L’evento musicale è stato accompagnato da svariate interviste al Maestro, certo affascinato da quest’opera, nella quale ha affermato di ritrovare certe ascendenze di Cherubini, Spontini e Gluck, sue antiche passioni.
L’ascolto dell’audio è di grandissima suggestione, soprattutto in alcune pagine consone all’indole di Muti: lo hanno assecondato in ogni intento un coro (Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor) ed un’orchestra eccezionali (Wiener Philharmoniker) nella loro perfezione esecutiva, tocco, colore.
I punti di forza di questa direzione, a parte l’ouverture, sono stati le grandi scene corali o gli ensemble, come l’inizio dell’atto II ( la cosiddetta scena delle Tenebre ), la successiva grande preghiera di Moise, “Ô toi dont la clémence”, oppure quella al IV atto, “Des cieux où tu résides ”, o il finale dell’opera, con la cavalcata dei cavalieri egiziani travolti dalle onde del Mar Rosso.
Muti nulla ha tolto alla solenne monumentalità di queste pagine di Rossini, assecondandone ed amplificandone l’aspetto mistico o descrittivo, ora con tempi larghi e cantabili, ora con grandiosa drammaticità (finale), mentre le arie sono state accompagnate con il vigore tragico di sempre (scena di Sinaïde, scena di Anaï) finalmente prive delle nevrosi e degli scatti furibondi che avevano caratterizzato gli accompagnamenti dell’edizione di Milano.
La concezione che Muti ha di Rossini, però, è ciò che lo limita in altri importanti momenti dell’opera, quelli lirici ed elegiaci in primis. In una visione tragica di ispirazione neoclassica di quest’opera, Muti ha finito per trascurare la vicenda amorosa di Anaï e Aménophis, che non è affatto marginale nell’opera. La vicenda amorosa, a ben vedere, connoterà sempre gli affreschi storici del successivo Grand Opéra di cui Moise costituì un indiscusso modello e non sarà mai situazione drammaturgicamente secondaria all’affresco storico. In questo aspetto invece, Muti ha mancato di languore e di lirismo, rifugiandosi in accompagnamenti meccanici, come nel grande duetto oppure nel momento della fuga degli amanti. La stessa direzione delle danze, momento formalizzato di questo genere di opera, forse ha lasciato a desiderare in fantasia e varietà.
Limite vero di questa produzione, però, è stato il cast vocale, in parte rimaneggiato all’ultimo ma di certo inferiore a quello dell’edizione milanese. Ed il cast in Rossini regge lo spettacolo.
A raggiungere gli effetti voluti da Muti sarebbe stato necessario un basso di voce ben più ampia e di qualità timbrica superiore all’Ildar Abdrazakov di oggi, che ha perso parte di quella morbidezza che avevamo udito a Milano. Il suo canto fatica ad essere solenne, ieratico e sacerdotale come la parte richiede, e non bastano la correttezza e l’accento compassato per dar vita ad un Moise in sintonia con orchestra e coro che gli fanno da straordinario sfondo.
Anche Nicola Alaimo è lontano dall’impressionante Faraone scaligero di Erwin Schrott. Gli fanno difetto slancio e aggressività, mordente e precisione nel canto di agilità, in una linea buona ma inerte, sempre sulla difensiva. Faraone è personaggio negativo, ma personaggio grandioso, a tutto tondo e…a tutta forza, forse lontano dalle corde di questo cantante.
Eric Cutler (Aménophis) non possiede nulla della qualità timbrica e della freschezza esibite dal Filianoti del 2003 a Milano. La voce è perennemente strozzata negli acuti e fibrosa, per modestia tecnica; anche l’esecuzione della coloratura è parsa approssimativa, mentre J.F. Gatell (Eliézer) ha cantato allo stesso modo di quanto udito nel Viaggio a Reims scaligero, cioè modestamente e con voce asfittica.
Nel reparto femminile ha raccolto molti consensi Marina Rebeka, con una prova che in un teatro italiano avrebbe destato, come già nell’Anna Erisso pesarese, parecchie perplessità. Se già aveva sofferto il peso tragico di Anaï una voce lirica come Barbara Frittoli, non poteva non uscirne acciaccata una voce più leggera come la Rebeka, per il semplice motivo che Anaï, al pari della Mathilde del Tell, non è soprano di coloratura. Alla grande scena finale, diretta da Muti anche in modo più pacato di quanto fatto a Milano, il soprano lettone è uscito provato. Non basta una buona punta della voce per gestire questo ruolo, che, per forze di cose, porta un soprano di coloratura a forzare sul centro per reggere il confronto con il robusto orchestrale ed il ritmo incalzante e, per conseguenza, a perdere di fuoco negli acuti, troppo spesso forzati o gridati. Anche il canto di agilità ne ha risentito, con un’esecuzione aspirata ed imprecisa di quanto prescritto da Rossini. Sin dal duetto d’amore col tenore, che prevede un incipit di reale contenuto tragico, il soprano manca del giusto peso vocale che le consenta di essere credibile nell’accento. Una prova ben diversa da quella del recente Viaggio a Reims di Milano e più vicina a quella del Maometto II dell’anno passato, caratterizzata da un senso di approssimazione anche musicale. E queste sono le conseguenze di carriera (di certo felici per lei, un po’ meno per il compositore ed il pubblico) regalate proprio del Festival Rossini, artefice del suo avvallo (e non solo del suo) quale soprano tragico. Ci spiace, perché nei ruoli idonei al suo reale tonnellaggio vocale ed alle sue capacità espressive, la Rebeka sarebbe soprano davvero interessante.
Nino Surguladze, in sostituzione di Sonia Ganassi, non è cantante da belcanto per emissione e preparazione tecnica. Per quanto giunta all’ultimo, è parsa più preparata della collega sul piano musicale, forse perché intimorita dall’arduo compito, ma questo non le è bastato in una sede prestigiosissima quale Salzburg per essere all’altezza del compito. Le hanno fatto difetto, oltre all’emissione, che nel belcanto è primo requisito, gli acuti, troppo gridati, ed il canto di agilità. La sua Faraona, alla fine, è uscita abbastanza estranea agli stilemi espressivi del belcanto.
E dire che la tradizione esecutiva di quest’opera fino agli anni ‘50 fornisce chiari parametri per la corretta scelta delle voci di Anaï e Sinaïde, la prima solitamente affidata a soprani drammatici o quantomeno spinti, la seconda a voci più liriche quando non a mezzosoprani acuti, soluzione che garantiva maggiore adeguatezza alle caratteristiche drammaturgiche e di scrittura vocale dei due ruoli.
Senza infamia e senza lode la Marie di Barbara di Castri, anche se un timbro più morbido nell’attacco della preghiera del IV non avrebbe guastato.
In conclusione, un grande Maestro, con grandi coro ed orchestra, che però da solo non bastano in Rossini.
Gli ascolti
Rossini – Moïse et Pharaon
Atto I
Si je perds celle que j’aime – Eric Cutler & Marina Rebeka (2009)
Atto II
Désastre affreux! – Nicola Alaimo, Nino Surguladze & Eric Cutler (2009)
Moment fatal – Eric Cutler & Nicola Alaimo (2009)
Ah! d’une tendre mère – Nino Surguladze (2009)
Atto IV
Quelle horrible destinée! – Marina Rebeka (2009)
Des cieux où tu résides… Quel bruit!…Que sont-ils devenus! – Ildar Abdrazakov, Juan Francisco Gatell, Barbara Di Castri, Marina Rebeka, Nicola Alaimo & Eric Cutler (2009)
Ma non trovate che Schrott sia sempre carente di tecnica e ingolatissimo?
Ascoltato un paio di giorni fa il nastro di quest'edizione del Moise, non posso che condividere in toto lquesta articolatissima (e istruttiva) recensione.
Quanto al M° Muti, nulla di nuovo. Già il compianto Celletti, occupandosi mi pare di un'edizione discografica del Ballo in Maschera dei primi anni Ottanta, funestato da infelici scelte del cast vocale, ma d'altro canto con pregevoli risultati nella parte orchestrale, aveva consigliato il maestro Muti di farsi approntare una trascrizione per banda dello spartito, e di andarsela a suonare in qualche parco cittadino.
io ho avuto modo di ascoltare Schrott solo in due occasioni, qui a Cagliari… nel 2002 come Ramfis e nel 2005 come Escamillo… molto più congeniale a lui la seconda parte, menter Ramfis, sebbene ben cantata non mi ha fatto molta impressione… ciò che mi indispone di lui è che è sempre molto Scrott e poco personaggio.. sarà una impressione personale, ma… saluti, Maometto II
per tripsi:
favella sul mio labbro la Grisi, momentaneamente sprovvista di connessione Internet… e spero di non tradire il suo pensiero, nel caso domani mi correggerà lei stessa…:
E' vero, Schrott canta generalmente come hai detto tu, ma il Faraone di Milano fu l'eccezione della sua carriera: voce enorme, con belle agilità di forza, e grande presenza scenica. In quel ruolo mostrò il cantante che potrebbe – e purtroppo non vuole – essere. Perché è più facile, e più efficace per la carriera, cantare in modo rozzo Mozart, piuttosto che impegnarsi davvero e mettere magari mano a ruoli tipo Maometto II…
Caro Gabriele,
dopo l'ascolto radiofonico delle orchestre pesaresi, mi pare che la prova salisburghese sia da considerarsi STRATOSFERICA.
Direi il miglior Rossini tragico degli ultimi anni…