Nella novella di Verga il personaggio di Santa, figlia di massaro Cola, aveva un ruolo tutto sommato marginale, certo secondario rispetto a quello di Turiddu. Con l’adattamento teatrale, protagonista Eleonora Duse, le cose erano cambiate in favore della primadonna e Mascagni e i suoi librettisti non poterono che tenerne conto.
A vestire i panni della compromessa e abbandonata fu, alla prima al Costanzi di Roma, Gemma Bellincioni. La Bellincioni aveva all’epoca venticinque anni ed era in carriera da dieci. Nel libro dedicato ai genitori, Bianca Stagno ricorda come la madre avvertisse come una limitazione per il proprio temperamento il repertorio di coloratura praticato nella prima gioventù (Margherita di Navarra e Ines dell’Africana) e aspirasse quindi prima a Gilda e Violetta, e poi a maggior ragione alle grandi eroine del nascente Verismo (la Bellincioni fu anche la prima Fedora).
Ascoltando le registrazioni effettuate nei primi anni del Novecento, quando l’artista aveva poco meno di quarant’anni, possiamo arguire come il desiderio di indirizzare la carriera verso differenti lidi non fosse dettato esclusivamente dalle ragioni soprammenzionate. Quella che ascoltiamo è una voce ancora sufficientemente salda in prima ottava, pur con suoni a volte aperti, ma decisamente compromessa fin dal do centrale, nota a partire dalla quale si riscontra, oltre a una sporadica difficoltà a legare i suoni, una marcata accentuazione del vibrato vocale. Gli acuti (nella romanza di Santuzza la nota estrema è un la nat) sono d’intonazione precaria e la discesa da quelle altezze, non certo estreme, alla zona centrale della voce costringe la cantante ad aprire ancora di più i suoni in basso. Anche tenendo conto del sistema di registrazione, invero primitivo, bisogna concludere che la conversione della signora alle nascenti eroine veriste sia stata anche, seppur non esclusivamente, strumentale. Il che per inciso ci riporta a svariati esempi a noi più vicini nel tempo, che non è il caso di trattare in questa sede.
Fin dai primi anni di vita, l’opera divenne territorio di caccia delle grandi cantanti attrici, da Emma Calvé, che per prima cantò Santuzza a Napoli e allo Châtelet di Parigi, a Emma Carelli, da Eugenia Burzio a Maria Jeritza, da Emma Eames (prima interprete al Met) a Emmy Destinn. La scrittura centralissima (un si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale, un si bem al duetto con Turiddu, altri due nella scena con Alfio e un altro al finale, oltre al do conclusivo, che però facilmente si perde o si dimentica nel tumulto di coro e orchestra) attrasse, oltre a schiere di fini dicitrici, soprani drammatici del calibro di Johanna Gadski, Olive Fremstad, Margarete Matzenauer e Melanie Kurt, fedeli custodi del Verbo wagneriano (al di fuori del perimetro della Collina), e delle “nostre” Bianca Scacciati, Rosa Ponselle e Tina Poli Randaccio, ma anche soprani lirici e lirico spinti (Elisabeth Rethberg, Claudia Muzio, Giannina Arangi Lombardi, Rosa Raisa e Rosetta Pampanini, fra i molti) e mezzosoprani (citiamo almeno Gabriella Besanzoni, Gianna Pederzini ed Ebe Stignani). Anzi l’iniziale condominio fra soprani e mezzi nel ruolo di Santuzza con il tempo si è trasformato in un quas monopolio del ruolo per i mezzi. Nessun soprano (se si escludono Ghena Dimitrova e Giovanna Casolla) è stato all’altezza di contrastare le realizzazioni del personaggio proposte da grandi mezzi quali la Bumbry e la Cossotto.
La presentazione del personaggio è affidata a un breve recitativo in cui Santuzza parla con Mamma Lucia. En passant notiamo come la parte, con l’eccezione dell’inno pasquale, sia costituita da una serie di dialoghi con gli altri personaggi. La stessa romanza continua e completa il dialogo con la madre di Turiddu. Non solo: l’intera azione drammatica della Cavalleria, concentrata negli ultimi quindici minuti dell’opera, è il risultato di quello che Santuzza rivela ai suoi interlocutori. Centrale è quindi che l’interprete, soprano o mezzo che sia, dica e accenti ogni frase con la più grande pertinenza e precisione, perché se il canto della protagonista vacilla, tutta la composizione ne risente. In questo primo dialogo, in particolare, è centrale la frase “sono scomunicata” (con tanto di salita al la nat), con cui comare Santa svela per la prima volta alla mancata suocera e al pubblico di avere commesso quella che a Napoli sarebbe stata definita “’a schifezza”. E per inciso non sarà questa l’unica occasione in cui la sventurata rivelerà agli altri origine, modalità e fini ultimi della propria caduta. Senza per questo smarrire il decoro, ammantato d’ipocrisia, che una figura di matrice cattolica non può non mantenere anche e soprattutto quando è in gioco una simile materia. Decoro che dovrebbe fungere da ammonimento e guida per i signori registi, specie per quelli che si piccano di illustrare e magari spiegare, nei loro spettacoli, l’anima mediterranea.
L’inno pasquale (Moderato assai) prevede Santuzza nelle vesti della corifea. Le ampie frasi, che richiedono un saldo appoggio e fiati di consistente lunghezza, la necessità di spiccare su orchestra e coro in una tessitura che, dapprima grave, si fa progressivamente più alta fino al la nat di “oggi asceso alla gloria del Ciel”, l’accento, che deve essere composto e solenne, ma tale da tradire, al tempo stesso, l’ansia del personaggio, che ha appena ricevuto da compare Alfio la conferma dei propri laceranti sospetti, rendono il brano assai insidioso. Ma non è da sottovalutare un altro aspetto, vale a dire che l’inno è la prima opportunità, offerta alla primadonna, di ricevere, ove del caso, una vera e propria ovazione.
La romanza “Voi lo sapete, o mamma” (Largo assai sostenuto) attacca e insiste in zona centrale, procedendo per brevi incisi regolari, passando in zona do diesis-fa diesis centrali alla ripetizione di “aveva a Lola eterna fè giurato”, che l’autore sottolinea con due forcelle. Il terzo e quarto verso ripropongono, variandola appena, la disposizione dei primi due, con simmetria che potremmo definire belliniana, e presentando un infittirsi delle indicazioni dinamiche (“crescendo” e “calando”) e agogiche (“poco ritenuto”) su “volle spegner la fiamma che gli bruciava il core”. La confessione di Santuzza tocca il suo culmine alle parole “m’amò, l’amai”, enunciate sul do-si centrale (“ravvivando”) e ripetute poi all’acuto, con tanto di crescendo, fino al la nat, da eseguirsi “con grande espressione”. L’evocazione della diabolica rivale vede la primadonna ricorrere al “pp”, quasi un sussurro di odio puro, prima dell’esplosione (preparata e risolta da due forcelle, però) del “me l’ha rapito”, con salto di decima (sol-mi grave). La lamentazione della disonorata zittella è affidata alla cantilena “Priva dell’onor mio” (acciaccatura, espressione cristallizzata del singhiozzo, sul re diesis centrale), ripresa e rinforzata da un nuovo “crescendo e animando” che porta la voce al la nat acuto, cui segue una corona sul sol nat, una discesa al si sotto il rigo e una nuova corona sul la centrale. La pagina descrive, dopo una partenza ingannevolmente placida, l’animo sconvolto della protagonista e costituisce la premessa per il successivo confronto con l’ormai ex amante.
Nel dialogo con Turiddu è essenziale l’accento risentito e insinuante, specie nella frasetta “a noi l’ha raccontato compar Alfio, il marito, poco fa”, musicalmente elementare ma essenziale nella definizione del personaggio e della sua psicologia. Altrettanto illuminante nella sua semplicità l’altra frase “quella cattiva femmina ti tolse a me”, con i suoi la e sol centrali ribattuti. All’attacco del cantabile “Bada Santuzza”, alla primadonna è richiesto di affrontare “con angoscia” la grandiosa arcata musicale “è troppo forte l’angoscia mia”, ripetuta due volte fino a toccare, in volata, il la nat acuto.
Quando poi in scena giunge la rivale, ecco che comare Santa ci svela un altro lato del suo carattere non certo idilliaco, quello del sarcasmo. Ancora una volta si tratta di frasi che insistono sul centro della voce: “Gli dicevo che oggi è Pasqua e il Signor vede ogni cosa”, con i suoi do bem e si bem martellanti, sottolineati da una forcella, “Io no, ci deve andar chi sa di non aver peccato”, che scende al do diesis sotto il rigo (“ritenendo” e “rallentando assai”), e “Oh! fate bene, Lola!”, per la quale Mascagni prescrive di partire dal “f” e diminuire, ancora una volta “ritenendo” e stavolta “con amarezza”. Frasi ancora una volta quasi banali, che la cantante dovrebbe sottolineare aggiungendo, a quelle previste dall’autore, numerose altre invenzioni dinamiche e di fraseggio.
Alla ripresa del duetto il canto di conversazione cede di nuovo il passo alla melodia spianata, e qui Santuzza deve affrontare la grandiosa melodia in la bem maggiore “No, no, Turiddu, rimani, rimani ancora”, una delle più trascinanti dell’opera. La tessitura, dopo le prime battute, si fa insolitamente alta, insistendo nell’ottava compresa fra il la bem centrale e quello acuto, toccato più volte (la prima alle parole “rimani ancora”, all’unisono con il tenore). E anche qui non basta urlare a pieni polmoni, come vorrebbe certa vulgata relativa all’opera verista, e non basta neppure la bella voce: occorre cantare, prescrive il compositore, “dolcissimo” e “con dolore”, rispettando le indicazioni dinamiche ed espressive quali “grandioso con sempre crescente passione”, “espressivo”, “con anima”, il tutto fino al vertice del si bem acuto, da toccarsi ancora una volta all’unisono con compare Turiddu. Quando poi si arriva alla celeberrima Mala Pasqua, è vero che l’autore contrassegna l’invettiva con le indicazioni “a piacere” e “quasi parlato”, ma il la bem acuto finale dovrebbe essere cantato, al pari del resto della pagina.
I due volti di Santuzza, fraseggiatrice intrisa di veleno e sconsolata dolente della propria caduta, si fondono nel successivo duetto con Alfio. Per il primo aspetto basti la forcella su “Lola v’adorna il tetto in malo modo”, che alcune interpreti hanno ritenuto di integrare, in scena, con un’eloquente allusione agli ornamenti medesimi. Il secondo consiste ovviamente del Largo “Turiddu mi tolse l’onore”, che parte dal fa centrale (“p”), cresce progressivamente e di tessitura e d’intensità e trova l’apice nella ripetizione “appassionata” che dal sol sale al si bem acuto (questa è la soluzione prevista in “oppure”, di grande effetto: la frase di partenza è una terza sotto). La successiva modulazione in tonalità maggiore (“Per la vergogna mia, pel mio dolore”) è accompagnata da un tripudio di indicazioni quali “poco rit.”, “un poco affrett.”, “a tempo”, “un poco animando e crescendo”, il tutto nel giro di un paio di battute, fino al nuovo culmine del la nat acuto. La parte finale del duetto (che finora sembrava piuttosto una romanza con pertichino) vede dominare la voce del baritono, ma nelle concitate frasi finali Santuzza deve toccare ancora una volta il la bem acuto (“infame io son”) e il si bem, sottolineato da una corona, mentre il baritono sale al sol bem acuto. Non paga di quanto previsto dall’autore, Ester Mazzoleni, soprano drammatico di grande facilità in acuto, duettando con l’Alfio di Pasquale Amato (ipostasi dell’onore meridionale oltraggiato), dopo avere eseguito con voce morbida e squillante l’intera pagina, si concede il lusso di chiuderla interpolando un do sovracuto. Un numero di altissima scuola, che dovrebbe essere di monito a chi ancora pensa che Santuzza, e con lei altre eroine non meno ardite e temperamentose, possano e debbano accontentarsi di un piatto vociare. O magari di una confacente pettinatura.
Gli ascolti
Mascagni – Cavalleria rusticana
Atto unico
Regina Coeli, laetare… Inneggiamo, il Signor non è morto – Fiorenza Cossotto (1971), Irina Arkhipova (1980), Waltraud Meier (1996)
Voi lo sapete, o mamma – Gemma Bellincioni (1903), Claudia Muzio (1934)
Tu qui Santuzza? Qui t’aspettavo – Grace Bumbry & Carlo Bergonzi (1968), Irina Makarova & Oleg Kulko (2009)
Fior di giaggiolo – Magda Olivero, Daniele Barioni & Bianca Berini (1964)
Ah! lo vedi…No, no, Turiddu, rimani ancora – Maria Jeritza & Helge Rosvaenge (1933), Bianca Berini & Alain Vanzo (1976)
Oh! Il Signore vi manda, compar Alfio…Turiddu mi tolse l’onore – Ester Mazzoleni & Pasquale Amato (1909), Elisabeth Rethberg & Carlo Morelli (1937), Magda Olivero & Piero Guelfi (1964)
Davvero complimenti per il pezzo. Al di fuori dei circuiti accademici, solo da queste parti capita di imbattersi in analisi così puntuali ed esaurienti.
Confesso che mi sarei aspettato qualcosa di più dalla grandissima Arkhipova, splendida Azucena a Orange e indimenticambile Amneris (per non parlare della sua Carmen russa), purtroppo bistrattata incomprensibilmente dalle major discografiche. Qui l'ho trovata come di consueto con uno squillo e una stabilità esemplari, ma con una voce un po' stimbrata, complice forse l'età avanzata (55 anni nel 1980 – sfuderei oggi trovare comquneu un mezzo di questa portata anche solo a 30 anni-).
Splendido il duetto della Berini con Vanzo. Lui declama puro verismo, e non paraverismo… Lei quando scende su "abbandonarmi" fa venir fuori tutto il personaggio. E le parti d'insieme sono un amalgama coerente e di gusto.
ma lo sai che siamo solo dei poveri passatisti che deleiran su persone, fatti e cose che i canali ufficiali della critica cercano di convincerci frutto di menti sognatrici e malate!!!!