La quinta stagione della soprintendenza Lissner alla Scala di Milano è stata presentata, oggi, nel ridotto del teatro. Stagione ricchissima quanto a numero di serate, circa 250, con una parte sinfonica, che annovera quasi tutte le più grandi bacchette in attività a lato di una stagione operistica di 11 titoli ( con il primo, Carmen, ripreso a fine stagione ) oltre all’opera del Progetto Accademia in autunno.
Stagione che, nonostante l’opinione di Stéphane Lissner, che l’ha definita un cartellone di alto livello, frutto di 5 anni di lavoro, lascia assai perplessi per quanto attiene titoli e cast. A noi pare stagione di poca fantasia ( e ci siamo abituati), con svarioni di cast qua e là, e tanto tanto “di necessità virtù”, da cui le scelte di nomi “nuovi” in parte anche derivano.
Proseguono o iniziano cicli, come quello di Janacek o il Ring wagneriano, secondo il taglio lissneriano dato ai cartelloni odierni.
Se la rieducazione con Janacek prosegue, pare invece, sospesa o rinviata quella con l’opera barocca. Rieducazione rinviata, possiamo ipotizzare. dopo le avventurose riprese di Alcina e il pietoso silenzio sotto cui è passata una pietosa Didone di Cavalli.
Se devo elencare prima di tutto una qualità, posso indicare quella di puntare sui giovani, che sono parecchi, soprattutto nei reparti femminili.
Ma poi subentra, come era facile attendersi delusione sia per i titoli che per alcuni degli interpreti.
Quanto ai titoli non possiamo tacere che a parte la relativa novità del programma di rieducazione Janacek sono quelli diciamo tipici e consolidati per cui Faust e Carmen sono il reputato paradigma dell’0pera francese, Rigoletto dell’Italiana, il Barbiere dell’operismo rossiniano.
Spiace, ma un teatro come la Scala non può e non deve farsi colonizzare nel gusto e nella cultura dai teatri d’oltralpe. Deve essere il teatro che ripropone la produzione italiana e che scandaglia titoli. Se chi è deputato alla scelta di direttori e cantanti avesse più alta e profonda cognizione saprebbe o dovrebbe saper trovare quei titoli, che possono essere allestiti e per i quali le forze vocali in primis sono dipsonibili.
Quanto agli interpreti tra i quali il Sovrintendente ha ritenuto degni di nome il solo Domingo, e la debuttante Raveli o Rachvelishvili, che dir si voglia, sin da adesso strombazzatissima protagonista di Carmen che gli afecionados del teatro già ben conoscono dai concerti dell’Accademia, nonché dalla recente seconda Corifea di Assassinio nella Cattedrale ( e della quale vi diremo domani…). Carmen dubbia sul piano delle protagoniste femminili tutte, che certo non mancherà di dare scandalo ( e visibilità ) come da sempre accade alla signora Dante, e che attrae soprattutto per la bacchetta e il protagonista di Escamillo, quanto meno munito del phisique du role. E senza essere pignoli pare che sul psisque du role nel reperto maschile di Carmen la direzione scaligera insista.
Una vera punta di déjà vu, direi sino allo sdrucito, il Rigoletto con Nucci, da ultimo arrivato (nonostante cinque anni di pensieri e riflessioni per questa stagione) al posto della prevista Miller, che ha già fatto urlare per la noia i loggionisti raggiunti dal gossip del portico di Filodrammatici.
Non parliamo del Don Giovanni di Mussbach, capolavoro dell’orrore registico germanico, che ci presenta un protagonista bravo, ma visto e stravisto e piuttosto incostante nel rendimento, primedonne dubbie e coprotagonisti maschili rodati, ma, pure loro per nulla interessanti perché già sentiti in questi ruoli e dei quali sono ben lungi dall’essere considerati “di rilievo”.
Alla bacchetta di Salonen, uno tra i direttori destinati a collaborare ancora con la Scala nell’immediato futuro, nonché alla regia di P. Chereau è affidata la seconda delle nuove produzioni della prossima stagione, Da una casa di morti di Janacek, mentre al duo fiorentino Mehta – Fura dels Baus- Carlos Padrissa, fantasiosissimi, è affidato il ritorno di Tannhauser a brevissima distanza dalla produzione diretta da Tate agli Arcimboldi.
Scusi signor Lisner siamo un poco all’over dose di Wagner. In compenso l’astinenza colpisce Mercadante, Pacini, il Rossini tragico, Bellini, Giordano, Zandonai. SI dica pure che siamo provinciali!
Destano perplessità la scelta del cast femminile, entrambe sottodimensionate vocalmente per peso o timbro alla vocalità di Wagner. Da Carmen a Venus o si è una Carmen alla Barbieri o si è una Venus sottodimensionata. Non è questione di preconcetti, ma solo di un po’ di orecchio.
Nuova produzione si allestirà per il debutto scaligero in Simone di Placido Domingo, che andrà in scena anche a Londra, New York, Berlino e Madrid. L’evento è di quelli mediatici, puro distillato della concezione professionale dello star system, spinto alle sue estreme conseguenze. E all’età estrema! Quanto agli altri protagonisti, si apprezza la sterzata di repertorio della signora Harteros, che intraprende, incomprensibilmente, la via del sopranone verdiano (e Maria, lo abbiamo scritto mille volte, è qualcosa di ben più robusto vocalmente della personalissima Maria di Mirella Freni ), una ulteriore produzione non giustificata alla Damato, ed il coraggio di Sartori alle prese con le impennate del carattere di Gabriele Adorno, dopo le difficoltà del ben più comodo Jacopo Foscari, oltrea Ferruccio Furlanetto ormai sulla strada tardiva (e non per ingiustizia nei di lui confronti) di diventare dopo Pasero e Ghiaurov il basso ufficiale della Scala.
Non solo, ma il signor Domingo è pure beneficiario di una “commemorazione” per i suoi quarant’anni di Scala. Nulla di strano, a Monaco o a New York, ma per un teatro, come quello massimo milanese, che ha negato l’androne per la benedizione alla salma di Renata Tebaldi o una serata d’addio alla signora Mirella Freni, che nelle disastrate stagioni degli anni ottanta fu il solo faro o quasi, un siffatto comportamento deve lasciar perplessi e deve essere chiaro che qui l’arte non ha molto a che spartire.
Progetto Wagner Tetralogia. Credo sia la terza volta che la Scala ci prova. Speriamo vada meglio che nel 1975 e con il passato direttore stabile. Per altro il numero di serate riservate al signor Barenboim ne fanno un direttore stabile di fatto, con i soli diritti e non i relativi doveri.
Carissimi il pubblico sa ancora contare!
Per il momento a monito di come si debba essere organizzati per eseguire la tetralogia in una sola stagione rimangono le registrazioni del marzo- aprile 1950.
Quanto al Barbiere di Siviglia (con il solito Flórez, al cui confronto Kraus vantava un estesissimo repertorio) e l’Elisir d’amore invitano a due riflessioni di segno opposto. Ossia che esistono titoli, che devono ogni volta, che riproposti essere accompagnati da un nuovo allestimento (dal 1971 ad oggi sono quattro quelli di Elisir) ed altri che devono essere, invece, sempre riprosti con lo stesso. Per altro deve essere detto validissimo ed inossidabile anche perchè un tentativo di nuovo allestimento qualche stagione or sono finì (complici anche la Rosina ed il Figaro di turno) piuttosto a mal partito.
Un poco di equilibrio e di equità nella distribuzione di vecchio e nuovo, scusate, non guasta. Sì ribatterà, che in compenso Barbiere vanta una bacchetta nuova, e per giunta di provata fede baroccara. Speriamo di vederla alla prova, ma nutriamo dubbi in proposito.
Elisir, poi, presenta un’altra coppia da stars da majors del disco ossia Villazón e la Machaidze. Dubbi su entrambi: su di lui, che ridicolizza per numero e quantità i forfait della Caballé e per lei, che da tempo viene avventurata in ritmo di impegni e titoli, che mal si conciliano con la preparazione tecnica di cui dispone.
Anche il Faust non brilla per fantasia come idea da Garzantina dell’opera francese. Attendiamo curiosi, soprattutto sotto il profilo visivo.
Tralasciamo non essendo di competenza la parte sinfonica anche se vorremmo sapere dove sono le 148.000 piante già installate di cui ci ha notiziato la signora Moratti, la quale, un poco digiuna di nozioni di botanica, forse qualifica quali piante anche violette, gerani, gerbere, impiante nelle aiuole cittadine. Se i desiderata di Abbado, che ripropone Mahler dopo trentasette anni dalla stagione sinfonica 1971 olomahleriana, dovessero essere realizzati, Milano dovrebbe diventare una sorta di Selva Boema in piena pianura padana.
E’, invece, di nostra competenza qualche osservazione sulla stagioncina dei concerti di canto.
Il diminutivo prescelto ci sembra indicativo della qualità e quantità della stessa. Possiamo immaginare una Scala trasformata in un locale berlinese degli anni Trenta per il concerto della Denoke?
Due osservazioni conclusive, anche se la prima poteva essere l’exordium ex abrupto.
Prima: il direttore artistico parla, straparla e si compiace di direttori e di allestimenti. In terza, quarta posizione arrivano i cantanti. Si tratta, però, di melodramma e questa graduatoria ci dice che l’idea di partenza è sempre quella sbagliata e foriera di guai, che muove dal titolo gradito al divo della bacchetta, deve incontrare l’interesse del divo o diva della parte visiva e poi si comincia la caccia al cantante. Caccia al tesoro?
Insomma il pranzo che parte dal dolce o quasi.
Seconda: se proprio una celebrazione doveva realizzare il teatro scaligero doveva riservarla, la sera del 25 marzo per una vera ed autentica star, che a 99 anni canta ancora e, a Dio piacendo, potrebbe anche cantare a cento! E potrebbe ancora insegnare a molti qualche cosa, non fosse altro per l’amore e la dedizione al proprio mestiere ed al proprio pubblico.
Stagione che, nonostante l’opinione di Stéphane Lissner, che l’ha definita un cartellone di alto livello, frutto di 5 anni di lavoro, lascia assai perplessi per quanto attiene titoli e cast. A noi pare stagione di poca fantasia ( e ci siamo abituati), con svarioni di cast qua e là, e tanto tanto “di necessità virtù”, da cui le scelte di nomi “nuovi” in parte anche derivano.
Proseguono o iniziano cicli, come quello di Janacek o il Ring wagneriano, secondo il taglio lissneriano dato ai cartelloni odierni.
Se la rieducazione con Janacek prosegue, pare invece, sospesa o rinviata quella con l’opera barocca. Rieducazione rinviata, possiamo ipotizzare. dopo le avventurose riprese di Alcina e il pietoso silenzio sotto cui è passata una pietosa Didone di Cavalli.
Se devo elencare prima di tutto una qualità, posso indicare quella di puntare sui giovani, che sono parecchi, soprattutto nei reparti femminili.
Ma poi subentra, come era facile attendersi delusione sia per i titoli che per alcuni degli interpreti.
Quanto ai titoli non possiamo tacere che a parte la relativa novità del programma di rieducazione Janacek sono quelli diciamo tipici e consolidati per cui Faust e Carmen sono il reputato paradigma dell’0pera francese, Rigoletto dell’Italiana, il Barbiere dell’operismo rossiniano.
Spiace, ma un teatro come la Scala non può e non deve farsi colonizzare nel gusto e nella cultura dai teatri d’oltralpe. Deve essere il teatro che ripropone la produzione italiana e che scandaglia titoli. Se chi è deputato alla scelta di direttori e cantanti avesse più alta e profonda cognizione saprebbe o dovrebbe saper trovare quei titoli, che possono essere allestiti e per i quali le forze vocali in primis sono dipsonibili.
Quanto agli interpreti tra i quali il Sovrintendente ha ritenuto degni di nome il solo Domingo, e la debuttante Raveli o Rachvelishvili, che dir si voglia, sin da adesso strombazzatissima protagonista di Carmen che gli afecionados del teatro già ben conoscono dai concerti dell’Accademia, nonché dalla recente seconda Corifea di Assassinio nella Cattedrale ( e della quale vi diremo domani…). Carmen dubbia sul piano delle protagoniste femminili tutte, che certo non mancherà di dare scandalo ( e visibilità ) come da sempre accade alla signora Dante, e che attrae soprattutto per la bacchetta e il protagonista di Escamillo, quanto meno munito del phisique du role. E senza essere pignoli pare che sul psisque du role nel reperto maschile di Carmen la direzione scaligera insista.
Una vera punta di déjà vu, direi sino allo sdrucito, il Rigoletto con Nucci, da ultimo arrivato (nonostante cinque anni di pensieri e riflessioni per questa stagione) al posto della prevista Miller, che ha già fatto urlare per la noia i loggionisti raggiunti dal gossip del portico di Filodrammatici.
Non parliamo del Don Giovanni di Mussbach, capolavoro dell’orrore registico germanico, che ci presenta un protagonista bravo, ma visto e stravisto e piuttosto incostante nel rendimento, primedonne dubbie e coprotagonisti maschili rodati, ma, pure loro per nulla interessanti perché già sentiti in questi ruoli e dei quali sono ben lungi dall’essere considerati “di rilievo”.
Alla bacchetta di Salonen, uno tra i direttori destinati a collaborare ancora con la Scala nell’immediato futuro, nonché alla regia di P. Chereau è affidata la seconda delle nuove produzioni della prossima stagione, Da una casa di morti di Janacek, mentre al duo fiorentino Mehta – Fura dels Baus- Carlos Padrissa, fantasiosissimi, è affidato il ritorno di Tannhauser a brevissima distanza dalla produzione diretta da Tate agli Arcimboldi.
Scusi signor Lisner siamo un poco all’over dose di Wagner. In compenso l’astinenza colpisce Mercadante, Pacini, il Rossini tragico, Bellini, Giordano, Zandonai. SI dica pure che siamo provinciali!
Destano perplessità la scelta del cast femminile, entrambe sottodimensionate vocalmente per peso o timbro alla vocalità di Wagner. Da Carmen a Venus o si è una Carmen alla Barbieri o si è una Venus sottodimensionata. Non è questione di preconcetti, ma solo di un po’ di orecchio.
Nuova produzione si allestirà per il debutto scaligero in Simone di Placido Domingo, che andrà in scena anche a Londra, New York, Berlino e Madrid. L’evento è di quelli mediatici, puro distillato della concezione professionale dello star system, spinto alle sue estreme conseguenze. E all’età estrema! Quanto agli altri protagonisti, si apprezza la sterzata di repertorio della signora Harteros, che intraprende, incomprensibilmente, la via del sopranone verdiano (e Maria, lo abbiamo scritto mille volte, è qualcosa di ben più robusto vocalmente della personalissima Maria di Mirella Freni ), una ulteriore produzione non giustificata alla Damato, ed il coraggio di Sartori alle prese con le impennate del carattere di Gabriele Adorno, dopo le difficoltà del ben più comodo Jacopo Foscari, oltrea Ferruccio Furlanetto ormai sulla strada tardiva (e non per ingiustizia nei di lui confronti) di diventare dopo Pasero e Ghiaurov il basso ufficiale della Scala.
Non solo, ma il signor Domingo è pure beneficiario di una “commemorazione” per i suoi quarant’anni di Scala. Nulla di strano, a Monaco o a New York, ma per un teatro, come quello massimo milanese, che ha negato l’androne per la benedizione alla salma di Renata Tebaldi o una serata d’addio alla signora Mirella Freni, che nelle disastrate stagioni degli anni ottanta fu il solo faro o quasi, un siffatto comportamento deve lasciar perplessi e deve essere chiaro che qui l’arte non ha molto a che spartire.
Progetto Wagner Tetralogia. Credo sia la terza volta che la Scala ci prova. Speriamo vada meglio che nel 1975 e con il passato direttore stabile. Per altro il numero di serate riservate al signor Barenboim ne fanno un direttore stabile di fatto, con i soli diritti e non i relativi doveri.
Carissimi il pubblico sa ancora contare!
Per il momento a monito di come si debba essere organizzati per eseguire la tetralogia in una sola stagione rimangono le registrazioni del marzo- aprile 1950.
Quanto al Barbiere di Siviglia (con il solito Flórez, al cui confronto Kraus vantava un estesissimo repertorio) e l’Elisir d’amore invitano a due riflessioni di segno opposto. Ossia che esistono titoli, che devono ogni volta, che riproposti essere accompagnati da un nuovo allestimento (dal 1971 ad oggi sono quattro quelli di Elisir) ed altri che devono essere, invece, sempre riprosti con lo stesso. Per altro deve essere detto validissimo ed inossidabile anche perchè un tentativo di nuovo allestimento qualche stagione or sono finì (complici anche la Rosina ed il Figaro di turno) piuttosto a mal partito.
Un poco di equilibrio e di equità nella distribuzione di vecchio e nuovo, scusate, non guasta. Sì ribatterà, che in compenso Barbiere vanta una bacchetta nuova, e per giunta di provata fede baroccara. Speriamo di vederla alla prova, ma nutriamo dubbi in proposito.
Elisir, poi, presenta un’altra coppia da stars da majors del disco ossia Villazón e la Machaidze. Dubbi su entrambi: su di lui, che ridicolizza per numero e quantità i forfait della Caballé e per lei, che da tempo viene avventurata in ritmo di impegni e titoli, che mal si conciliano con la preparazione tecnica di cui dispone.
Anche il Faust non brilla per fantasia come idea da Garzantina dell’opera francese. Attendiamo curiosi, soprattutto sotto il profilo visivo.
Tralasciamo non essendo di competenza la parte sinfonica anche se vorremmo sapere dove sono le 148.000 piante già installate di cui ci ha notiziato la signora Moratti, la quale, un poco digiuna di nozioni di botanica, forse qualifica quali piante anche violette, gerani, gerbere, impiante nelle aiuole cittadine. Se i desiderata di Abbado, che ripropone Mahler dopo trentasette anni dalla stagione sinfonica 1971 olomahleriana, dovessero essere realizzati, Milano dovrebbe diventare una sorta di Selva Boema in piena pianura padana.
E’, invece, di nostra competenza qualche osservazione sulla stagioncina dei concerti di canto.
Il diminutivo prescelto ci sembra indicativo della qualità e quantità della stessa. Possiamo immaginare una Scala trasformata in un locale berlinese degli anni Trenta per il concerto della Denoke?
Due osservazioni conclusive, anche se la prima poteva essere l’exordium ex abrupto.
Prima: il direttore artistico parla, straparla e si compiace di direttori e di allestimenti. In terza, quarta posizione arrivano i cantanti. Si tratta, però, di melodramma e questa graduatoria ci dice che l’idea di partenza è sempre quella sbagliata e foriera di guai, che muove dal titolo gradito al divo della bacchetta, deve incontrare l’interesse del divo o diva della parte visiva e poi si comincia la caccia al cantante. Caccia al tesoro?
Insomma il pranzo che parte dal dolce o quasi.
Seconda: se proprio una celebrazione doveva realizzare il teatro scaligero doveva riservarla, la sera del 25 marzo per una vera ed autentica star, che a 99 anni canta ancora e, a Dio piacendo, potrebbe anche cantare a cento! E potrebbe ancora insegnare a molti qualche cosa, non fosse altro per l’amore e la dedizione al proprio mestiere ed al proprio pubblico.
Vi dirò…a me la stagione piace e la trovo molto più gustosa di quella attuale (che è semplicemente da arrossire).
Mi fa piacere leggere i nomi di Kaufmann che ho apprezzato in Don Josè nel video con la Antonacci, Schrott, Gazale (buona alternativa al sempiterno Nucci a cui va tutta la mia stima), Secco (buona realtà tenorile), Pentcheva (ottima Cuniza a Busseto), LA PRATT a cui auguro tutto il successo che merita, ma anche Gatell, Zeppenfeld, Mattei, Salonen, Mehta, Dean Smith, Harteros, Trekel, Pape, Gatti, Domingo, Furlanetto, Florez, DiDonato.
Insomma tutta una serie di cantanti finalmente presenti in una stagione scaligera che da qualche anno sembrava il festival di Roccacannuccia e chiamava nomi a caso.
La preplessità nasce per il cast femminile della Carmen, che tanto subirà mutamenti, per la Gertseva in Venus, cantante che dice pochissimo, per la presenza dell’ultraottantenne Mazura nella Lulu, che farà la felicità delle cosime, il cast femminile del Faust per il quale avrei preferito voci più timbrate e sontuose, e per la presenza di Villazon che al 99% state certi cancellerà (Meli, Demuro, Schmunk, Grigolo, Siracusa tenetevi pronti all’uso ;-)).
Più che Cimarosa, Rossini, Pacini e Mercadante, per i quali ci sono poche voci e poco studio, come suggerite voi, avrei puntato anche sul verismo di Zandonai, Mascagni, Leoncavallo, Cilea, Catalani.
Anche a me farebbe piacere una stagione con Lully (fatto bene e non da voci pigolanti, piccole e fisse) e Paer…ma per il momento restano un sogno.
Piuttosto, con una Pratt a disposizione si poteva allestire “Puritani” finalmente in una versione autenticamente critica ^_^
Ma certo che ci piace Marianne! Giulia non sarebbe contenta se ci fosse la sua sorella che ha concipito questo programa 😉
Comunque Giulia 2do me ha raggione di dire “ma un teatro come la Scala non può e non deve farsi colonizzare nel gusto e nella cultura dai teatri d’oltralpe”. Infatti, La Scala dovrebbe essere “La Scala” e non una copia palida degli altri grandi teatri europei — come era il caso questa staggione 2008/2009.