Rolando Villazón – Händel

Nel 2009 si celebrano i duecento cinquant’anni dalla morte di Haendel. La Deutsche Grammophon ne approfitta per distribuire il primo recital haendeliano di Rolando Villazón, tenore ultimamente più celebre per le sue vicende cliniche, che per quelle sceniche.

Già il fatto di proporre un disco di arie haendeliane pensate o riscritte alla bisogna per tenore, la dice lunga sulla natura, scopo e valore dell’operazione. Mai Haendel, o alcuno dei compositori a lui contemporanei, concepì un’opera in prima istanza per un tenore, e se lo fece, ciò fu determinato dall’insormontabile assenza di un primo uomo (evirato) o di una prima donna all’altezza. Del resto, l’opera seria del primo Settecento di ambito non francese non contemplava il tenore nei ruoli di eroe o amoroso (ruoli di assoluta competenza del castrato, o delle donne in seconda istanza) e assegnava alla voce virile le parti di padre, tiranno e antagonista in genere.
Di fatto, dei dieci brani proposti nel disco, solo cinque sono stati scritti per una voce maschile, e tre di questi, nello specifico, per quella di Francesco Borosini, primo Bajazet del Tamerlano e Grimoaldo della Rodelinda, che fu, con Annibale Pio Fabri (di voce più acuta e più spiccata propensione per la coloratura vorticosa), uno dei pochi tenori di vaglia che si esibirono al King’s Theatre. Altre due arie provengono dall’oratorio giovanile La Resurrezione, scritto per Roma. L’altra metà del disco è costituita da brani tratti da opere scritte per castrato: Serse (primo interprete Gaetano Majorano detto Caffarelli) e Ariodante (creatore Giovanni Carestini). Risulta curioso che Villazón e il filologo Paul McCreesh, posto alla direzione del suo filologico complesso Gabrieli Players, non abbiano pensato di recuperare le arie di Sesto del Giulio Cesare, scritte per Margherita Durastanti, che lo stesso Haendel risistemò per Borosini in vista di una ripresa del titolo.
Non scandalizza che un tenore si appropri di arie composte per voci d’altro genere. In fondo “Ombra mai fu” è brano compreso nel repertorio di grandissimi tenori. Semmai lascia perplessi che una simile operazione possa avvenire nell’ambito di un’esecuzione, per giunta discografica, connotata dai crismi della filologia. Non ultimo l’utilizzo di quelli che usano definirsi “period instruments”. Certo occorre vedere quali sono gli esiti dell’operazione, ché solo quelli distinguono l’azzardo puro e semplice (che a volte si rivela assai poco puro e assai poco semplice) dalla scommessa riuscita.

Il disco si apre con la seconda aria di Bajazet, “Ciel e terra armi di sdegno”. La tessitura assai bassa del brano mette in evidenza la povertà della prima ottava di Villazón, conseguenza di una voce che ignora che cosa sia la maschera e quali benefici possano derivarne al canto lirico. L’esecuzione della coloratura, vedi le quartine su “sarò forte”, è molto imprecisa nella scansione ritmica, e gli ampi intervalli su “terra armi di sdegno, morrò invitto” sono risolti con suoni malfermi quanto veementi. Parche e caute variazioni del da capo (una costante in tutto il disco, al pari del mancato inserimento di cadenze alla fine di ogni sezione delle arie tripartite e in corrispondenza dei punti coronati, ignorati in media due volte su tre). L’ardore con cui il tenore aggredisce la scrittura haendeliana non lo aiuta a risolverne le insidie, e al tempo stesso riduce il sovrano prigioniero, figura nobile e tragica, a una sorta di ossesso con la bava alla bocca. Un simile approccio non mancherà di trovare estimatori, anche in ragione della “generosità” dimostrata dall’interprete. Noi restiamo dell’idea che si possa esprimere dolore, indignazione e orgoglio offeso anche senza digrignare i denti.
L’aggressività, con annessi sconfinamenti nel parlato più o meno intonato, è il segno distintivo anche del recitativo che introduce l’aria del sonno di Grimoaldo, “Pastorello d’un povero armento”. Il cantabile, di scrittura spianata e centralissima, evidenzia il bel timbro di Villazón, ma anche la tendenza a stimbrare i suoni nel tentativo di cantare piano e legato. Il meccanico accompagnamento di McCreesh (che segnerà anche altre pagine del disco, non ultima la sublime “Scherza infida”) priva la pagina del sapore arcadico e melanconico che le spetterebbe di diritto.
Alle prese con Serse, sovrano da opera seria ma con tratti e inflessioni che rimandano al repertorio di mezzo carattere e caratterizzato da una scrittura che, seppure virtuosistica, non raggiunge certo i vertici di ruoli come Rinaldo e Giulio Cesare, il buon Rolando dimostra ancora una volta la difficoltà a gestire una voce in natura anche valida (almeno sotto il profilo timbrico) ma tecnicamente sgangherata e, più ancora, un’estraneità totale al repertorio affrontato, in termini di gusto. Intendiamoci, non ci sono almeno in queste pagine le urla della recente Bohème cinematografica, ma il sussiego e l’eleganza indolente del tiranno persiano rimangono sulla carta, così come i trilli previsti in “Più che penso alle fiamme del core”. Zoppicante ancora una volta la coloratura di “Crude Furie degl’orridi abissi”, mentre “Ombra mai fu” evidenzia suoni strozzati e singhiozzanti in zona di passaggio (mi-fa#).
Gli assoli di Ariodante ripropongono i problemi sia nel canto spianato sia in quello di coloratura. A ciò vanno aggiunti, nella sezione centrale di “Scherza infida”, effetti di stampo paraverista (“l’indegno laccio”) che dovrebbero rendere lo sdegno e la disperazione del personaggio. Ma non ci sentiamo di farne una colpa a Villazón, che in questo ha evidentemente avuto per maestri e modelli i più accreditati interpreti haendeliani dei nostri giorni, in primis Joyce DiDonato (vedi l’album “Furore”).
Ma dove l’imitazione dello stile da Cavalleria sulla piazza del mercato tocca il suo apice è nella scena della morte di Bajazet (impreziosita dai comprimari vocali, che citiamo perché raramente abbiamo sentito, almeno in un recital inciso in studio, voci tanto microbiche e male impostate: Jean Gadoullet e Rebecca Bottone). I rantolii, i suoni strozzati e i sibili non si contano, in un’imitazione naturalistica della morte per avvelenamento, indubbiamente efficace, ma poco plausibile se applicata a un’opera seria settecentesca. Se non altro perché tali soluzioni sonore contrastano con l’essenzialità e la purezza assoluta della cantilena “Figlia mia non pianger no”, nonché con la sdegnosa alterigia che nel corso di tutta l’opera caratterizza la figura dello sconfitto imperatore turco. Si potrebbe obiettare che una recitazione caricata, per non dire gigionesca e magari anche grandguignolesca ante litteram, non era estranea alla pratica teatrale del tempo, così come descritta dalle cronache. A questo potremmo rispondere che, sempre per imitare e riproporre filologicamente gli usi e i costumi teatrali del tempo, gli interpreti odierni dovrebbero ostacolarsi a vicenda, ingiuriarsi e magari schiaffeggiarsi ad libitum nel corso della rappresentazione. E che comunque certi eccessi, nella resa teatrale dei personaggi, erano per il solito compensati da una resa vocale all’altezza dell’ispirazione haendeliana. Resa vocale che, nel caso di Villazón, ci pare assai punitiva. Per non dire di peggio.
Quanto alle arie de La Resurrezione, oratorio a suo tempo giudicato scandaloso per l’impianto schiettamente operistico della narrazione e la marcata sensualità delle melodie (oltre che per la presenza, limitatamente alla première, di cantatrici, alle quali per pontificio decreto si vietava di esibirsi in pubblico), registriamo un’esecuzione priva di pathos e abbandono. “Così la tortorella”, brano che insiste sul passaggio con diversi attacchi su fa e sol, dimostra ancora una volta la difficoltà dell’interprete a cantare in questa zona senza compromettere la tenuta della linea vocale. Molto dubbi i tentativi di trillo che nel da capo dovrebbero fungere da opportuna, anzi necessaria, variazione in secondo enunciato. “Caro figlio” è risolta con una maggiore pulizia complessiva, benché nella prima parte dell’aria gli intervalli di sesta alle parole “figlio caro amato Dio” siano eseguiti con voce tutta fuori di sesto, mentre nella sezione successiva gli attacchi in zona di passaggio e il fa tenuto di “e se lento” confermano che per cantare a fior di labbro, come Villazón lodevolmente si sforza di fare, occorre una tecnica saldissima, se non si vuole che l’orecchio del pubblico percepisca, per l’appunto, solamente lo sforzo.

Certo, dopo avere ascoltato il disco “Bel Canto” di Elina Garanca, viene da aggiungere alle precedenti considerazioni che, se non altro, il simpatico Rolando non annoia mai, cerca quasi sempre di rispettare il carattere del testo (letterario, se non musicale) e non fa dormire… Ma che si tratti di un buon disco, è cosa che nemmeno i più accaniti sostenitori del divo messicano possono affermare senza arrossirne. E non solo a causa della scarsa aderenza stilistica, ma perché con siffatti problemi tecnici non si incidono dischi per un’importante etichetta discografica, bensì si medita su come salvare quello che resta della voce e della carriera.

Gli ascolti

Haendel

Tamerlano

Atto I

Ciel e terra armi di sdegnoBruce Ford (2005)

Rodelinda

Atto III

Fatto inferno è il mio petto…Pastorello d’un povero armentoPhilip Langridge (1983)

Serse

Atto I

Frondi tenere…Ombra mai fuBeniamino Gigli (1955), Fritz Wunderlich (1962)

Più che penso alle fiamme del coreFritz Wunderlich (1962)

Atto III

Crude Furie degl’orridi abissiFritz Wunderlich (1962)

Tamerlano

Atto III

O per me lieto, avventuroso giorno…Figlia mia, non pianger, noBruce Ford (2005)

5 pensieri su “Rolando Villazón – Händel

  1. fare omaggio a Haendel con Villazon è una contraddizione in termini a mio modo di vedere…. e i sedicenti filologi come McCreesh sono quelli che velocizzano la passione secondo Matteo di Bach fino a farla durare poco più di due ore, martirizzando ogni pathos e abbandono sacrale…. gente che non sà cosa sia il canto e quali siano le sue necessità espressive (vedi le famose cantate dirette da McCreesh), difficilmente trova soluzioni migliori in un recital.

  2. Si può arrossire anche a credere che una importante etichetta discografica faccia incidere "dischi" con siffatti problemi tecnici. Povero BUON Rolando, che non è il solito solenne tenorone da pizzetto e senza sorriso apprezzato dalla critica.

  3. Se e quanto un cantante sorrida, a noi non interessa. Ci interessa solo come canta. Male, nel caso di Rolandito.

    Sarebbe anche bello leggere, ogni tanto, qualche argomento, e non solo reazioni di sdegno uterino.

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