Il Teatro alla Scala ha proposto ieri sera le Convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti, nell’ambito della stagione lirica e come spettacolo ormai divenuto in autunno tradizione dell’ente milanese come saggio della propria interna accademia.
Lascio ai musicologi i discorsi sul titolo e l’addentrarsi nei meandri delle edizioni di cui una napoletana, in parte in dialetto napoletano del 1828, ed una per Milano del 1831 (in piena carriera milanese del compositore). Mi limito ad osservare che due sono le idee portanti dello spettacolo ossia la berlina che Donizetti, prima come librettista, poi, come musicista, dedica al proprio mondo e la trovata di un ruolo en travesti all’opposto ovvero un uomo in vesti femminili.
La critica tutt’altro che tenera verso il proprio mondo e, credo, ispirata a quel genio assoluto della satira di costume, che risponde al nome di Carlo Porta, era nel sangue e nell’indole lombarda di Donizetti e aggiungo era anche nella sua penna vista l’abilità di Gaetanin quale caricaturista di sé e degli altri, l’idea, invece, di un baritono in vesti femminili pare invece venuta a Donizetti in uno dei periodi neri della sua vita, quando al teatro Carolino di Palermo assistette alla parodia del canto femminile ad opera di Antonio Tamburini, che rifaceva il verso a Marietta Gioja nell’Elisa e Claudio di Mercadante.
Quest’ultimo aspetto dovrebbe essere un faro per chi veste e aiuta ad indossare i panni protagonistici di mamma Agata.
L’aspetto di riflessione principale è, che trattasi di uno spettacolo dell’accademia della Scala ossia dove il massimo teatro milanese mette (o dovrebbe) mettere in vetrina il massimo della propria produzione artistico-vocale patrocinata oggi, dopo la scomparsa di Leyla Gencer, da Mirella Freni e Luciana Serra. Viva Leyla Gencer fu spesso Donizetti uno degli autori prescelti, talora con titoli come Ugo conte di Parigi o Parisina le cui esigenze vocali mal si conciliano con quelle dei prodotti della scuola scaligera.
Per la cronaca negli anni ‘50, quando i cadetti della scala portavano i nomi di Fiorenza Cossotto, Ilva Ligabue, Luigi Alva, era tutto un proporre titoli comici di scuola napoletana.
La scelta di quest’anno, salvaguardato il tradizionale Donizetti, si è indirizzata sull’antica e perduta tradizione.
E siccome si tratta di spettacolo di accademia si potrebbe anche dire splendido allestimento, bravi i ragazzi, cui auguriamo grande carriera perché prescelti ed educati in un grande teatro e da grandi artisti e invece…..
Abbiamo sentito un’orchestra che suonava in maniera greve e pesante. Momento più infelice ouverture dove al suono pesante ed ovattato si coniugava la totale assenza di brio e vivacità. Poi nonostante tutto la levità, l’eleganza di Donizetti soprattutto negli ensemble hanno avuto la meglio, ma motu proprio non certo per mano del direttore (Marco Guidarini) e dell’orchestra. Quanto all’orchestra, sarebbe stata rimpolpata di otto elementi provenienti dall’orchestra Divan del maestro Barenboim.
I giovani vanno soprattutto preparati e formati e poi sostenuti nel momento di andare in scena. Qui abbiamo visto una latitante applicazione di quella che, invece, dovrebbe essere la regola aurea di uno spettacolo d’accademia.
Esemplifico con la seconda donna Luigia (Aurora Tirotta), la sola proveniente dalla scuola della scala, che ha voluto o dovuto evitare di proporre una protagonista femminile provenienze dalle proprie aule di formazione. La parte in sé non esiste e allora per esemplificare la preparazione degli allievi si inserisce per lei un’aria di baule . Si sceglie quella di un’opera di Donizetti posteriore alle inconvenienze ( allora perché non proporre Butterfly?) ossia il finale di Fausta “tu che già voli spirto beato” e alla prima si esegue solo la sezione centrale appunto il “tu che già voli”, omettendo la sezione conclusiva il moderato “No qui morir degg’io” dove la candidata alla prova generale (pubblica!) era maldestramente incespicata esibendo l’assoluta incapacità di salire ad un semplice si bem.
Un siffatto comportamento potrà evitare le reazioni del pubblico, ma né insegna alcun chè alla fanciulla, che nel futuro professionale non potrà mai sperare in tali salvagente e dimostra come i soggetti deputati alle scelte sopravvalutino per certo le capacità dei loro pupilli e forse le proprie come insegnanti. Poi il pubblico scaligero, quello stanziale, e perpetuamente presente, che vuole bene alla Scala perché è la scala che salva da tante noiose serate in casa può anche applaudirla. Rende un cattivo servizio alla propria fama di pubblico serio e competente e soprattutto illude i propri neo beniamini. Maria Callas diceva alla Scala si viene fatti e non da fare
L’esemplificazione delle magagne può andare avanti per esempio con il signor Simon Bailey nel ruolo del marito di prima donna , che sale con fatica, annaspa in una serie (credo quattro) quartine vocalizzate al finale secondo.
Quanto poi a Leonardo Cortellazzi, la cui voce modesta in natura brilla però per proiezione ha affrontato come aria di baule l’aria di Tamino. La scelta è buona perché il tenore dovrebbe essere tedesco. Ma qui devo avanzare qualche dubbio sul fatto che nel 1828 si cantasse quell’aria e la si cantasse in tedesco in un teatro italiano. Sarebbe stato più coerente proporla in un italiano teutonicheggiante, ossia optare per quella che era una vera aria di baule per i tenori contraltini tedeschi ossia il “Viens gentille dame” ossia ”Komm o holde Dame” della Dame Blanche di Boieldieu.
Certo l’aria è acuta, richiede un sapiente uso del falsettone e ho il dubbio da un paio di attacchi che la salita o il cantare in zona acutissima non sia oggi agevolissimo per Leonardo Cortellazzi. Ma è solo un dubbio.
I due ruoli protagonistici.
Un uomo di elevata statura, corpulento, come Vincenzo Taormina, in abiti muliebri è già di per sé stesso ridicolo e comico anche se non ammorba lo spettacolo con la filiata o consimili facezie. Per chi non lo sapesse la filiata era la simulazione del parto, massima manifestazione della femminilità, che i gay napolateni solevano recitare per esplicitare la propria reale natura oltre l’anagrafe. Esemplare quella a suo tempo proposta in televisione da Leopoldo Mastelloni. Venendo al canto: la storia narra che Rossini amasse esibirsi in pubblico cantando la canzone del salice di Desdemona in falsettone, Antonio Tamburini, nell’Elisa e Claudio ricorreva a quest’emissione, che era elegante ed astratta per suscitare l’ilarità del pubblico. Il ridicolo sta nella parodia del testo non nei versi inseriti dall’esecutore in luogo del canto, la parodia sta nel calare, crescere, esibire i difetti del cantante. E questo se il cantante non lo sa tocca a chi li forma ed indirizza spiegarlo ed insegnarlo.
Analoga carenza di regia musicale e vocale è emersa con la protagonista femminile Jessica Pratt. La parte di Daria qui (Corilla in altre versione) è molto centrale, d’altra parte gli esecutori del teatro buffo, salvo poche eccezioni, non erano cantanti di fama e di qualità eccelse. La scrittura vocale deve essere intesa come il canovaccio dove agire, se la prescelta non ha nella zona di scrittura quella più felice della propria voce, con trasporti e aggiusti (del puntare ne parla pure il testo poetico). Ed invece qui nessuno ha provveduto a puntare, alzare accomodare con il risultato che la cantante era ben diversa da quella che abbiamo ammirato Elvira dei Puritani e Lucia di Lammermoor. Poi Jessica Pratt ne ha messo del proprio, perché una cantante delle sue qualità e possibilità arriva con la parte perfettamente trasportata, aggiustata, studiata e sistemata e se qualcuno, pianista, direttore, insegnante dell’accademia consiglia, impone o altro si saluta cordialmente sull’esempio di tante colleghe, oggi pensionate, ma esemplari anche sotto questo profilo: riporre gli occhiali, chiudere lo spartito, salutare il maestro.
Lascio ai musicologi i discorsi sul titolo e l’addentrarsi nei meandri delle edizioni di cui una napoletana, in parte in dialetto napoletano del 1828, ed una per Milano del 1831 (in piena carriera milanese del compositore). Mi limito ad osservare che due sono le idee portanti dello spettacolo ossia la berlina che Donizetti, prima come librettista, poi, come musicista, dedica al proprio mondo e la trovata di un ruolo en travesti all’opposto ovvero un uomo in vesti femminili.
La critica tutt’altro che tenera verso il proprio mondo e, credo, ispirata a quel genio assoluto della satira di costume, che risponde al nome di Carlo Porta, era nel sangue e nell’indole lombarda di Donizetti e aggiungo era anche nella sua penna vista l’abilità di Gaetanin quale caricaturista di sé e degli altri, l’idea, invece, di un baritono in vesti femminili pare invece venuta a Donizetti in uno dei periodi neri della sua vita, quando al teatro Carolino di Palermo assistette alla parodia del canto femminile ad opera di Antonio Tamburini, che rifaceva il verso a Marietta Gioja nell’Elisa e Claudio di Mercadante.
Quest’ultimo aspetto dovrebbe essere un faro per chi veste e aiuta ad indossare i panni protagonistici di mamma Agata.
L’aspetto di riflessione principale è, che trattasi di uno spettacolo dell’accademia della Scala ossia dove il massimo teatro milanese mette (o dovrebbe) mettere in vetrina il massimo della propria produzione artistico-vocale patrocinata oggi, dopo la scomparsa di Leyla Gencer, da Mirella Freni e Luciana Serra. Viva Leyla Gencer fu spesso Donizetti uno degli autori prescelti, talora con titoli come Ugo conte di Parigi o Parisina le cui esigenze vocali mal si conciliano con quelle dei prodotti della scuola scaligera.
Per la cronaca negli anni ‘50, quando i cadetti della scala portavano i nomi di Fiorenza Cossotto, Ilva Ligabue, Luigi Alva, era tutto un proporre titoli comici di scuola napoletana.
La scelta di quest’anno, salvaguardato il tradizionale Donizetti, si è indirizzata sull’antica e perduta tradizione.
E siccome si tratta di spettacolo di accademia si potrebbe anche dire splendido allestimento, bravi i ragazzi, cui auguriamo grande carriera perché prescelti ed educati in un grande teatro e da grandi artisti e invece…..
Abbiamo sentito un’orchestra che suonava in maniera greve e pesante. Momento più infelice ouverture dove al suono pesante ed ovattato si coniugava la totale assenza di brio e vivacità. Poi nonostante tutto la levità, l’eleganza di Donizetti soprattutto negli ensemble hanno avuto la meglio, ma motu proprio non certo per mano del direttore (Marco Guidarini) e dell’orchestra. Quanto all’orchestra, sarebbe stata rimpolpata di otto elementi provenienti dall’orchestra Divan del maestro Barenboim.
I giovani vanno soprattutto preparati e formati e poi sostenuti nel momento di andare in scena. Qui abbiamo visto una latitante applicazione di quella che, invece, dovrebbe essere la regola aurea di uno spettacolo d’accademia.
Esemplifico con la seconda donna Luigia (Aurora Tirotta), la sola proveniente dalla scuola della scala, che ha voluto o dovuto evitare di proporre una protagonista femminile provenienze dalle proprie aule di formazione. La parte in sé non esiste e allora per esemplificare la preparazione degli allievi si inserisce per lei un’aria di baule . Si sceglie quella di un’opera di Donizetti posteriore alle inconvenienze ( allora perché non proporre Butterfly?) ossia il finale di Fausta “tu che già voli spirto beato” e alla prima si esegue solo la sezione centrale appunto il “tu che già voli”, omettendo la sezione conclusiva il moderato “No qui morir degg’io” dove la candidata alla prova generale (pubblica!) era maldestramente incespicata esibendo l’assoluta incapacità di salire ad un semplice si bem.
Un siffatto comportamento potrà evitare le reazioni del pubblico, ma né insegna alcun chè alla fanciulla, che nel futuro professionale non potrà mai sperare in tali salvagente e dimostra come i soggetti deputati alle scelte sopravvalutino per certo le capacità dei loro pupilli e forse le proprie come insegnanti. Poi il pubblico scaligero, quello stanziale, e perpetuamente presente, che vuole bene alla Scala perché è la scala che salva da tante noiose serate in casa può anche applaudirla. Rende un cattivo servizio alla propria fama di pubblico serio e competente e soprattutto illude i propri neo beniamini. Maria Callas diceva alla Scala si viene fatti e non da fare
L’esemplificazione delle magagne può andare avanti per esempio con il signor Simon Bailey nel ruolo del marito di prima donna , che sale con fatica, annaspa in una serie (credo quattro) quartine vocalizzate al finale secondo.
Quanto poi a Leonardo Cortellazzi, la cui voce modesta in natura brilla però per proiezione ha affrontato come aria di baule l’aria di Tamino. La scelta è buona perché il tenore dovrebbe essere tedesco. Ma qui devo avanzare qualche dubbio sul fatto che nel 1828 si cantasse quell’aria e la si cantasse in tedesco in un teatro italiano. Sarebbe stato più coerente proporla in un italiano teutonicheggiante, ossia optare per quella che era una vera aria di baule per i tenori contraltini tedeschi ossia il “Viens gentille dame” ossia ”Komm o holde Dame” della Dame Blanche di Boieldieu.
Certo l’aria è acuta, richiede un sapiente uso del falsettone e ho il dubbio da un paio di attacchi che la salita o il cantare in zona acutissima non sia oggi agevolissimo per Leonardo Cortellazzi. Ma è solo un dubbio.
I due ruoli protagonistici.
Un uomo di elevata statura, corpulento, come Vincenzo Taormina, in abiti muliebri è già di per sé stesso ridicolo e comico anche se non ammorba lo spettacolo con la filiata o consimili facezie. Per chi non lo sapesse la filiata era la simulazione del parto, massima manifestazione della femminilità, che i gay napolateni solevano recitare per esplicitare la propria reale natura oltre l’anagrafe. Esemplare quella a suo tempo proposta in televisione da Leopoldo Mastelloni. Venendo al canto: la storia narra che Rossini amasse esibirsi in pubblico cantando la canzone del salice di Desdemona in falsettone, Antonio Tamburini, nell’Elisa e Claudio ricorreva a quest’emissione, che era elegante ed astratta per suscitare l’ilarità del pubblico. Il ridicolo sta nella parodia del testo non nei versi inseriti dall’esecutore in luogo del canto, la parodia sta nel calare, crescere, esibire i difetti del cantante. E questo se il cantante non lo sa tocca a chi li forma ed indirizza spiegarlo ed insegnarlo.
Analoga carenza di regia musicale e vocale è emersa con la protagonista femminile Jessica Pratt. La parte di Daria qui (Corilla in altre versione) è molto centrale, d’altra parte gli esecutori del teatro buffo, salvo poche eccezioni, non erano cantanti di fama e di qualità eccelse. La scrittura vocale deve essere intesa come il canovaccio dove agire, se la prescelta non ha nella zona di scrittura quella più felice della propria voce, con trasporti e aggiusti (del puntare ne parla pure il testo poetico). Ed invece qui nessuno ha provveduto a puntare, alzare accomodare con il risultato che la cantante era ben diversa da quella che abbiamo ammirato Elvira dei Puritani e Lucia di Lammermoor. Poi Jessica Pratt ne ha messo del proprio, perché una cantante delle sue qualità e possibilità arriva con la parte perfettamente trasportata, aggiustata, studiata e sistemata e se qualcuno, pianista, direttore, insegnante dell’accademia consiglia, impone o altro si saluta cordialmente sull’esempio di tante colleghe, oggi pensionate, ma esemplari anche sotto questo profilo: riporre gli occhiali, chiudere lo spartito, salutare il maestro.
Fermo restando che la sonorità del centro, esibita nella Lucia fiorentina e nei Puritani di Toulon (e gli audio la documentano, se qualcuno avesse dubbi sulle nostre capacità uditive), sembra essersi persa per la strada. Mistero. Ma si sa che: Il cervello dei cantanti è formato di tal pasta, che un astrologo non basta com’è fatto ad indagar!!!
Mi spiace per la Pratt che sentita in Lucia a Firenze mi era molto piaciuta (molto pià dei Puritani di Bergamo)! Ieri sera ho ascoltato la diretta su sky e avevo notato qualcosa di diverso ma lo avevo attribuito alla ripresa audio.
Speriamo sia solo un momento no…
Non per fare il polemico, ma non che ne I puritani e in Lucia il registro centrale non sia sfruttato..anzi! A me viene solo da pensare che la voce della signorina Pratt non sia adatta per un teatro così grande come quello della Scala. Magari dovrebbe solo rimettersi a studiare per risistemare quel registro, speriamo sia davvero solo un momento no!
Beh, non è che un teatro come il Comunale di Firenze aiuti (sentita lì in Lucia), tutt'altro. Eppure non aveva evidenziato problemi di questo genere.
Boh, allora forse è solo ora di rimettersi a studiare e smettere di cantare così tanto in giro! Ogni tanto va fatto..specialmente quando si avvertono questi problemi..questo se uno ha la coscienza di quello che sta succedendo!
Adesso però non vorrei che passasse l'idea che la signora si sia coperta di vergogna con la sua prova. Anche perché la recensione dice tutt'altro. Semplicemente, la Pratt non ha impressionato, è apparsa corretta, precisa, ma poco ispirata e forse motivata, di certo non brillante. Il che, venendo da una come lei, è una bella delusione. Mi auguro anch'io che possa prendersi una pausa e sistemare i suoi problemi, perché la Scala merita di sentire la Pratt al massimo della forma.
Ah io avevo capito diversamente viste le parole: "Fermo restando che la sonorità del centro, esibita nella Lucia fiorentina e nei Puritani di Toulon (e gli audio la documentano, se qualcuno avesse dubbi sulle nostre capacità uditive), SEMBRA ESSERSI PERSA PER STRADA. "
La prima volta che sentii la Pratt nella Lucia dell'Aslico (ottobre di due anni fa) la differenza di volume fra centro e sovracuti era forte. Nelle ultime prove questa disparità era diminuita, nel senso che il centro si era irrobustito a dovere. Queste Convenienze mi sembrano un po' un passo indietro in questo senso. Non so, magari pretendo troppo da questa cantante… ma il fatto è che vale, e molto, e sa fare meglio di come ha cantato domenica.
Ho visto le due compagnie.
La seconda – meglio stendere il giusto velo pietoso.
La prima… tante parole su Pratt. Era semplicemente non all'altezza né vocalmente né scenicamente. Non l'ho ascoltata in altre occasioni. So solo quello che ho sentito (…o NON sentito) in teatro.
Per quanto riguarda il tenore Cortellazzi. devo dire che la sua bravura scenica mette un'ombra su tutti gli altri. Vocalmente ho seguito la sua carriera 'scaligera' e si sentono sempre progressi. Buon per lui! Che continui per la sua strada. Sua voce si proietta bene in teatro (ed è qella la cosa importante) e se avesse avuto un direttore d'orchestra meno 'zombi' (nel senso morto vivente)io credo che avrebbe potuto affrontare le difficoltà dell'aria da baule con più bravura. Sono anch'io d'accordo, però, che la scelta poteva essere più interessante. Direzione Artistica del teatro? Dell'Accademia? Mah…
Per il resto, incluso (o forse dovrei dire soprattutto) la regia, "Taccio, taccio. Più nulla". Parlar di Accademia senza la Gencer sono costretto ripetere le stesse parole dette sopra. Dovrebbero cercare tra i meno famosi VERI insegnanti di tecnica di canto perché qui… Ah, scusate. "Taccio, taccio. Più nulla"!
per la Pratt posso dire solo questo,lasciate che segua la sua strada senza incensarla,e senza cominciare con le critiche,e il tempo che dirà il valore di questa cantante,le premesse ci sono,e le ha dimostrate,quindi che vadi avanti,e faccia vedere le sue capacità.
@scattare: Veramente a mettere scenicamente in ombra tutti gli altri, anche fuor di metafora, è stato Taormina. Molto meno dal punto di vista vocale. Quanto a Cortellazzi, non canta male e la voce è abbastanza sonora, ma dovrebbe sistemare il passaggio.
@pasquale: lodare un cantante quando canta bene non significa incensare, così come muovere una critica non equivale a distruggere. per quello esiste Facebook.
@ Tamburini… Personalmente non mi piace quello che la regia ha chiesto a Taormina fare perchè non ha valorizzato il personaggio. Fare l'imitazione di una Platinette è facile, capire la scuola napoletana del travestimento e metterlo in atto è certamente un'altra. Il regista, soprattutto in queste cose "studentesche" dovrebbe aiutare i giovani (e meno giovani) capire. Come tutte le cose dovrebbe essere un esperienza che serve imparare qualcosa. Quì, sempre secondo me, il regista non ha fatto il suo dovere e ha lasciato scorrere soluzioni ovvie.
Se lo scopo fosse stato riproporre in chiave filologica la scuola del travestimento partenopeo, e fermo restando il livello del canto, il teatro avrebbe fatto meglio a scritturare Peppe Barra o Pino Daniele.
O magari, osando un travesti al quadrato, Maria Dragoni o Giovanna Casolla (in quest'ultimo caso il livello del canto si sarebbe innalzato, per inciso).
Bravo Tamburini!!!
Caro Scattare,
ho visto lo spettacolo nella diretta televisiva e devo dire che ho trovato la regia di Albanese del tutto gradevole e ben fatta, soprattutto oggi come oggi in cui è difficile trovare registi capace di fare dell'ironia sobria rispettando l'opera e il compositore.
Magari mancava quel tocco di vivacità ed ironia che erano presenti negli spettacoli di Ponnelle o per esempio nel Turco in Italia di Beverly Sills. Ma certo in quest'ultimo caso si trattava anche e soprattutto di un'Artista eccezionale capace sempre di dire qualcosa di nuovo, senza necessità di strafare.
Probabilmente per alcuni ruoli manca la consapevolezza della possibilità di fare dell'ironia con sobrietà, senza la necessità di strafare…e in personaggi come Mamma Agata la tentazione di lasciarsi finire alla brutta parodia risulta in genere piuttosto facile (posto che in generale ho trovato Taormina meglio di tanti odierni colleghi).
Signor Donzelli, una piccola precisazione filologica: il libretto delle Convenienze non è di Donizetti, ma di Gilardoni (cf. F. Dorsi – G. Rausa, Storia dell'opera italiana, Mondadori, 2000, p. 304).
In realtà non è sicuro che il libretto sia di Domenico Gilardoni. L'attribuzione nasce da una copia del libretto, preparata per la Censura napoletana e firmata da Gilardoni, che potrebbe essersi prestato come firmatario "di comodo" a fini burocratici. E' anche possibile che poeta e compositore abbiano collaborato alla stesura del testo, ma mancano certezze al riguardo.
Anche William Ashbrook – massimo studioso della vita e delle opere di Donizetti – attribuisce il libretto allo stesso compositore.
@Tamburini: grazie dell'informazione, prendo nota.
@Duprez: anche della prima versione con parti in napoletano? E' vero che Donizetti rimaneggiava a suo piacimento i libretti (si pensi al Don Pasquale)e anche che era capace di fare versi più o meno corretti… Io non escluderei che abbia tradotto arrangiato il libretto, ma scriverlo lui stesso… Scrivo ovviamente a braccio, e Le sarei molto grato se mi potesse indicare il riferimento bibliografico completo, per rimediare la mia ignoranza. Grazie in anticipo!
Caro Ramon, il riferimento bibliografico è l'opera di William Ashbrook "Donizetti" in 2 volumi (La vita – Le opere). Ashbrook è forse la massima autorità in campo donizettiano (purtroppo è recentemente scomparso – proprio quest'anno). Il libretto viene attribuito sempre Donizetti, sia nella prima redazione "napoletana" del 1827 (ma in napoletano si esprimeva la sola Mamma Agata), sia nella versione riveduta del 1831. Donizetti era uomo dotato di grande senso dell'umorismo e si divertiva a scrivere versi. Donizetti, poi, visse per molto tempo a Napoli (e concorse al costo di direttore del regio conservatorio), non stupisce che conoscesse il dialetto. Tuttavia alcuni dubbi circa la paternità del testo permangono in parte: Andres Wiklund (autore della revisione critica dell'opera) parla di una copia del libretto della seconda edizione dell'opera, sottoposta nel 1831 all'autorizzazione della censura, attribuito a Domenico Gilardoni. Si può pensare, dunque che Donizetti avesse scritto il primo testo e Gilardoni l'ampliamento del '31.
Caro Duprez, grazie della tua dotta ed esauriente risposta; è tutto molto verisimile. Mi sbagliavo!