Hildegard Behrens, la grande Brünnhilde, e non solo, degli anni ’80 ci ha lasciati pochi giorni fa.
Una notizia che personalmente mi ha fatto rivivere nella mente tutte le fasi del mio rapporto con la sua voce e con la sua arte scenica.
L’ultima sua immagine che ricordo è la foto di un allestimento catanese di ”Walküre” di pochi anni fa, in cui il soprano nei suoi abituali abiti da Brünnhilde trattiene a braccia tese Siegmund che minaccia di colpire con Nothung l’amata sorella addormentata.
E’ una foto che ci regala anche l’espressione solenne e dolcissima di una cantante attrice di grandi fascino e intelligenza, che ha saputo essere di primo livello soprattutto negli anni ’80.
Quella “Walküre” di pochi anni fa rappresentò probabilmente uno degli ultimi appuntamenti teatrali assieme all’immancabile Elektra, a Kostelnicka, a Kundry e a qualche esperimento come Ortrud, di una voce ormai provata da onerosa carriera, ma ancora in grado di conquistare grazie al suo poderoso carisma.
Ed è proprio con l’opera dedicata alla figlia di Wotan che ho fatto la conoscenza dell’artista, grazie al famoso video del Met diretto da James Levine.
Sinceramente questo primo approccio si rivelò tutt’altro che idilliaco.
La voce della Behrens era all’epoca della ripresa molto provata: gravi parlati, vibrato nei centri, acuti aspri e urlati.
Ma a parte tali difetti quello che mi colpì furono la personalità scenica così naturale e l’uso del fraseggio così arroventato e tragico, che fuoriuscivano da questa donna minuta ma fascinosa.
Non sempre mi è piaciuta, non sempre è stata interprete ispirata, non sempre la sua voce nei ruoli affrontati ha dato il meglio, ma quando era nel suo elemento è riuscita a imprimere nella sua interpretazione tutta la sensibilità artistica di cui era dotata.
Non cercherei la miglior Behrens nell’imbarazzante Tosca del Met diretta da Sinopoli o nella sua incarnazione dell’Elettra mozartiana in cui allo squilibrio mentale della protagonista si affiancano squilibri vocali vistosi e ingombranti.
Nemmeno le sue incarnazioni di Elektra di Strauss o della Senta wagneriana, o ancora della pur pregevole Leonore di Beethoven mi hanno convinto, preferendole le voci di Eva Marton o di Gwyneth Jones… eppure, cos’è che aveva questa sorta di Janis Joplin dell’Opera che ammaliava le platee più importanti con la sua voce abrasiva, dal timbro chiaro quasi infantile, ma terribilmente tragico e umano?
Proprio in questo risiedeva il segreto della sua voce, proprio questo faceva di lei una grande artista.
Voglio ricordarla anche ai lettori che passano da queste parti evocando i ruoli con cui più l’ho identificata.
BRUNNHILDE (Ring des Nibelungen)
No, non mi riferisco alle recite del Met o a quelle di Monaco dirette da Levine e Sawallisch.
Quei video ci regalano una splendida performance attoriale, vocalmente sono recite di sicuro interesse, ma putroppo la Behrens non era in gran forma e di lei possiamo apprezzare la forza del fraseggio e la potenza drammatica del suo canto, ma è una voce che mostra più di una crepa.
Mi sto riferendo alle recite dell’estate 1983 che la consacrarono Brünnhilde di riferimento.
Siamo a Bayreuth, Solti debutta e scappa dal podio della verde collina, in scena uno spettacolo “disneyano” di Peter Hall che darà molti grattacapi a Wolfgang Wagner ed una compagnia canora tutt’altro che ineccepibile.
Ma quelle recite videro brillare la nuova Brünnhilde di un soprano al suo esordio nel ruolo, voluta fortemente da Solti.
Hildegard Behrens trionfò.
Voce da Sieglinde si disse, ma la sua Brünnhilde è una creazione assolutamente fresca e brillante.
La voce risuonava ricca di femminilità e tenerezza nell’espandersi con quel timbro così chiaro e limpido, ma dall’accento così arroventato e cangiante.
Per la prima volta, forse, il Festspielhaus aveva una Walkiria più adolescente che guerriera, una giovane donna sensibile e sensuale che sapeva trovare inflessioni commosse e malinconiche, che sapeva confondersi e rendere incandescente il suo canto, che sapeva trasmettere amore con la dolcezza di una bambina.
Da ascoltare il suo vibrante risveglio così luminoso e sensuale oppure l’olocausto così esausto e toccante, ma imbevuto di una sacralità umanissima.
Una principessa inquieta, giovanissima, ma già profondamente donna e ferita dall’offesa arrecatole dall’uomo che ama, poi piena dell’ansia di colei che aspetta il suo Tristan per concedere corpo e cuore e infine angelo di luce e tenebre che trasfigura la sua anima e quella del suo amante.
La voce iniziava a dare qualche segno di cedimento nella linea, gli acuti iniziavano a perdere la precisione, il grave incominciava ad aprirsi troppo, eppure il canto è davvero sempre regale e carnale. Questa la visione che ci offre la Behrens dell’eroina wagneriana assecondata dalla bacchetta di Bernstein.
ELISABETH (Tannhäuser)
In questo ruolo, che è più di una curiosità, la Behrens si riappropria della sua dimensione lirica e si lascia trasportare dalla delicatezza virginale dell’eroina wagneriana.
Anche in questo caso una fanciulla adolescente, ma decisa eppure inafferrabile come Mélisande, a cui il soprano dona il suo timbro caldo e lucente.
Basta ascoltare l’ intervento che Elisabeth compie per difendere Tannhäuser, in cui all’acciaio dell’accento si unisce una voce limpida e leggera.
SALOME (Salome)
Che cosa c’entra l’immensa Franca Valeri con la Behrens e con Salome?
Se è colei che con la sua comicità colta e geniale vi ha fatto conoscere questa incarnazione della Behrens c’entra eccome!
Qualche anno fa, Radio 3, “Di tanti palpiti”, trasmissione condotta dalla grande attrice.
La Valeri analizzava un’opera a settimana con il suo stile dissacrante e quella mattina toccò a “Salome”, affiancando l’edizione di Karajan a quella con la Caballé.
Sia la Behrens che la Caballé furono per me una rivelazione.
Se volete la “teenager scatenata” (parole della Valeri) con la voce di Isotta, ascoltatevi quella della Behrens.
Ce n’è per tutti: il timbro chiaro al pari di una Welitsch o di una Studer, l’erotismo decadente di Wilde, la sensualità malata e acerba della Lolita di Kubrick, l’interprete ammaliante che si lancia nei vortici vocali dell’eroina straussiana con spavalda incoscienza e incanta con le sue arti l’ascoltatore.
MARIE (Wozzeck)
Quando entra in scena il personaggio di Marie, la Behrens riesce con pochi gesti ed una mimica naturalissima a renderla facilmente identificabile con una donna qualunque, banale, non diversa dalle donne che incontriamo tutti i giorni e non lontana da noi.
Attraverso un fraseggio capace di evocare un erotismo sfatto e con una vocalità aspra e terribilmente espressiva, la Behrens trasmette direttamente sulla pelle la sete di desiderio e riscatto che pervade questa creatura colpevole di voler essere solo se stessa e sfuggire dall’orrore quotidiano.
Vertice la scena dello specchio oppure la preghiera in cui un momento intimo diventa rivelatore dell’angoscia inespressa di una donna che prevede il suo destino di morte.
KOSTELNICKA (Jenufa)
Ecco come sarebbe diventata la Marie del “Wozzeck” se fosse invecchiata dopo le delusioni avute dal marito, dal Tamburmaggiore e dalla società in genere.
Né strega, né megera, ma un monumento alla femminilità sfiorita e offesa dagli uomini e dalla sua stessa amarezza. La voce screpolata sostiene una linea di canto frastagliata che aiuta una caratterizzazione formidabile e commovente.
Ecco, credo che l’unico modo per rendere omaggio ad una cantante come Hildegard Behrens sia ascoltarla in queste incarnazioni, e non solo per ricordarla.