Venerdì sera abbiamo assistito alla diretta televisiva dell’Idomeneo da Aix-en-Provence.
I fischi che hanno accolto la regia del signor Olivier Py, al pari di quelli che hanno salutato il Lohengrin allestito la settimana scorsa a Monaco di Baviera, sotto la guida scenica del signor Richard Jones, ci impongono certe riflessioni.
Gli allestimenti cosiddetti moderni, in giacca e cravatta, sono storia vecchia. Il primo spettacolo di questo tipo venne proposto a Berlino nel 1937. L’opera era Macbeth e la protagonista femminile Sigrid Onégin. Leggere la biografia di Rudolf Bing per sincerarsi. Ricordare a se stessi che da quella rappresentazione sono passati settantadue anni.
Nel corso degli anni quella che era una novità si è tramutata prima in una consuetudine, quindi in un luogo comune. Oggi davvero logoro. L’esatto opposto dell’innovativo e dell’avanguardia che vorrebbe essere. Anzi è divenuta la regola e la modernità sarebbe un bell’allestimento di Idomeneo con colonne neoclasssiche e consimili. Ossia quella Grecia classica che agitava le menti dei contemporanei di Mozart, che stavano chiudendo la stagione barocca.
Quello che disturba e offende non è solo la totale estraneità di questo tipo di spettacoli all’opera da mettere in scena (l’Idomeneo, come tutte le opere serie del Settecento, non ha nulla che spartire con l’attualità e il quotidiano, e basta leggere Winckelmann per rendersene conto), ma soprattutto l’infallibile bruttezza degli allestimenti. Bruttezza che fa il paio con quella, altrettanto infallibile, degli allestimenti polverosi e vecchio stile che i registi di presunta avanguardia vorrebbero cancellare con l’opera loro.
Spettacolo dopo spettacolo ci vengono proposte sempre le stesse, rimasticate immagini. La guerra di Troia diventa il solito conflitto paracolonialista con venature palestinesi. Il palazzo di Idomeneo una giungla urbana fatta di casette prese in prestito al presepe o alla scenografia del celebre varietà Milleluci. Elettra ovviamente è una psicolabile che compie abluzioni servendosi di un secchio di sangue e ovviamente si pugnala. Insomma: noia, noia, noia.
I balletti ovviamente geniali e intellighentissimi mostrano piuttosto le doti fisiche che l’arte coreutica dei danzatori. E anche qui nessuna novità rispetto alla tradizione più deteriore. Siamo espliciti e senza falsi pudori: in altri luoghi reali e virtuali ci si può “pascere” della visione di un bella figura. Di maschio, naturalmente!
Certo rimane l’umanizzazione dei personaggi. Perché se Idomeneo ha cappotto e giacca e cravatta, e se Ilia indossa un tailleurino da hostess Alitalia, il pubblico più facilmente palpiterà per la loro sorte, pensa il regista. Peccato che le figure dell’opera seria di umano, meglio di reale abbiano nulla o ben poco. Il re, l’eroe, la principessa e la Furia (perché queste sono le figure dell’Idomeneo) sono l’espressione di affetti ideali, non di sentimenti più o meno naturalistici. Che piaccia o che non piaccia.
Inviterei i nostri lettori alla consultazione di un brano che ritengo illuminante e che tutti i registi scenografi e costumisti dovrebbero mandare a memoria e sul quale riflettere lungamente. Si tratta della recensione che Ugo Foscolo dedicò, stroncandolo, all’Adelchi manzoniano. E lo stroncò sul presupposto fondato della assoluta mancanza di aderenza ai canoni classici della tragedia.
E’ compito degli interpreti (cantanti e direttore) mettere in luce la dimensione degli affetti. Il quartetto di Aix, freddino e tirato via alla bell’e meglio, priva l’opera della sua pagina più struggente e comunica solo una gran voglia di scappare dal teatro. O di cambiare canale.
Resistere sino alla fine è atto di assoluto eroismo. L’intelligenza, la cultura possono essere stimolate e provocate, non offese.
Offese dal ripetere e riproporre cose che sono vecchie quanto il descrittivismo di Zeffirelli, che sono estranee alla poetica ed al gusto del tempo e che dovrebbero servire solo a mascherare una men che mediocre esecuzione vocale e strumentale.
Perchè altro aspetto dimenticato quando non vilipeso è che trattasi ancora di opera e non di teatro da repubblica di Weimar.
Insomma nessuno dice che si debba tornare alle scene dipinte. Anche se in tempi di ristrettezze economiche non sarebbe male utilizzare quello che si ha in dispensa, rectius in magazzino, prima di imbarcarsi in nuove, onerose produzioni. Ma è tempo che i registi comincino a capire che non tutto può essere loro permesso. Il pubblico, come l’altra sera ad Aix, ha modo e a quanto pare intenzione di farlo presente ai diretti interessati.
E ci auguriamo che questa sia la novella strada. Dopo l’augurio, il dubbio che i soggetti deputati a “gestire”, imbottiti della loro cultura, ripeto loro cultura, siano in grado di reagire.
I fischi che hanno accolto la regia del signor Olivier Py, al pari di quelli che hanno salutato il Lohengrin allestito la settimana scorsa a Monaco di Baviera, sotto la guida scenica del signor Richard Jones, ci impongono certe riflessioni.
Gli allestimenti cosiddetti moderni, in giacca e cravatta, sono storia vecchia. Il primo spettacolo di questo tipo venne proposto a Berlino nel 1937. L’opera era Macbeth e la protagonista femminile Sigrid Onégin. Leggere la biografia di Rudolf Bing per sincerarsi. Ricordare a se stessi che da quella rappresentazione sono passati settantadue anni.
Nel corso degli anni quella che era una novità si è tramutata prima in una consuetudine, quindi in un luogo comune. Oggi davvero logoro. L’esatto opposto dell’innovativo e dell’avanguardia che vorrebbe essere. Anzi è divenuta la regola e la modernità sarebbe un bell’allestimento di Idomeneo con colonne neoclasssiche e consimili. Ossia quella Grecia classica che agitava le menti dei contemporanei di Mozart, che stavano chiudendo la stagione barocca.
Quello che disturba e offende non è solo la totale estraneità di questo tipo di spettacoli all’opera da mettere in scena (l’Idomeneo, come tutte le opere serie del Settecento, non ha nulla che spartire con l’attualità e il quotidiano, e basta leggere Winckelmann per rendersene conto), ma soprattutto l’infallibile bruttezza degli allestimenti. Bruttezza che fa il paio con quella, altrettanto infallibile, degli allestimenti polverosi e vecchio stile che i registi di presunta avanguardia vorrebbero cancellare con l’opera loro.
Spettacolo dopo spettacolo ci vengono proposte sempre le stesse, rimasticate immagini. La guerra di Troia diventa il solito conflitto paracolonialista con venature palestinesi. Il palazzo di Idomeneo una giungla urbana fatta di casette prese in prestito al presepe o alla scenografia del celebre varietà Milleluci. Elettra ovviamente è una psicolabile che compie abluzioni servendosi di un secchio di sangue e ovviamente si pugnala. Insomma: noia, noia, noia.
I balletti ovviamente geniali e intellighentissimi mostrano piuttosto le doti fisiche che l’arte coreutica dei danzatori. E anche qui nessuna novità rispetto alla tradizione più deteriore. Siamo espliciti e senza falsi pudori: in altri luoghi reali e virtuali ci si può “pascere” della visione di un bella figura. Di maschio, naturalmente!
Certo rimane l’umanizzazione dei personaggi. Perché se Idomeneo ha cappotto e giacca e cravatta, e se Ilia indossa un tailleurino da hostess Alitalia, il pubblico più facilmente palpiterà per la loro sorte, pensa il regista. Peccato che le figure dell’opera seria di umano, meglio di reale abbiano nulla o ben poco. Il re, l’eroe, la principessa e la Furia (perché queste sono le figure dell’Idomeneo) sono l’espressione di affetti ideali, non di sentimenti più o meno naturalistici. Che piaccia o che non piaccia.
Inviterei i nostri lettori alla consultazione di un brano che ritengo illuminante e che tutti i registi scenografi e costumisti dovrebbero mandare a memoria e sul quale riflettere lungamente. Si tratta della recensione che Ugo Foscolo dedicò, stroncandolo, all’Adelchi manzoniano. E lo stroncò sul presupposto fondato della assoluta mancanza di aderenza ai canoni classici della tragedia.
E’ compito degli interpreti (cantanti e direttore) mettere in luce la dimensione degli affetti. Il quartetto di Aix, freddino e tirato via alla bell’e meglio, priva l’opera della sua pagina più struggente e comunica solo una gran voglia di scappare dal teatro. O di cambiare canale.
Resistere sino alla fine è atto di assoluto eroismo. L’intelligenza, la cultura possono essere stimolate e provocate, non offese.
Offese dal ripetere e riproporre cose che sono vecchie quanto il descrittivismo di Zeffirelli, che sono estranee alla poetica ed al gusto del tempo e che dovrebbero servire solo a mascherare una men che mediocre esecuzione vocale e strumentale.
Perchè altro aspetto dimenticato quando non vilipeso è che trattasi ancora di opera e non di teatro da repubblica di Weimar.
Insomma nessuno dice che si debba tornare alle scene dipinte. Anche se in tempi di ristrettezze economiche non sarebbe male utilizzare quello che si ha in dispensa, rectius in magazzino, prima di imbarcarsi in nuove, onerose produzioni. Ma è tempo che i registi comincino a capire che non tutto può essere loro permesso. Il pubblico, come l’altra sera ad Aix, ha modo e a quanto pare intenzione di farlo presente ai diretti interessati.
E ci auguriamo che questa sia la novella strada. Dopo l’augurio, il dubbio che i soggetti deputati a “gestire”, imbottiti della loro cultura, ripeto loro cultura, siano in grado di reagire.
L'unico commento che verrebbe da fare, rispetto ad organizzatori e fautori di un simile scempio, sarebbe: "taci e trema al mio furore!".