Da qualche tempo a questa parte pare impossibile realizzare un album di musica lirica senza evocare, nella grafica del cofanetto, nella réclame e magari sulle riviste specializzate, che manzonianamente potremmo definire disposte sempre all’obbedienza, il nome di un cantante del passato. Di rado si ricorre a un nome del passato prossimo, che qualche canuto ascoltatore potrebbe aver sentito dal vivo, magari più di una volta.
Va dato atto al signor Pape e al di lui management di avere scelto con oculatezza il modello di questo “Gods, Kings and Demons”, omaggio a George London, baritono di un certo successo negli anni Cinquanta e Sessanta, protagonista di un’analoga e quasi omonima crestomazia discografica.
Altra caratteristica che distingue René Pape dalla maggior parte degli esecutori “discografici” moderni è l’avere egli in repertorio, se non tutte, certo un buon numero delle opere di cui propone estratti. Onore quindi all’onestà intellettuale del cantante di Dresda. Cui fa però difetto, va detto, un poco di autoanalisi.
I brani scelti spaziano infatti dal repertorio di basso (dai diavoli di Gounod e Boito a zar Boris, passando per re Marke, Filippo II e lo Spirito dell’acqua della Rusalka) a quello di basso-baritono (Wotan, il Demone di Rubinstein e il Mefistofele di Berlioz) fino a quello di baritono puro (l’aria – apocrifa – del Dapertutto dei Contes d’Hoffmann). Un programma imponente, che richiederebbe una voce capace di passare da un registro all’altro senza perdere in autorevolezza. A questo si aggiunge la necessità di trovare, di volta in volta, l’accento e i colori che siano, per ogni personaggio, i più pertinenti.
Il disco rende un grande servizio a René Pape che, dal vivo, non impressiona per volume e squillo. Tutt’altro. Il microfono, catapultando la voce in primo piano sullo sfavillante tappeto sonoro della Staatskapelle Dresden (davvero encomiabile), esalta il timbro piacevole, sebbene poco personale, del cantante tedesco, senza che egli debba preoccuparsi di risultare, nei punti di tessitura più grave, fioco. Come accadeva, ad esempio, nella Zauberflöte diretta da C. Abbado alcuni anni fa a Modena, in cui bastava il confronto con l’abbondantemente declinato Salminen (nella stessa produzione a Ferrara) per fare comprendere quale, fra le due, fosse l’autentica voce di basso richiesta dal sommo sacerdote di Iside ed Osiride.
Il disco non smentisce l’ascolto dal vivo. La voce, piuttosto magra al centro, malgrado il cantante si sforzi di irrobustirla conferendo al canto una netta qualità nasale, trova maggiore volume e colore prettamente tenorile nella zona che prepara e segue il passaggio di registro (do-mi4). Purtroppo in quella zona si verificano frequenti slittamenti di intonazione. Questo accade, ad esempio, al punto “Et Satan conduit le bal” (mi4) nei couplet del Faust, all’attacco della serenata “Vous qui faites l’endormie” (che dal sol3 sale prima al re4) e soprattutto nell’incipit di “Voici des roses”. Segno di un passaggio di registro incerto, che determina acuti faticosi (“no, amor per me non ha”, mi4, scena di Filippo II), precludendo al cantante, in zona alta, la sicurezza che competerebbe a una voce di schietto baritono Martin. Parente assai prossimo del tenore. Difatti si cercherebbe invano nel signor Pape una prodigiosa estensione verso il basso, visto che basta il si2 di “Scintille diamant” a mettere in luce la povertà del registro grave del cantante. Un altro buon esempio è offerto dall’esecuzione frettolosa e pasticciata del passaggio “che Dio può sol veder” (ancora nel monologo di Filippo II), due sestine di semicrome che, partendo dal sib2, scendendo al la2 e salendo poi fino al mib4, propongono anche un’impietosa panoramica della frattura dei registri che caratterizza la voce del cantante tedesco. Frattura che una celebre collega da noi abusata quale esempio di grande canto, riferendosi ad altra voce femminile di lei meno solida, ebbe a bollare come il famigerato “scalino” nella voce.
E le considerazioni su questo disco potrebbero anche finire qui. Perché con una simile organizzazione vocale, diciamo raffazzonata, e una voce in natura assai poco privilegiata, è difficile essere grandi interpreti, per quante intenzioni si possano imprimere al canto e magari al booklet e dvd di accompagnamento.
Come gran parte dei Mefistofele oggi in attività, Pape tenta di rendere l’eleganza e il cinismo del Demonio con risa sardoniche e arrotare di “r”, risultando invece assai prossimo alla caricatura di un gagà anni Venti. Nei panni di Filippo II le maggiori idee interpretative consistono nell’imitazione naturalistica del parlato (“quei doppier presso a finir”) e in qualche tentativo di smorzatura al centro, risolto con suoni poco appoggiati. Le mezzevoci in difetto di sostegno non rendono un bel servizio alla berceuse della Dannazione di Faust. Meglio l’aria di Dapertutto, in cui l’accento genericamente brillante – da opéra comique, appunto – ha la meglio sull’accento torvo riservato agli altri signori delle tenebre.
Per la gioia dei nostri lettori, nonché affezionati detrattori militanti sotto la bandiera del cosiddetto declamato, diremo che le pagine più riuscite del disco sono quelle dedicate a Wagner e agli operisti slavi. Con alcune riserve. Ossia che questo Wagner “formato tascabile” ha poco che fare con quello della grande tradizione non solo Collinare, ma persino europea ed americana.
Perché sul sacro suolo di Bayreuth si sono per decenni avvicendati cantanti di tecnica discutibile, ma per il solito dotati di voci imponenti, se non torrenziali, capaci di oltrepassare, magari urlando, le bordate dell’orchestrale wagneriano. Ora, con questi Wotan e Marke di voce grigia, povera di colori perché in difetto di corretta emissione, priva di autorevolezza anche in termini meramente quantitativi, i drammi del Maestro perdono in grandiosità quello che non riescono a riacquistare in eloquenza. A meno che la sola eloquenza che conti non sia quella dispensata da uffici stampa e agenzie di viaggio specializzate. Cosa di cui ci permettiamo di dubitare.
Le cose vanno un poco meglio nelle romanze del Demone e in quella della Rusalka, in cui l’interprete, peraltro, non si tira indietro quanto a scoppi d’insensata volgarità (vedi i brani concitati dell’aria dello Spirito dell’acqua) e non riesce a riproporre che una pallida e mugghiante imitazione delle malinconiche trenodie cui ci hanno abituato i grandi cantanti della tradizione russa. E non solo russa. Nel monologo di Boris morente abbiamo diritto, oltre all’ormai usuale caricatura del monumentale tiranno (alla greca) riletto in chiave piccolo borghese, alla presenza della voce bianca, che sostituisce l’usuale mezzosoprano. Altro indizio di un bisogno spasmodico di scimmiottamento naturalistico, che svela quanto poco i “signori del disco” abbiano compreso dell’arte cui sono preposti. Ma non lamentiamoci troppo. In tempi recenti, abbiamo visto anche un controtenore nei panni di Fyodor. Il bambino in questione (Carl-Johann Winkler) è, se non altro, più intonato del falsettista medio!
Pesante, seppur solida, la direzione di Sebastian Weigle. Del resto, quella di Dresda è un’orchestra cui basta un buon “conducente” per dare il meglio di sé, segnatamente negli interventi solistici (in primis quelli dei fiati).
Gli ascolti
Gounod – Faust
Atto II – Le veau d’or – Marcel Journet (1930)
Atto IV – Vous qui faites l’endormie – Arthur Endrèze (1936)
Berlioz – La damnation de Faust
Parte II – Voici des roses – Sesto Bruscantini (1951)
Verdi – Don Carlo
Atto IV – Ella giammai m’amò – Vanni Marcoux (1934)
Offenbach – Les contes d’Hoffmann
Atto IV – Scintille diamant – André Pernet (1946)
Wagner – Das Rheingold
Scena IV – Abendlich strahlt der Sonne Auge – Friedrich Schorr (1927)
Rubinstein – Demon
Atto II – Ne plac’, ditya – Mattia Battistini (1902), Pavel Lisitsian (1947)
Mussorgsky – Boris Godunov
Atto IV – Oy, dusno, dusno! (Morte di Boris) – Vanni Marcoux (1927)
Bonus track
Berlioz – La damnation de Faust
Parte III – Maintenant, chantons à cette belle…Devant la maison – Vanni Marcoux (1930)
Come al solito, avete ragione.
Non ho sentito questo cd ma un qualsiasi tentativo di rifarsi alla George London non potrebbe mai riuscirci bene. La natura, al Sig. Pape, è stata molto meno generosa. La tecnica molto meno sicura.
Ecco. Semplice.