentata). In realtà il problema risiede, come sempre, nel gusto e nelle capacità degli interpreti: se un tenore è sguaiato e volgare poco importa che dopo gli strilli esegua un recitativo di Giraud o declami i dialoghi originali, sempre volgare e sguaiato rimane. E del resto chi potrebbe definire caricata e truculenta la Carmen incisa da Karajan nel 1964, per il solo fatto di adottare l’edizione tradizionale?
Eppure, anche in tempi recenti, vi sono critici che, in preda a incontrollabili furie e crisi isteriche, si scagliano scandalizzati contro la “nefandezza” della versione Guiraud, considerandola alla stregua di un peccato imperdonabile, una sorta di aborto da gettare nella spazzatura (e allo stesso modo si esprimono avverso il Don Carlo in 4 atti o il Boris nella revisione di Rimsky-Korsakov), dando così prova per primi, di non saper svolgere il loro mestiere con giudizi sommari, volgari e stupidi. Ma la testimonianza di quanto fosse inaccettabile il lavoro di Oeser, e di quanto poco avesse convinto la quasi totalità degli interpreti, risiede nel fatto che fin dalla comparsa della sua revisione, nessuna delle produzioni – teatrali o discografiche – che pure hanno dichiarato di adottarla, la seguono integralmente! Con il risultato che nessuna edizione di Carmen è uguale all’altra.
In particolare i diversi direttori d’orchestra chiamati di volta in volta a concertare l’opera, hanno operato diversi tagli, hanno rigettato parte delle soluzioni proposte da Oeser (accogliendone altre), hanno recuperato, soprattutto, il ricchissimo corredo di indicazioni espressive (che Oeser neppure considera o scarta deliberatamente in quanto ritenuto apocrifo), guidati dal gusto personale, dalla logica esecutiva e da superiori ragioni estetiche. Da Fruhbeck de Burgos a Maazel, da Bernstein ad Abbado, dal secondo Karajan a Levine, da Haitink a Ozawa. Fino allo stesso Solti, che pur tra i più convinti assertori della validità delle soluzioni di Oeser, non solo non le esegue integralmente, ma recupera tutti i segni espressivi cancellati dal professore tedesco (con grande proteste da parte sua, consultato prima delle sedute in sala d’incisione) e affida l’estensione delle note di accompagnamento ad uno dei più tenaci avversari di Oeser: Winton Dean.
Negli ultimi anni, comunque, altri musicologi e studiosi si sono presi l’impegno di rivedere l’affaire Carmen: tutti accomunati dal rigetto della Oeser e della sua dittatura del manoscritto (ormai ritenuto metodo inaccettabile e foriero di gravi manomissioni), dal recupero di tutti i miglioramenti operati da Bizet durante le prove e dal ripristino soltanto di quei passaggi che effettivamente furono espunti per motivi occasionali ed il cui recupero appaia motivato da ragioni artistiche ed estetiche evidenti.
La situazione editoriale di Carmen, almeno in quest’ultimo decennio, sta vivendo una stagione di grande fermento. Schott ha pubblicato, nel 2000, una nuova edizione, a cura di Robert Didion e Josef Heinzelmann (già utilizzata da Barenboim a Berlino e che, verosimilmente, sarà quella che udremo alla Scala il 7 di dicembre) che oltre a recuperare la maggior parte dei segni d’espressione contenuti nello spartito del 1875 e a ricontrollare tutti i dettagli vocali e strumentali sulla scorta del materiale d’orchestra, del testo in uso al direttore e dello spartito per canto e pianoforte (relegando in secondo piano, dunque, il manoscritto su cui si fonda la Oeser), ripristina 5 passaggi (dei 20 di Oeser) non contenuti nell’edizione tradizionale: 1) il mélodrame dell’atto I, con il raffinato canone di violino e violoncello sul pizzicato degli archi; 2) la sezione maschile (tenori) nel coro delle sigaraie; 3) l’ingresso di Carmen a metà della scena del litigio; 4) il mélodrame che precede l’ingresso di Escamillo; 5) la parte centrale del duetto Carmen/Don José con la ripresa in cui la bella gitana deride le incertezze e la passione del dragone.
Ma quella di Didion non è la sola ipotesi editoriale dell’opera né, tantomeno, quella definitiva. L’editore Peters ha pubblicato di recente una nuova versione curata da Richard Langham-Smith, basata essenzialmente sul materiale d’orchestra conservato negli archivi dell’Opèra-Comique e sullo spartito per canto e pianoforte approvato dallo stesso Bizet. Nel 2005, Michael Rot, per una produzione dell’opera eseguita a Graz con la direzione di Harnoncourt (poi ripresa l’anno scorso a Zurigo da Welser-Most), preparò un’edizione ancora differente, che addirittura parte dalla versione Guiraud e include tutti i recitativi musicati (in luogo dei dialoghi), la pantomima, la versione lunga del duello Don José/Escamillo e del finale ultimo (ma elimina la parte dei tenori nel mezzo del coro delle sigaraie e, all’inizio dell’atto IV, tutta la parte che precede il coro “Voici la quadrille”, ossia lo scambio di battute tra venditori di ventagli e soldati, probabilmente ritenuti da Harnoncourt mediocre folklorismo), che alcuni critici all’epoca stigmatizzarono come reazionaria poiché avrebbe fatto ripiombare l’opera “dans les lordeures de l’ancienne version, intégralement chantée”.
Infine è prevista per il 2014 una nuova, e pare definitiva, edizione critica, curata da Hervé Lacombe, per l’editore Bärenreiter, nell’ambito di una nuova serie dedicata all’opera francese, annunciata in 35 volumi di cui sono in preparazione i primi 10 (oltre a Carmen, sino ad ora sono previsti: Le Toréador di Adam, già disponibile; Fiesque di Lalo, di imminente pubblicazione; L’Etoile di Chabrier nel 2011; Le Domino noir di Auber nel 2012; Hamlet di Thomas e Werther di Massenet nel 2012; Samson et Dalila di Saint-Saens nel 2014; Roméo et Juliette e Faust di Gounod nel 2015). Ognuna presenterà caratteristiche e peculiarità differenti, ognuna sarà oggetto di lodi e critiche: ciascuna di esse, però, dovrà ricorrere a scelte arbitrarie, atteso che qualunque inserzione di materiale estraneo a quello sanzionato da Bizet in occasione della premiére – bello o brutto che sia – necessariamente sarà un arbitrio. La discussione circa la forma autentica di Carmen è, quindi, destinata a proseguire.
Ma proprio qui sta il punto: alla fine, cosa è davvero autentico? Un testo che, seppur con interventi e modifiche (necessarie però, come già è stato esposto, per garantire un immediato futuro all’opera) è stato preparato da chi, in rapporto di confidenza e amicizia con l’autore, ha collaborato con lui nel corso delle prove e, verosimilmente, con questi si è consultato durante le concitate fasi preparatorie (durante le quali sono state apportate le numerose modifiche oggetto di tutte le dispute filologiche), oppure il risultato di ricerche e scelte editoriali – più o meno corrette e serie – di studiosi e musicologi che operano un secolo dopo la prima rappresentazione (non si tratta, infatti, solo di ristabilire un testo originale esistente, ma incrostato da interventi apocrifi – come nell’edizione critica delle opere di Rossini – bensì di ricostruire una nuova versione del testo, che non esiste ab origine)? Difficile rispondere. Certo il mito per cui Guiraud trasforma Carmen in una specie di Cavalleria Rusticana in salsa francese è da sfatare con forza, poiché frutto di ignoranza, pregiudizio e partigianeria.