Quale opera meglio della Forza del destino, per accompagnare il mese verdiano del nostro Corriere? La sontuosità dell’impianto drammatico, che rivaleggia con quello dei più celebri titoli del grand opéra; i personaggi grandiosi, tragici, cristallizzati nelle rispettive passioni (l’amore, il rimorso, la sete di vendetta) sullo sfondo di un affresco storico che a tratti (finale terzo) occupa il centro della scena; l’orchestra che evoca atmosfere ora cupe e dense di sciagure incombenti, ora sospese e languide.
Opera di proporzioni gigantesche e, naturalmente, opera scritta per grandi voci: cinque prime parti (equamente distribuite fra i diversi registri vocali) e svariati ruoli secondari, comunque importanti ai fini dell’allestimento. Opera per grandi bacchette, esperte di Verdi, ma più ancora esperte di canto. Opera che non è mai entrata nel grande repertorio, ma che, le non frequentissime volte che è stata presentata nei grandi teatri, ha goduto spesso di cast memorabili. Citiamo almeno le recite del 1933 al Colón di Buenos Aires, con Claudia Muzio (Donna Leonora di Vargas), Beniamino Gigli (Don Alvaro), Victor Damiani (Don Carlo), Ebe Stignani (Preziosilla), Giacomo Vaghi (Padre Guardiano) e Salvatore Baccaloni (Fra’ Melitone), e quelle che videro il debutto al Met di Rosa Ponselle, nel 1918, con Enrico Caruso, Giuseppe de Luca e José Mardones.
Infine, dato che alcuni fedeli lettori ci accusano, più o meno velatamente, di praticare arti magiche o iettatorie tout court ai danni di alcuni cantanti e direttori, quale opera avremmo potuto scegliere, se non quella che, per nota credenza popolare, porta “nera” per eccellenza?
Avendo deciso di limitare le nostre riflessioni a una singola scena dell’opera, la scelta non poteva cadere che sul quadro della Madonna degli Angeli.
La scena, incentrata sul personaggio della penitente Donna Leonora, prevede una scena e arioso della primadonna (“Madre, pietosa Vergine”), il duetto con il Padre Guardiano e la preghiera corale “La Vergine degli Angeli”. Al soprano compete l’espressione dei tormenti e dell’aspirazione ascetica della protagonista (aspirazione che sarà disgraziatamente di breve durata, come confesserà l’interessata nel monologo del quarto atto), in un susseguirsi di stati d’esaltazione e prostrazione che conferisce al discorso musicale un andamento assai vario, ideale per fare emergere, ove ve ne sia materia prima, il talento di una grande primadonna.
La parte di Leonora è di cosiddetto soprano drammatico. La rendono tale la scrittura marcatamente centrale – con sporadiche escursioni all’acuto (il limite estremo è un si naturale, attaccato scoperto all’inizio del quadro, alle parole “ah ohimè non reggo a tant’ambascia”, quindi toccato tre volte nelle ripetizioni dell’inciso “la sua figlia maledir” e un’altra alla fine del duetto) e un ampio ricorso alla prima ottava, che deve suonare piena e corposa – e il tappeto orchestrale ampio e spesso minaccioso, che va oltrepassato senza scadere nel grido o nella pantomima. Il personaggio, di nobildonna spagnola dall’intatta purezza e dal consistente blasone, mal si concilia con atteggiamenti, vocali e scenici, che evochino scenari differenti. A ciò si aggiungono i segni espressivi e le indicazioni dinamiche e agogiche, di cui Verdi è come al solito prodigo.
Questa prima puntata è dedicata alle due cantanti che furono, in Italia, l’emblema e il simbolo stesso della grande stagione verista: Gina Cigna e Maria Caniglia. Entrambe sostennero più volte il ruolo di Leonora, affiancate da partner prestigiosi e sotto bacchette di grande valore. L’ascolto parallelo mette in evidenza svariati punti di contatto e numerose differenze. Permette, soprattutto, di smentire l’assunto, adottato quale vangelo da certa critica, e di conseguenza da certo pubblico, per cui le signore, così come altri grandi esponenti della scuola di canto verista, esemplificherebbero un approccio volgare, becero e superato al dettato musicale verdiano.
Quello che colpisce, fin dalle prime battute, è la ricchezza del registro grave delle cantanti. Il caso più eclatante è quello della Cigna, che in prima ottava ha una saldezza che le permette di infondere il dovuto rilievo alle frasi di Leonora accompagnate dal canto dei frati dentro la scena. Appena meno sontuoso è lo strumento della Caniglia, la quale dimostra però una maggiore facilità nel legare i suoni anche nella fascia do centrale-sol, in cui la Cigna esibisce a volte suoni un poco duri e comunque meno solidi di quelli sfoggiati nella fascia inferiore. Di certo molte interpreti, che in anni recenti sono approdate al ruolo (in alcuni casi dopo una militanza più o meno felice nei ranghi dei mezzosoprani) con una prima ottava sostanzialmente vuota o artificiosamente “gonfia” e orchesca, potrebbero imparare molto dalla Cigna e dalla Caniglia, e non solo in termini di turgore sonoro.
Quanto ai segni di espressione, è vero che la Cigna ha la tendenza a ignorare quelli scritti da Verdi e ad attuarne di propri, di grande effetto seppur talvolta poco consoni alle parole e alla circostanza drammatica, ma la Caniglia si sforza di rispettare il dettato dell’autore, e in molti casi vi riesce, vedi ad esempio le forcelle nell’arioso “Madre, pietosa Vergine”, quelle su “Infelice, delusa, rejetta”, “più non sorge sanguinante”, “né terribile l’ascolto la sua figlia maledir” nel duetto con il Padre Guardiano e soprattutto la prescrizione “sottovoce e misteriosamente” alle parole “Sàlvati all’ombra di questa croce”. Più in generale la Caniglia fraseggia con maggiore sensibilità e adesione allo spirito delle diverse sezioni della scena: il tono accorato, ma nient’affatto esteriore, del monologo “Son giunta” si muta nel dialogo con Melitone in una semplicità intimidita, che trasmette tutta l’angoscia a stento soffocata di una persona disperata e sconvolta, ma decisa a mostrarsi il più possibile “normale” nei confronti di un estraneo. Ancora, la frase del duetto con il Padre Guardiano “voi mi scacciate? voi?”, per la quale Verdi indica “declamato”, viene risolta dalla Caniglia con assoluta sobrietà e senza intaccare la qualità del suono. Anche in questo la disprezzata “strillona” verista ha molto da insegnare a tante, troppe emule o presunte tali.
Meno varia risulta la Cigna, la cui interpretazione è improntata a un gusto un poco generico e pompier, sia pure temperato da una voce che, anche registrata, rimane impressionante per bellezza timbrica e capacità di penetrazione (fra parentesi, sono le voci torrenziali quelle maggiormente danneggiate dai nastri, che non permettono di gustarne fino in fondo la “canna” e l’ampiezza degli armonici). E la signora, o meglio “la Gina” come la chiamavano i suoi fedelissimi, se ogni tanto si abbandona a un canto un poco troppo affine al parlato (ad esempio sulla frase “declamata” cui si accennava prima, ma anche in alcuni passaggi del soliloquio iniziale), sa tuttavia emergere con prepotenza nella parte conclusiva del duetto con il basso, “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta”, in cui la voce si staglia con una potenza e un fulgore di impatto semplicemente sensazionale. Forse propiziata, in questo, dal taglio di una decina di battute verso la fine della sezione lenta del duetto (alla ripetizione delle parole “chi tal conforto mi toglierà?”), che consente alla Cigna di risparmiarsi una salita al si bemolle acuto.
Sempre alla fine del duetto va segnalata la precisione con cui la Caniglia pone in essere le indicazioni di “sforzando” previste lungo tutta la frase “plaudite o cori angelici, mi perdonò il Signor” e il successivo crescendo su “grazie o Signor”: non si tratta di mero virtuosismo, ma di un’efficace espressione della determinazione con cui Leonora cerca di persuadere in primo luogo se stessa di essere finalmente sfuggita ai tormenti della carne e della memoria.
Quanto agli acuti, tallone d’Achille di queste formidabili interpreti, lo scoglio del si naturale attaccato scoperto (e da legare al successivo si centrale) vede i soprani un poco in imbarazzo: la Cigna se la cava con una bordata di suono che evoca immediatamente la principessa Turandot, ma il passaggio all’ottava bassa denuncia lo sforzo con cui il suono immediatamente precedente è stato prodotto, mentre la Caniglia, meno spavalda all’acuto (in cui è tendenzialmente sempre un poco calante, specie sulle note la-si, come alla chiusa del duetto), lega e sfuma con grande proprietà, quasi a compensare l’insufficiente tenuta in alto. Limiti tutto sommato tollerabili, nell’economia di una parte che all’acuto insiste assai poco. E quanto a difficoltà in alto, Youtube fornisce esempi molto più eloquenti a opera di cantanti oggi in carriera e di assidua frequentazione wagneriana, e che pertanto dovrebbero avere una certa dimestichezza con si naturali e anche do.
La “Vergine degli Angeli”, brano ancora una volta eminentemente centrale (costruito in sostanza su un’ottava: sol centrale-sol acuto), esige accento castigato, purezza di suono e imponenza di cavata. Ancora una volta forse è preferibile l’approccio di Maria Caniglia, più controllata e attenta alle indicazioni di legato, ma il timbro luminoso di Gina Cigna, sia pure applicato a suoni un poco aperti e bianchi (retaggio di un’idea verista di innocenza e candore), ha un fascino cui è difficile resistere.
Una parola sui Padri Guardiani: Giacomo Vaghi, basso ufficiale dell’Opera di Roma lungo tutti gli anni Trenta e Quaranta, delinea un frate giovanile, se non giovane, ancora vigoroso ed energico, mentre Tancredi Pasero, dal timbro come sempre pastoso e dall’accento nobile, conferisce al personaggio una sfumatura disillusa e malinconica che ne aumenta la carica umana senza intaccarne la per così dire precoce santità (basti sentire la frase “Più fatal per voi sì giovane giungerebbe il pentimento”). I due interpreti sono accomunati da una voce a dir poco maestosa, immune (per sapienza tecnica, più ancora che per dote naturale) dalle durezze e dalle fissità cui ci hanno abituati interpreti anche assai quotati di questo e altri ruoli di sacerdoti e padri verdiani.
Gustoso il Melitone di Saturno Meletti, personaggio a tutto tondo e non semplice macchietta, cui sembra invece limitarsi il pure assai valido Emilio Ghirardini.
Alla bacchetta, due grandi maestri verdiani (e non solo) da molti tacciati di essere meri routinier. De Fabritiis pensa soprattutto a seguire ed assecondare gli interpreti (Cigna in primis) ma non rinuncia a delineare in orchestra il clima notturno e sospeso della scena, mentre Marinuzzi, che pure sostiene da par suo la Caniglia (e non è da escludersi che la grande attenzione del soprano a quanto previsto dall’autore derivi, almeno in parte, dalle indicazioni del direttore), delinea un quadro molto più acceso e drammatico dell’incipit, in modo da fare risaltare al meglio la solennità del duetto (con la chiusa staccata a tempo maestoso, davvero religioso) e la serenità ultramondana della preghiera conclusiva. Magari la routine fosse sempre così.
Opera di proporzioni gigantesche e, naturalmente, opera scritta per grandi voci: cinque prime parti (equamente distribuite fra i diversi registri vocali) e svariati ruoli secondari, comunque importanti ai fini dell’allestimento. Opera per grandi bacchette, esperte di Verdi, ma più ancora esperte di canto. Opera che non è mai entrata nel grande repertorio, ma che, le non frequentissime volte che è stata presentata nei grandi teatri, ha goduto spesso di cast memorabili. Citiamo almeno le recite del 1933 al Colón di Buenos Aires, con Claudia Muzio (Donna Leonora di Vargas), Beniamino Gigli (Don Alvaro), Victor Damiani (Don Carlo), Ebe Stignani (Preziosilla), Giacomo Vaghi (Padre Guardiano) e Salvatore Baccaloni (Fra’ Melitone), e quelle che videro il debutto al Met di Rosa Ponselle, nel 1918, con Enrico Caruso, Giuseppe de Luca e José Mardones.
Infine, dato che alcuni fedeli lettori ci accusano, più o meno velatamente, di praticare arti magiche o iettatorie tout court ai danni di alcuni cantanti e direttori, quale opera avremmo potuto scegliere, se non quella che, per nota credenza popolare, porta “nera” per eccellenza?
Avendo deciso di limitare le nostre riflessioni a una singola scena dell’opera, la scelta non poteva cadere che sul quadro della Madonna degli Angeli.
La scena, incentrata sul personaggio della penitente Donna Leonora, prevede una scena e arioso della primadonna (“Madre, pietosa Vergine”), il duetto con il Padre Guardiano e la preghiera corale “La Vergine degli Angeli”. Al soprano compete l’espressione dei tormenti e dell’aspirazione ascetica della protagonista (aspirazione che sarà disgraziatamente di breve durata, come confesserà l’interessata nel monologo del quarto atto), in un susseguirsi di stati d’esaltazione e prostrazione che conferisce al discorso musicale un andamento assai vario, ideale per fare emergere, ove ve ne sia materia prima, il talento di una grande primadonna.
La parte di Leonora è di cosiddetto soprano drammatico. La rendono tale la scrittura marcatamente centrale – con sporadiche escursioni all’acuto (il limite estremo è un si naturale, attaccato scoperto all’inizio del quadro, alle parole “ah ohimè non reggo a tant’ambascia”, quindi toccato tre volte nelle ripetizioni dell’inciso “la sua figlia maledir” e un’altra alla fine del duetto) e un ampio ricorso alla prima ottava, che deve suonare piena e corposa – e il tappeto orchestrale ampio e spesso minaccioso, che va oltrepassato senza scadere nel grido o nella pantomima. Il personaggio, di nobildonna spagnola dall’intatta purezza e dal consistente blasone, mal si concilia con atteggiamenti, vocali e scenici, che evochino scenari differenti. A ciò si aggiungono i segni espressivi e le indicazioni dinamiche e agogiche, di cui Verdi è come al solito prodigo.
Questa prima puntata è dedicata alle due cantanti che furono, in Italia, l’emblema e il simbolo stesso della grande stagione verista: Gina Cigna e Maria Caniglia. Entrambe sostennero più volte il ruolo di Leonora, affiancate da partner prestigiosi e sotto bacchette di grande valore. L’ascolto parallelo mette in evidenza svariati punti di contatto e numerose differenze. Permette, soprattutto, di smentire l’assunto, adottato quale vangelo da certa critica, e di conseguenza da certo pubblico, per cui le signore, così come altri grandi esponenti della scuola di canto verista, esemplificherebbero un approccio volgare, becero e superato al dettato musicale verdiano.
Quello che colpisce, fin dalle prime battute, è la ricchezza del registro grave delle cantanti. Il caso più eclatante è quello della Cigna, che in prima ottava ha una saldezza che le permette di infondere il dovuto rilievo alle frasi di Leonora accompagnate dal canto dei frati dentro la scena. Appena meno sontuoso è lo strumento della Caniglia, la quale dimostra però una maggiore facilità nel legare i suoni anche nella fascia do centrale-sol, in cui la Cigna esibisce a volte suoni un poco duri e comunque meno solidi di quelli sfoggiati nella fascia inferiore. Di certo molte interpreti, che in anni recenti sono approdate al ruolo (in alcuni casi dopo una militanza più o meno felice nei ranghi dei mezzosoprani) con una prima ottava sostanzialmente vuota o artificiosamente “gonfia” e orchesca, potrebbero imparare molto dalla Cigna e dalla Caniglia, e non solo in termini di turgore sonoro.
Quanto ai segni di espressione, è vero che la Cigna ha la tendenza a ignorare quelli scritti da Verdi e ad attuarne di propri, di grande effetto seppur talvolta poco consoni alle parole e alla circostanza drammatica, ma la Caniglia si sforza di rispettare il dettato dell’autore, e in molti casi vi riesce, vedi ad esempio le forcelle nell’arioso “Madre, pietosa Vergine”, quelle su “Infelice, delusa, rejetta”, “più non sorge sanguinante”, “né terribile l’ascolto la sua figlia maledir” nel duetto con il Padre Guardiano e soprattutto la prescrizione “sottovoce e misteriosamente” alle parole “Sàlvati all’ombra di questa croce”. Più in generale la Caniglia fraseggia con maggiore sensibilità e adesione allo spirito delle diverse sezioni della scena: il tono accorato, ma nient’affatto esteriore, del monologo “Son giunta” si muta nel dialogo con Melitone in una semplicità intimidita, che trasmette tutta l’angoscia a stento soffocata di una persona disperata e sconvolta, ma decisa a mostrarsi il più possibile “normale” nei confronti di un estraneo. Ancora, la frase del duetto con il Padre Guardiano “voi mi scacciate? voi?”, per la quale Verdi indica “declamato”, viene risolta dalla Caniglia con assoluta sobrietà e senza intaccare la qualità del suono. Anche in questo la disprezzata “strillona” verista ha molto da insegnare a tante, troppe emule o presunte tali.
Meno varia risulta la Cigna, la cui interpretazione è improntata a un gusto un poco generico e pompier, sia pure temperato da una voce che, anche registrata, rimane impressionante per bellezza timbrica e capacità di penetrazione (fra parentesi, sono le voci torrenziali quelle maggiormente danneggiate dai nastri, che non permettono di gustarne fino in fondo la “canna” e l’ampiezza degli armonici). E la signora, o meglio “la Gina” come la chiamavano i suoi fedelissimi, se ogni tanto si abbandona a un canto un poco troppo affine al parlato (ad esempio sulla frase “declamata” cui si accennava prima, ma anche in alcuni passaggi del soliloquio iniziale), sa tuttavia emergere con prepotenza nella parte conclusiva del duetto con il basso, “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta”, in cui la voce si staglia con una potenza e un fulgore di impatto semplicemente sensazionale. Forse propiziata, in questo, dal taglio di una decina di battute verso la fine della sezione lenta del duetto (alla ripetizione delle parole “chi tal conforto mi toglierà?”), che consente alla Cigna di risparmiarsi una salita al si bemolle acuto.
Sempre alla fine del duetto va segnalata la precisione con cui la Caniglia pone in essere le indicazioni di “sforzando” previste lungo tutta la frase “plaudite o cori angelici, mi perdonò il Signor” e il successivo crescendo su “grazie o Signor”: non si tratta di mero virtuosismo, ma di un’efficace espressione della determinazione con cui Leonora cerca di persuadere in primo luogo se stessa di essere finalmente sfuggita ai tormenti della carne e della memoria.
Quanto agli acuti, tallone d’Achille di queste formidabili interpreti, lo scoglio del si naturale attaccato scoperto (e da legare al successivo si centrale) vede i soprani un poco in imbarazzo: la Cigna se la cava con una bordata di suono che evoca immediatamente la principessa Turandot, ma il passaggio all’ottava bassa denuncia lo sforzo con cui il suono immediatamente precedente è stato prodotto, mentre la Caniglia, meno spavalda all’acuto (in cui è tendenzialmente sempre un poco calante, specie sulle note la-si, come alla chiusa del duetto), lega e sfuma con grande proprietà, quasi a compensare l’insufficiente tenuta in alto. Limiti tutto sommato tollerabili, nell’economia di una parte che all’acuto insiste assai poco. E quanto a difficoltà in alto, Youtube fornisce esempi molto più eloquenti a opera di cantanti oggi in carriera e di assidua frequentazione wagneriana, e che pertanto dovrebbero avere una certa dimestichezza con si naturali e anche do.
La “Vergine degli Angeli”, brano ancora una volta eminentemente centrale (costruito in sostanza su un’ottava: sol centrale-sol acuto), esige accento castigato, purezza di suono e imponenza di cavata. Ancora una volta forse è preferibile l’approccio di Maria Caniglia, più controllata e attenta alle indicazioni di legato, ma il timbro luminoso di Gina Cigna, sia pure applicato a suoni un poco aperti e bianchi (retaggio di un’idea verista di innocenza e candore), ha un fascino cui è difficile resistere.
Una parola sui Padri Guardiani: Giacomo Vaghi, basso ufficiale dell’Opera di Roma lungo tutti gli anni Trenta e Quaranta, delinea un frate giovanile, se non giovane, ancora vigoroso ed energico, mentre Tancredi Pasero, dal timbro come sempre pastoso e dall’accento nobile, conferisce al personaggio una sfumatura disillusa e malinconica che ne aumenta la carica umana senza intaccarne la per così dire precoce santità (basti sentire la frase “Più fatal per voi sì giovane giungerebbe il pentimento”). I due interpreti sono accomunati da una voce a dir poco maestosa, immune (per sapienza tecnica, più ancora che per dote naturale) dalle durezze e dalle fissità cui ci hanno abituati interpreti anche assai quotati di questo e altri ruoli di sacerdoti e padri verdiani.
Gustoso il Melitone di Saturno Meletti, personaggio a tutto tondo e non semplice macchietta, cui sembra invece limitarsi il pure assai valido Emilio Ghirardini.
Alla bacchetta, due grandi maestri verdiani (e non solo) da molti tacciati di essere meri routinier. De Fabritiis pensa soprattutto a seguire ed assecondare gli interpreti (Cigna in primis) ma non rinuncia a delineare in orchestra il clima notturno e sospeso della scena, mentre Marinuzzi, che pure sostiene da par suo la Caniglia (e non è da escludersi che la grande attenzione del soprano a quanto previsto dall’autore derivi, almeno in parte, dalle indicazioni del direttore), delinea un quadro molto più acceso e drammatico dell’incipit, in modo da fare risaltare al meglio la solennità del duetto (con la chiusa staccata a tempo maestoso, davvero religioso) e la serenità ultramondana della preghiera conclusiva. Magari la routine fosse sempre così.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
1938 – Gina Cigna (con Giacomo Vaghi & Emilio Ghirardini – dir. Oliviero de Fabritiis – EIAR)
1941 – Maria Caniglia (con Tancredi Pasero & Saturno Meletti – dir. Gino Marinuzzi – EIAR)
Un grazie sentito a Tamburini per l'accurata ed interessantissima disamina proposta, ed un grazie -non minore- a tutti voi per l'idea di festeggiare Verdi, in un modo così "alternativo".
Le due Voci proposte hanno tanti di quei pregi che occorre veramente un notevole senso critico e distacco intellettuale per evidenziare, di esse, le lacune. Riallacciandomi ad una chiacchierata con Donzelli, direi che qualcosa del genere avviene con la Ponselle e la Muzio: entrambe sensazionali -inarrivabili-, al mio gusto, eppure non prive di "difetti" che sono evidenti ad un ascolto critico e nel paragone con cantanti più tecniche
Trovo che questo genere di analisi critica dovrebbe essere lettura di cantanti -giovani e non-. Ma si sa che questo non accade di frequente…
Trovo infine quantomai pertinente l'osservazione sul maestro Marinuzzi, che per quanto riteneva Lauri Volpi, era di gran lunga una delle migliori bacchette per cui egli avesse cantato, sopratutto per quanto riguardava la perizia nel seguire i cantanti e le loro voci (opposto per questo aspetto, sempre nell'opinione di Lauri Volpi, ad un Toscanini).
Attendendo impaziente le vostre perle verdiane…vi saluto caramente,
MB
Sua bontà, caro Battistini! Grazie a Lei e anche a tutti i lettori che stanno scaricando le due signore… semplicemente come dei pazzi! Devono proprio piacervi queste "disperate veriste" 😉
Posso anticipare che la prossima puntata, che spero vi piaccia quanto la prima, vedrà Leonora giungere… oltre Oceano!
Saluti,
AT
"Quello che colpisce, fin dalle prime battute, è la ricchezza del registro grave delle cantanti." Se posso permettermi la libertà, non molto poetica direi, di cambiare la frase "Quello che colpisce OGGI… è la MANCANZA DI ricchezza del registro grave delle cantanti." Sembra che tutte (dal leggero al drammatico) abbiano paura di cantare con la propria voce usandola e sfruttandola con i dovuti appoggi e sostegni nella prima ottava – pare per "salvarla". Invece poi, andando sull'acuto sforzano, non avendo preparato l'appoggio nella prima ottava e nel passaggio di registro, emettendo suoni che assomigliano più a galline strozzate che soprani veri ("dal leggero al drammatico"). Non vedo l'ora di viaggiare insieme a voi oltreoceano.
prima di tutto grazie per l'ascolto di questi due pezzi veri capolavori.Sono tutte due dei grandi soprani,anche se in queste incisioni preferisco la Cigna perchè mi sembra che "interpreti"meglio la parte.Queste incisioni dimostrano anche perchè attualmente è molto difficile mettere insieme un cast per mettere in scena degnamente "la forza del destino". C'è in giro un dvd della "Forza del destino" messo in scena al san Carlo di Napoli nel 1958 con la Tebaldi,Corelli,e Christoff che ha fatto storia,mi sembra che Corelli era al debutto