La scelta è dettata in primo luogo dal fascino esercitato dal titolo, il primo grand opéra mai composto, nonché modello per i successivi e anche per composizioni estranee al genere (basti sentire il coro del mercato nel terzo atto e confrontarlo con quello che apre il quarto atto di Carmen). Fascino cui contribuisce non poco la tradizione esecutiva del titolo, che si è avvalsa di alcuni dei più grandi cantanti della storia, molti dei quali eminenti virtuosi rossiniani (a ribadire, se non bastasse l’ascolto, la prossimità di questa musica al melodramma serio italiano del primo Ottocento). Tenuta a battesimo da Adolphe Nourrit e Laura Cinti-Damoreau (la “golden couple” della stagione parigina del Pesarese, già interprete de Le siège de Corinthe e Moïse et Pharaon e di lì a poco destinataria de Le comte Ory e Guillaume Tell), in un allestimento che schierava fra gli altri Henri-Bernard Dabadie (futuro Tell) nel ruolo di Pietro, La Muette conobbe presto i favori di molte primedonne e primi uomini, da Julie Dorus-Gras (che fu la principessa Elvira alla Monnaie di Bruxelles, nel 1829 e poi di nuovo nell’agosto 1830, nella celeberrima edizione che spronò alla rivolta i ribelli anti olandesi) a Domenico Donzelli (primo Masaniello alla Scala nel 1838), ai coniugi de Candia, che proposero il titolo al Covent Garden nel 1849, teatro in cui, l’anno successivo, il pubblico potè udire, nei panni del protagonista maschile, Enrico Tamberlick, mentre nel 1851 al Regio di Torino l’eroico capo dei lazzaroni fu interpretato da Gaetano Fraschini (ed è facile immaginare il rilievo conferito dal tenore “della maledizione” alle veementi frasi del finale secondo). Com’è ovvio, ognuno di questi interpreti poteva e doveva adattare le rispettive parti alle proprie caratteristiche vocali (Donzelli ad esempio ben difficilmente avrebbe potuto cantare una parte scritta per il giovane Nourrit senza ricorrere a trasporti e riscritture), sempre ovviamente nel rispetto del carattere della musica e magari incrementando, ove possibile e lecito, le difficoltà previste dal compositore. Potevano esserci tagli, ma ben difficilmente il pubblico si sarebbe accontentato delle semplificazioni non poco mortificanti che taluni vorrebbero far passare per “variazioni”.
Dopo almeno sei decenni di fortuna e complice il tramonto delle scuole di canto ottocentesche, di cui il disco fortunatamente ha preservato gli ultimi splendori, il titolo scompare progressivamente dai palcoscenici (su alcuni, come quello del Met, era stato in ogni caso una meteora) ed è solo l’amore e l’interessamento di pochi divi (Fernand Ansseau, ad esempio, di cui proponiamo in appendice il duetto del secondo atto) a tenere in vita La Muette, fino all’esecuzione proposta dalla radiotelevisione francese nel 1971, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte del compositore. A questa benemerita iniziativa seguirono altre riprese (perlopiù in forma di concerto, e quasi mai notevoli per cantanti e direttori coinvolti) e la registrazione dell’unica versione in studio disponibile su cd, realizzata dalla EMI nel 1987, con un cast guidato da un Kraus purtroppo non più al massimo della forma e da una poco motivata June Anderson, il tutto sotto la bacchetta affidabile, se non trascinante, di Thomas Fulton. Decisamente poco per un’opera che, al di là dell’importanza storica e delle illustri memorie, ha dalla sua una dimensione spettacolare che l’esecuzione concertistica o l’ascolto su disco non può che indebolire fatalmente.
Come ogni grand opéra che si rispetti, La Muette esige, per non trasformarsi in un festival di buone intenzioni e noia assicurata, cantanti in grado di onorare le richieste della partitura. Nello specifico, le prime parti sono essenzialmente due, vale a dire Masaniello ed Elvira. Alfonso, pur dovendo affrontare un’aria solistica inserita nell’introduzione al primo atto, gioca un ruolo tutto sommato di secondo piano; altrettanto dicasi, e a maggior ragione, per la parte del basso (Pietro).
Alla principessa Elvira compete la gioia venata di superbia della dama di rango in procinto d’impalmare il figlio del viceré di Napoli, quindi lo sdegno per l’infedeltà del promesso sposo e al tempo stesso l’affetto sincero nei confronti della sventurata Fenella, e infine, negli ultimi due atti, la commovente perorazione rivolta a Masaniello e alla sorella, perorazione che condurrà la vicenda al suo tumultuoso finale. Nella grande aria di entrata “Plaisir du rang suprême”, Elvira si esprime con gli stilemi della primadonna rossiniana, a partire della formula stessa dell’aria bipartita, composta da un cantabile di contenute dimensioni e da una cabaletta di fiammeggiante virtuosismo. Quando poi il virtuosismo è debitamente “rimpolpato” dall’interprete (si veda quanto proposto da Frieda Hempel, di cui forse si può censurare il gusto, ma non l’eccellente tecnica, che, proprio perché eccellente, si traduce in somma sapienza espressiva), l’effetto del pezzo è irresistibile. Di non minore rilievo sono il duetto con Alfonso al terzo atto e soprattutto la cavatina “Arbitre d’une vie”, che esige un legato e una eloquenza di alta scuola.
Ancora più complessa e, quindi, fonte di soddisfazioni ancora maggiori per il cantante è la parte di Masaniello. Al protagonista maschile spettano ben tre assoli: la barcarola “Amis, la matinée est belle” al secondo atto e, al quarto, l’aria “O Dieu! toi qui m’as destiné” e quindi l’aria del sonno “Du pauvre seul ami fidèle”. La barcarola, come ogni brano lirico di sapore popolaresco (vedi, per citare un’opera italiana, l’assolo “Di’ tu se fedele” dal Ballo in maschera), deve essere interpretata con grande misura, e questo per due ragioni: da un lato è la parodia (nell’accezione letterale) di una canzonetta, dall’altro è l’inno cifrato della rivolta imminente. E nessun congiurato vorrebbe essere sorpreso a strillare i propri progetti. Il tono eroico e la necessità di sfoggiare un’autentica coloratura di forza caratterizzano tanto il duetto patriottardo al secondo atto quanto l’assolo in apertura del quarto, laddove invece l’aria del sonno, sublime ninnananna per l’esausta Fenella, esige prima di ogni altra cosa compostezza, intensità e fantasia nella gestione della linea del canto, caratteristiche che sono la conseguenza di un canto perfettamente sul fiato. Fra l’altro proprio quest’ultima pagina sollecita al massimo il registro acuto (nell’ambito di una parte di per sé decisamente acuta), che deve essere squillante e al tempo stesso dolcissimo. Non per caso, è (o meglio detto, stante la rarità attuale del titolo: era) prassi diffusa l’abbassamento di un tono intero.
Un ruolo chiave, nell’allestimento di questa opera, spetta poi al duo cui, nei moderni allestimenti lirici, si è soliti assegnare il potere assoluto: la coppia direttore-regista. È auspicabile infatti che il responsabile della parte musicale e il curatore dell’aspetto visivo maturino assieme una visione dell’opera, che consenta allo spettacolo di sembrare qualcosa di più che una festa in maschera o una sfilata di moda con accompagnamento di musica dal vivo. Ciò ovviamente presuppone che direttore e regista abbiano lungamente riflettuto sul libretto e sulla partitura, conoscano e apprezzino il lavoro di poeti e compositore, siano al corrente delle difficoltà che i cantanti scritturati per l’occasione dovranno affrontare e sappiano quali strategie o magari quali stratagemmi adottare per consentire agli esecutori di uscire vivi dalle rispettive parti e alla rappresentazione di approdare in porto nella maniera più felice possibile. Ma al giorno d’oggi queste piccolezze sono da molti ritenute superflue. In fondo di una regia si valuta principalmente (per non dire: solo) se “abbia qualcosa di nuovo da dire” o se “riveli aspetti inediti” del titolo scelto, magari attraverso una bella ambientazione novecentesca, che tramuti Scribe e Delavigne in precursori di Curzio Malaparte.
Il direttore poi, lungi dal valorizzare le atmosfere grandiose di questo monumentale affresco in musica, saprà soddisfare le aspettative di certo pubblico e soprattutto certa critica, proponendo una versione superintegrale (avendo magari a disposizione cantanti capaci di arrivare sì e no alla fine del terzo atto) e, dall’inizio alla fine dell’opera, una fiumana orchestrale massiccia e inarrestabile (con gli interpreti che arrancano alla disperata ricerca di un attacco). Superfluo aggiungere che Nomi di prestigio, sul podio come in cabina di regia, saranno per siffatto pubblico e siffatta critica un valore aggiunto non indifferente. Tutto considerato, forse non è un male che La Muette de Portici resti confinata alle fantasie dei melomani.
Gli ascolti
Auber – La muette de Portici
Ouverture – Jean Doussard (1971)
Atto I
Plaisir du rang suprême…O moment enchanté – Frieda Hempel (1910)
Atto II
Amis, la matinée est belle – Emile Marcelin (1913)
Mieux vaut mourir que rester misérable…Amour sacré de la patrie – Fernand Ansseau & Tilkin Servais (1930)
Atto IV
Du pauvre seul ami fidèle – Léon David (1905), Hermann Jadlowker (1913), Jacques Urlus (1916)