Nel proseguire il percorso di analisi delle più rilevanti interpretazioni di Donna Leonora di Vargas, è opportuno considerare quelle che erano le caratteristiche vocali della prima interprete del ruolo (nella seconda versione dell’opera) ossia quella Teresa Stolz che con Verdi ebbe una vera e propria liaison, forse non soltanto di natura artistica. Cantante tra le più celebrate della sua epoca, si fece le ossa nei grandi teatri della mitteleuropa e almeno dal 1865 si dedicò ad un repertorio pesantissimo che comprendeva Lurezia Borgia, Norma, Guglielmo Tell, Juive, Robert le Diable, Huguenots. Prima Aida alla Scala (dopo la premiere del Cairo), nel 1874 cantò alla prima esecuzione del Requiem, cantò anche in Giovanna D’Arco, Rigoletto, Trovatore, Un Ballo in Maschera, Don Carlo e Otello. Le cronache dell’epoca tramandano un timbro potente e passionale, una voce sicura e ottimamente controllata, un vero soprano drammatico. Tale carisma non lasciò indifferente Verdi che la volle fortemente per la seconda versione della Forza del Destino e, difatti, appare interprete ideale delle più tormentate e mature creazioni sopranili del Maestro di Busseto.
Monopolista del ruolo negli anni ‘60/70, insieme alla Tebaldi (anche se con esiti diversissimi), fu Leontyne Price. Il soprano americano fu, forse, la più compiuta incarnazione del soprano verdiano della nostra epoca – almeno una certa categoria di soprano verdiano: quello del Verdi più drammatico. In effetti in quegli anni, e in quelli immediatamente successivi, la Price costituì un unicum nel panorama delle interpreti verdiane, soprattutto se confrontata con le contemporanee (con pochissime eccezioni, quali la Cerquetti ad esempio): si pensi agli esiti deludenti di certe esperienze della Callas (Aida, Forza del Destino, Un Ballo in Maschera) oppure ai maldestri tentativi di spacciare per soprano verdiano certe declamatrici di stretta osservanza bayreuthiana (secondo una degenerazione del canto wagneriano, poi…) dalle voci possenti come monoliti, certo, ma al pari dei monoliti flessibili e sfumate. L’interpretazione di Leonora, segna tutta la carriera della Price: dagli esordi al declino vocale. Nelle tre incisioni ufficiali che ci restano del ruolo, e nelle testimonianze live, infatti, si assiste alla completa parabola artistica della cantante, si assiste alla sua maturazione, al progressivo avanzare dei difetti, alla decadenza finale. A cominciare dall’edizione diretta da Schippers nel 1964, passando da Levine nel 1976, fino alle ultime esibizioni al Met nel 1984, sempre sotto la bacchetta di Levine. Ciò che colpisce l’ascoltatore è, innanzitutto, il colore e il timbro: ricco e passionale, notturno e misterioso, brunito e caldo, vellutato e sensuale, particolarmente adatto nel rendere i personaggi tormentati e drammatici che caratterizzano il Verdi della maturità artistica, assai più della paciosità un po’ provinciale di una Freni (da taluno giudicata iperbolicamente, una delle migliori Leonore di sempre), o l’esangue ed asessuato biancore di una Caballè (ben diverso dalla Leonora penitente e angelicata di una Tebaldi). Un canto morbido e legatissimo con acuti corposi e sicuri. La Price è una Leonora peccatrice, carnale, profondamente romantica. Gradualmente, dopo gli anni ’60, compaiono le prime difficoltà: nel registro basso inizia a farsi strada una certa opacità (poi esteso anche in zona centrale), una certa fumosità che compromette in parte la morbidezza di un timbro straordinario. Al velluto di qualche anno prima si sostituisce una evidente durezza e legnosità. Gli acuti un tempo raggianti e sicuri, diventano più difficili. Ma la Price sa cantare, e pur nei vizi che caratterizzano il suo declino (inevitabile per tutti), rimangono squarci da grande cantante: i difetti sono quelli della decadenza, tipica della parte finale della carriera di tanti, non sono mai frutto di mancanze tecniche (la voce resta sempre appoggiata perfettamente e mai indulge in suonacci gutturali – che caratterizzano il triste presente di alcune sue ancor giovani colleghe, nel pieno della carriera e, nonostante questo, già in disarmo, anche se pochi vogliono accorgersene). Ma al di là della carriera – straordinaria – della Price, interessa qui analizzare la sua Leonora, il suo arrivo al convento: usando come paradigma l’edizione del 1964 (la cui interpretazione sostanzialmente, almeno per quel che la rigurada, verrà replicata neglia anni immediatamente successivi, al Met, pagando però, la mancanza di un direttore come Schippers). Impressiona subito la Price, sin dal recitativo – quanta differenza rispetto all’analogo brano nell’esecuzione a volte troppo concitata, a volte eccessivamente enfatica o caricate, di tante sue colleghe – un Son giunta finalmente non strillato: il secondo FA# non è un grido disperato (o un ululato), ma quasi uno sfogo, un sollievo, sottolineato dalla morbidezza rilassata della frase successiva, con una discesa al RE, tranquilla, clama, serena. Il secondo Son giunta è più commosso, mentre in orchestra si insinua il tema del destino, e Leonora riepiloga la propria storia: ricordi che si accavallano nella sua mente. Lo scampato pericolo, la paura ancora viva, il rifugio tanto sperato, la pace (forse), il rimorso e, infine, una rabbia impotente che pure vorrebbe reprimere: è l’amore per Alvaro, compagno di peccato e di delitto, che ora l’ha tradita e fugge (almeno così lei crede). La Price dipinge un recitativo teso e continuo, senza mai spezzare la frase o indulgere in effettacci, tutto risolto sul fiato, sulla continuità della linea musicale, resa però varia dal rispetto delle indicazioni verdiane e dei segni d’espressione: alternanza sapiente di p e f, lo splendido crescendo di Quella notte in cui io, io… che sfocia in un radioso SOL naturale a voce piena, in corrispondenza di Del sangue… per poi ridiscendere al DO con un significativo rallentando sino al ppp. Le due successive frasi, cantabili, vengono eseguite su di uno splendido legato che porta la voce ad un SI acuto, tenuto per due battute, timbratissimo, fermo, luminoso, e che che si spegne nel lento morendo che conduce all’aria. Inizia come una preghiera: la preghiera di una peccatrice, non di una casta vergine penitente. Le legature sono perfette e le forcelle eseguite con scrupolo, in un crescendo appena percettibile, rispettosissimo delle indicazioni verdiane. Un dosaggio perfetto di p e f, incalzante sino allo sfogo sull’ampio tremolo degli archi: Deh non m’abbandonar, amplissimo, morbido, vellutato, che cresce e decresce in un solo respiro. Gli acuti sono sicuri e facili: il LA in crescendo nella ripetizione della frase, con la voce che subito si spegne per lasciare spazio al coro, è un esempio impressionante di controllo, reso possibile solo da una tecnica dominata alla perfezione. Gli incisi di Leonora si intrecciano al canto dei frati, senza alcuna discontinuità, in un equilibrio di rarefatta suggestione. Il registro centrale è corposo e caldo: il SI basso in Fede, conforto e calma è una vera nota e non un sussurro impercettibile o un bercio di gola. Il breve passaggio di recitativo si conclude, poi, con un crescendo impressionante per volume e corpo della voce: MI, MI#, FA#, procedendo per semitoni ascendenti e allargandosi in una corona in f per poi sfociare in un Non mi lasciar soccorrimi ancora più ampio e vibrante, mostrando una cavata autenticamente verdiana, e allargandosi ancora in corrispondenza del primo LA acuto, saldo e tenuto. Le frasi successive, legatissime, portano al secondo LA, rallentando sino al lento spegnersi del finale. Questo è il Verdi della Price: nobile, ampio, sicuro, vibrante, forse per taluni non abbastanza moderno…soprattutto se la modernità è presa a pretesto per giustificare certo malcanto.
Monopolista del ruolo negli anni ‘60/70, insieme alla Tebaldi (anche se con esiti diversissimi), fu Leontyne Price. Il soprano americano fu, forse, la più compiuta incarnazione del soprano verdiano della nostra epoca – almeno una certa categoria di soprano verdiano: quello del Verdi più drammatico. In effetti in quegli anni, e in quelli immediatamente successivi, la Price costituì un unicum nel panorama delle interpreti verdiane, soprattutto se confrontata con le contemporanee (con pochissime eccezioni, quali la Cerquetti ad esempio): si pensi agli esiti deludenti di certe esperienze della Callas (Aida, Forza del Destino, Un Ballo in Maschera) oppure ai maldestri tentativi di spacciare per soprano verdiano certe declamatrici di stretta osservanza bayreuthiana (secondo una degenerazione del canto wagneriano, poi…) dalle voci possenti come monoliti, certo, ma al pari dei monoliti flessibili e sfumate. L’interpretazione di Leonora, segna tutta la carriera della Price: dagli esordi al declino vocale. Nelle tre incisioni ufficiali che ci restano del ruolo, e nelle testimonianze live, infatti, si assiste alla completa parabola artistica della cantante, si assiste alla sua maturazione, al progressivo avanzare dei difetti, alla decadenza finale. A cominciare dall’edizione diretta da Schippers nel 1964, passando da Levine nel 1976, fino alle ultime esibizioni al Met nel 1984, sempre sotto la bacchetta di Levine. Ciò che colpisce l’ascoltatore è, innanzitutto, il colore e il timbro: ricco e passionale, notturno e misterioso, brunito e caldo, vellutato e sensuale, particolarmente adatto nel rendere i personaggi tormentati e drammatici che caratterizzano il Verdi della maturità artistica, assai più della paciosità un po’ provinciale di una Freni (da taluno giudicata iperbolicamente, una delle migliori Leonore di sempre), o l’esangue ed asessuato biancore di una Caballè (ben diverso dalla Leonora penitente e angelicata di una Tebaldi). Un canto morbido e legatissimo con acuti corposi e sicuri. La Price è una Leonora peccatrice, carnale, profondamente romantica. Gradualmente, dopo gli anni ’60, compaiono le prime difficoltà: nel registro basso inizia a farsi strada una certa opacità (poi esteso anche in zona centrale), una certa fumosità che compromette in parte la morbidezza di un timbro straordinario. Al velluto di qualche anno prima si sostituisce una evidente durezza e legnosità. Gli acuti un tempo raggianti e sicuri, diventano più difficili. Ma la Price sa cantare, e pur nei vizi che caratterizzano il suo declino (inevitabile per tutti), rimangono squarci da grande cantante: i difetti sono quelli della decadenza, tipica della parte finale della carriera di tanti, non sono mai frutto di mancanze tecniche (la voce resta sempre appoggiata perfettamente e mai indulge in suonacci gutturali – che caratterizzano il triste presente di alcune sue ancor giovani colleghe, nel pieno della carriera e, nonostante questo, già in disarmo, anche se pochi vogliono accorgersene). Ma al di là della carriera – straordinaria – della Price, interessa qui analizzare la sua Leonora, il suo arrivo al convento: usando come paradigma l’edizione del 1964 (la cui interpretazione sostanzialmente, almeno per quel che la rigurada, verrà replicata neglia anni immediatamente successivi, al Met, pagando però, la mancanza di un direttore come Schippers). Impressiona subito la Price, sin dal recitativo – quanta differenza rispetto all’analogo brano nell’esecuzione a volte troppo concitata, a volte eccessivamente enfatica o caricate, di tante sue colleghe – un Son giunta finalmente non strillato: il secondo FA# non è un grido disperato (o un ululato), ma quasi uno sfogo, un sollievo, sottolineato dalla morbidezza rilassata della frase successiva, con una discesa al RE, tranquilla, clama, serena. Il secondo Son giunta è più commosso, mentre in orchestra si insinua il tema del destino, e Leonora riepiloga la propria storia: ricordi che si accavallano nella sua mente. Lo scampato pericolo, la paura ancora viva, il rifugio tanto sperato, la pace (forse), il rimorso e, infine, una rabbia impotente che pure vorrebbe reprimere: è l’amore per Alvaro, compagno di peccato e di delitto, che ora l’ha tradita e fugge (almeno così lei crede). La Price dipinge un recitativo teso e continuo, senza mai spezzare la frase o indulgere in effettacci, tutto risolto sul fiato, sulla continuità della linea musicale, resa però varia dal rispetto delle indicazioni verdiane e dei segni d’espressione: alternanza sapiente di p e f, lo splendido crescendo di Quella notte in cui io, io… che sfocia in un radioso SOL naturale a voce piena, in corrispondenza di Del sangue… per poi ridiscendere al DO con un significativo rallentando sino al ppp. Le due successive frasi, cantabili, vengono eseguite su di uno splendido legato che porta la voce ad un SI acuto, tenuto per due battute, timbratissimo, fermo, luminoso, e che che si spegne nel lento morendo che conduce all’aria. Inizia come una preghiera: la preghiera di una peccatrice, non di una casta vergine penitente. Le legature sono perfette e le forcelle eseguite con scrupolo, in un crescendo appena percettibile, rispettosissimo delle indicazioni verdiane. Un dosaggio perfetto di p e f, incalzante sino allo sfogo sull’ampio tremolo degli archi: Deh non m’abbandonar, amplissimo, morbido, vellutato, che cresce e decresce in un solo respiro. Gli acuti sono sicuri e facili: il LA in crescendo nella ripetizione della frase, con la voce che subito si spegne per lasciare spazio al coro, è un esempio impressionante di controllo, reso possibile solo da una tecnica dominata alla perfezione. Gli incisi di Leonora si intrecciano al canto dei frati, senza alcuna discontinuità, in un equilibrio di rarefatta suggestione. Il registro centrale è corposo e caldo: il SI basso in Fede, conforto e calma è una vera nota e non un sussurro impercettibile o un bercio di gola. Il breve passaggio di recitativo si conclude, poi, con un crescendo impressionante per volume e corpo della voce: MI, MI#, FA#, procedendo per semitoni ascendenti e allargandosi in una corona in f per poi sfociare in un Non mi lasciar soccorrimi ancora più ampio e vibrante, mostrando una cavata autenticamente verdiana, e allargandosi ancora in corrispondenza del primo LA acuto, saldo e tenuto. Le frasi successive, legatissime, portano al secondo LA, rallentando sino al lento spegnersi del finale. Questo è il Verdi della Price: nobile, ampio, sicuro, vibrante, forse per taluni non abbastanza moderno…soprattutto se la modernità è presa a pretesto per giustificare certo malcanto.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
1963 – Leontyne Price (con Walter Kreppel & Elfego Esparza – dir. Francesco Molinari-Pradelli – Opera di San Francisco)
Che dire? Avete detto tutto!
Quello che non avete detto è che questa "Forza" segnalò il DEBUTTO DELLA PRICE IN QUESTO RUOLO!
(Ora rileggete la vostra dettagliata analisi di questa performance con questa che vi frulla per la testa!!!)
Ebbene sì!
Lei usava sovente debuttare i suoi ruoli in America a San Francisco perché era particolarmente amata da l'allora direttore generale della San Francisco Opera, l'austriaco, Kurt Herbert Adler (viennese di nascita e assistente di Toscanini al Festival di Salisburgo).
Fu un nuovo allestimento (non di Strehler, Zeffirelli o di Vick, o della madre di Emma Dante!) dedicato ad honorem a Gaetano Merola, napoletano di nascita e fondatore dell'Opera di San Francisco. Oggi ne rimane intitolato col suo nome il programma per giovani cantanti e direttori d'orchestra, "The Merola Opera Program".
Il basso, Kreppel, meglio noto per i suoi personaggi wagneriani, fu al suo debutto statunitense.
Don Alvaro fu James McCracken.
Ora mi sembra di aver appena detto una specie di preghiera e non posso che finire con un semplice "Amen".
That is probably the best of Leontyne Price I have ever heard.