E adesso pubblico e cantanti: ossia i due protagonisti del mondo dell’opera.
Protagonisti senza i quali (spariti i compositori perchè ormai l’opera ripropone il passato e da settant’anni non produce più titoli) non si può avere il teatro d’opera. O meglio senza i quali il teatro d’opera è destinato a sparire.
In realtà devo significare che tutti gli altri attori, che da comprimari sono stati promossi a protagonisti, si danno abbondante da fare affinché i veri protagonisti spariscano o quasi.
Quando diciamo l’Alcina di Carsen l’operazione di sparizione è già avvenuta: abbiamo, infatti, dimenticato che il titolo è di Haendel e che i protagonisti devono essere autentici fuoriclasse. Altrimenti lo spettacolo tradisce Haendel e imbroglia il pubblico. Ancora quando rappresentiamo una Traviata a loggione chiuso, perchè quella Traviata deve essere un successo, stiamo facendo del miope protezionismo, che salverà l’imminente produzione di Traviata, ma che inesorabile concorrerà alla chiusura e morte dell’opera. Morte, ahimé, priva di risurrezione.
Devo, anche, dire che l’adoprarsi degli altri figuranti del mondo dell’opera, che abbiamo incontrato in queste riflessioni del venerdì, è ben più agevole di quanto sembrerebbe, in quanto cantanti e pubblico sono particolarmente inclini e ben disposti a farsi pecore per andare in bocca al lupo. Come insegna l’Isabella rossiniana.
Quanto al pubblico v’è poco da dire. Ne facciamo parte anche noi. Qualcuno a voce alta se ne duole. Rappresentiamo un modo di andare all’opera. Modo che non è il solo, talchè i nostri detrattori e talvolta diffamatori ed intimidatori deridono, censurano, tentano di intimidire.
A loro ed anche a noi non possiamo che ricordare l’adagio ” de gustibus” e ricordar loro che noi, come loro, non possiamo cambiare mente ed opinione in forza degli insulti, lanciati nel foyer della Scala, ossia pubblicati su fori e blog, alcuni dei quali creati all’uopo. Anche lo sberleffo e la paranoia denotano interesse. E ben vengano.
Dovrebbero, però, venire accompagnati dal senso critico, dalla capacità di spiegare a chi non condivide l’opinione il fondamento della propria, senza fermarsi al “mi piace”, al “tanto non c’è di meglio” o a ripetizioni di opinioni che trasformano l’essere umano in una starnazzante papera o nelle pecore di orwelliana memoria.
Il critico che molti colleghi in primo luogo detestano di più e che, essere umano, aveva simpatie ed antipatie, conoscenze approfondite e buchi quasi neri, ha, però, insegnato a lettori e conoscenti un metodo per andare all’opera ed ascoltare. Solo che questo “metodo” o modo non l’ha inventato Rodolfo Celletti, ma era il modo con cui tutti i loggionisti e il pubblico andava a sentire. Celletti l’ha solo utilizzato sistematicamente. La Rina, pescivendola in Milano, Via Falcone, debuttante nel loggione della Scala con la Francesca da Rimini del 1916, ascoltava e sentiva al medesimo modo e come lei centinaia di persone del pubblico, di ogni levatura sociale e culturale, sino a pochi superstiti e sopravvissuti oggi ancora in forza. Sono i pochi che non possono credere alle storielle che i grandi non vengano alla Scala per paura dei fischi, sposando la più ovvia e cruda tesi che le assenze nascano dalla poca solidità della loro arte (che tutto è fuorchè arte), sono i pochi che applaudono lo sconosciuto tenore del secondo cast, riprovato il divo o la diva del primo, perchè se non buone, hanno almeno orecchie indipendenti dai clangori della critica. Critica della cui obiettività (per tacere del resto) ogni giorno di più abbiamo fondato motivo di dubitare.
Ancor più facile distruggere la categoria dei cantanti. Il cantante il più delle volte arriva al mestiere per caso, perchè dotato di voce, scoperta in maniera assolutamente accidentale. Non sa nulla di opera. E sino qui oggi come ieri. Ma ieri gli altri protagonisti o comprimari dell’opera avevano la loro professionalità, fossero direttori d’orchestra (era vociomane anche un grande direttore di sinfonica come Bruno Walter), i ripassatori di spartito e i maestri di canto. Anche un tempo vi erano i buoni ed i cattivi. Basta sentire i racconti della quasi centenaria Olivero sui suoi primi maestri, ma nella quantità anche la qualità era garantita.
Ma c’era qualcosa in più.
Ossia al giovane cantante veniva insegnato o lo doveva imparare, se voleva galleggiare, che la professione del cantante (come ogni altra, sia ben chiaro, il cantante non gode dell’extraterritorialità rispetto alle regole del vivere comune, anche se alcuni odierni in carriera credono il contrario) non ammette facilonerie ed impreparazioni, che sapere la parte non significa saperne le note, che le parti vanno studiate, passate e magari ripassate, che la voce, la cui emissione è un mero fatto muscolare, deve essere allenata tutti i giorni, come i muscoli del calciatore, che non si può sistematicamente menare vita notturna fra discoteche, privè, cene ed incontri. Il cantante d’opera deve, se vuole essere un professionista, apprendere e praticare una disciplina professionale e di vita. In difetto ,anche se dotato di fisico da top model, se dotato di voce straordinaria, sarà destinato a precoce, irreparabile declino. Se divo o diva da star system tutti gli altri attori del “serraglio opera” correrranno ad apprestare i loro conforti e palliativi, onde sostenere e procrastinare la carriera sulla quale tanto si era speso in messaggi pubblicitari, pagine patinate. Se, invece, cantante extra star system verrà rispedito al mittente dopo aver per un paio di stagioni accarezzato sogni di gloria, comperato abiti e accessori griffati, pranzato o cenato in ristoranti famosi.
E siccome ci piace tanto Fedro non possiamo che ricordare, a chi avrà tempo e voglia di leggere (magari per trarre spinto per una scurrile parafrasi), la fabula della cicala e della formica. Con una rettifica, però, che qui le cicale non esistono in natura: vengono prodotte e fabbricate, da chi dovrebbe stare altrove.
Protagonisti senza i quali (spariti i compositori perchè ormai l’opera ripropone il passato e da settant’anni non produce più titoli) non si può avere il teatro d’opera. O meglio senza i quali il teatro d’opera è destinato a sparire.
In realtà devo significare che tutti gli altri attori, che da comprimari sono stati promossi a protagonisti, si danno abbondante da fare affinché i veri protagonisti spariscano o quasi.
Quando diciamo l’Alcina di Carsen l’operazione di sparizione è già avvenuta: abbiamo, infatti, dimenticato che il titolo è di Haendel e che i protagonisti devono essere autentici fuoriclasse. Altrimenti lo spettacolo tradisce Haendel e imbroglia il pubblico. Ancora quando rappresentiamo una Traviata a loggione chiuso, perchè quella Traviata deve essere un successo, stiamo facendo del miope protezionismo, che salverà l’imminente produzione di Traviata, ma che inesorabile concorrerà alla chiusura e morte dell’opera. Morte, ahimé, priva di risurrezione.
Devo, anche, dire che l’adoprarsi degli altri figuranti del mondo dell’opera, che abbiamo incontrato in queste riflessioni del venerdì, è ben più agevole di quanto sembrerebbe, in quanto cantanti e pubblico sono particolarmente inclini e ben disposti a farsi pecore per andare in bocca al lupo. Come insegna l’Isabella rossiniana.
Quanto al pubblico v’è poco da dire. Ne facciamo parte anche noi. Qualcuno a voce alta se ne duole. Rappresentiamo un modo di andare all’opera. Modo che non è il solo, talchè i nostri detrattori e talvolta diffamatori ed intimidatori deridono, censurano, tentano di intimidire.
A loro ed anche a noi non possiamo che ricordare l’adagio ” de gustibus” e ricordar loro che noi, come loro, non possiamo cambiare mente ed opinione in forza degli insulti, lanciati nel foyer della Scala, ossia pubblicati su fori e blog, alcuni dei quali creati all’uopo. Anche lo sberleffo e la paranoia denotano interesse. E ben vengano.
Dovrebbero, però, venire accompagnati dal senso critico, dalla capacità di spiegare a chi non condivide l’opinione il fondamento della propria, senza fermarsi al “mi piace”, al “tanto non c’è di meglio” o a ripetizioni di opinioni che trasformano l’essere umano in una starnazzante papera o nelle pecore di orwelliana memoria.
Il critico che molti colleghi in primo luogo detestano di più e che, essere umano, aveva simpatie ed antipatie, conoscenze approfondite e buchi quasi neri, ha, però, insegnato a lettori e conoscenti un metodo per andare all’opera ed ascoltare. Solo che questo “metodo” o modo non l’ha inventato Rodolfo Celletti, ma era il modo con cui tutti i loggionisti e il pubblico andava a sentire. Celletti l’ha solo utilizzato sistematicamente. La Rina, pescivendola in Milano, Via Falcone, debuttante nel loggione della Scala con la Francesca da Rimini del 1916, ascoltava e sentiva al medesimo modo e come lei centinaia di persone del pubblico, di ogni levatura sociale e culturale, sino a pochi superstiti e sopravvissuti oggi ancora in forza. Sono i pochi che non possono credere alle storielle che i grandi non vengano alla Scala per paura dei fischi, sposando la più ovvia e cruda tesi che le assenze nascano dalla poca solidità della loro arte (che tutto è fuorchè arte), sono i pochi che applaudono lo sconosciuto tenore del secondo cast, riprovato il divo o la diva del primo, perchè se non buone, hanno almeno orecchie indipendenti dai clangori della critica. Critica della cui obiettività (per tacere del resto) ogni giorno di più abbiamo fondato motivo di dubitare.
Ancor più facile distruggere la categoria dei cantanti. Il cantante il più delle volte arriva al mestiere per caso, perchè dotato di voce, scoperta in maniera assolutamente accidentale. Non sa nulla di opera. E sino qui oggi come ieri. Ma ieri gli altri protagonisti o comprimari dell’opera avevano la loro professionalità, fossero direttori d’orchestra (era vociomane anche un grande direttore di sinfonica come Bruno Walter), i ripassatori di spartito e i maestri di canto. Anche un tempo vi erano i buoni ed i cattivi. Basta sentire i racconti della quasi centenaria Olivero sui suoi primi maestri, ma nella quantità anche la qualità era garantita.
Ma c’era qualcosa in più.
Ossia al giovane cantante veniva insegnato o lo doveva imparare, se voleva galleggiare, che la professione del cantante (come ogni altra, sia ben chiaro, il cantante non gode dell’extraterritorialità rispetto alle regole del vivere comune, anche se alcuni odierni in carriera credono il contrario) non ammette facilonerie ed impreparazioni, che sapere la parte non significa saperne le note, che le parti vanno studiate, passate e magari ripassate, che la voce, la cui emissione è un mero fatto muscolare, deve essere allenata tutti i giorni, come i muscoli del calciatore, che non si può sistematicamente menare vita notturna fra discoteche, privè, cene ed incontri. Il cantante d’opera deve, se vuole essere un professionista, apprendere e praticare una disciplina professionale e di vita. In difetto ,anche se dotato di fisico da top model, se dotato di voce straordinaria, sarà destinato a precoce, irreparabile declino. Se divo o diva da star system tutti gli altri attori del “serraglio opera” correrranno ad apprestare i loro conforti e palliativi, onde sostenere e procrastinare la carriera sulla quale tanto si era speso in messaggi pubblicitari, pagine patinate. Se, invece, cantante extra star system verrà rispedito al mittente dopo aver per un paio di stagioni accarezzato sogni di gloria, comperato abiti e accessori griffati, pranzato o cenato in ristoranti famosi.
E siccome ci piace tanto Fedro non possiamo che ricordare, a chi avrà tempo e voglia di leggere (magari per trarre spinto per una scurrile parafrasi), la fabula della cicala e della formica. Con una rettifica, però, che qui le cicale non esistono in natura: vengono prodotte e fabbricate, da chi dovrebbe stare altrove.
Beh, negli ultimi 70 anni qualcosa è pur uscito… certo non sui modelli del belcanto e in quantità limitata, però almeno Britten, Poulenc, Pizzetti, Menotti (cito i primi nomi che mi vengono alla mente) qualche “titolo” l’hanno pur prodotto.
Per il resto, sui cantanti concordo in pieno: nel “mercato” di oggi prevale chi meglio e più sa sfruttare la “presenza”, a dispetto dello studio e della voce.
Sul pubblico invece: mi chiedo quanti in loggione o in platea conoscono (e conoscevano ieri) come voi gli originali (per poter giudicare l’interpretazione) o conoscono come voi, a parte valutare ad orecchio, i princìpi e i fondamenti del canto. Forse, come giustamente sostenete, in passato il loggione era pieno di gente che, magari non conoscendo partiture nè tecnica vocale, a forza di ascoltare la stessa opera in teatro e di riascoltarla sui vinili (o addirittura sui 78giri) ne diventava esperta e – col suo personale gusto – giudicava, acclamava, o fischiava.
Se capisco bene, la vostra visione dello stato dell’arte sarebbe questa:
– i “loggionisti veraci” di una volta, alla Rina di via Falcone, sono in via di estinzione;
– oggi il loggione è popolato in buona parte da spettatori che appartengono a un qualche “giro” e quindi hanno interessi extra-artistici per applaudire o buare a seconda delle circostanze; il gusto non c’entra nulla;
– per il resto, gli spettatori sono gente venuta lì quasi per caso e solo per divertirsi e quindi, non essendo “addetti ai lavori”, applaudono tutti i cantanti che gli vengono propinati, anche quando invece dovrebbero censurarli, come in occasione del recente “Viaggio”.
Se è così, la domanda da porsi è quale sia il nesso causa-effetto: i loggionisti veraci si estinguono naturalmente, come il “macaca siberus”, e quindi lasciano l’opera in mano ad avventurieri e incompetenti, oppure si estinguono a causa dell’imbarbarimento della qualità dell’intero sistema?
Buona Pasqua!
caro daland,
hai ragione, anche negli ultimi 70 anni si sono scritte opere nuove. ma non sono certo queste il “cuore” del repertorio, almeno nei nostri teatri, che anzi spesso e volentieri dimenticano il Novecento, o se lo rammentano lo fanno solo per riproporre le solite tre-quattro opere (quasi sempre di Puccini, belle fin che ti pare ma sempre quelle).
circa l’estinzione del “loggionista verace”, io credo che il decadimento della qualità degli spettacoli vi contribuisca fortemente. chi ha sentito Kraus come Werther – primo esempio che mi viene in mente – fatica a digerire certi Werther di oggi. siano o no benedetti dalle major. e più il pubblico “appassionato” (nel senso del loggionista old style) si allontana dal teatro, più il teatro è libero di far crollare la qualità dell’offerta, perché chi rimane non sa, non può, non vuole o non ha interesse a contestare o anche solo a comparare.
e poi è un fatto, e non nostra cieca e sorda opinione, che oggi è raro, rarissimo trovare uno spettacolo d’opera che faccia il tutto esaurito.
A parte le riflessioni (più o meno condivisibili) sarebbero bastati i due ascolti proposti per riflettere (peccato per la Fleming perchè avrebbe timbro carino e la registrazione, comunque, migliora alquanto il timbro che dal vivo è molto più secco e vuoto). Comunque, Verdi era un genio (lo so non c’entra nulla ma era un genio lo stesso).
Le opere contemporanee ci sarebbero anche, come Antigonae andata in scena al Maggio Musicale Fiorentino con grande successo (e purtroppo mai più ripresa) oppure la Phaedra di Henze, composizione strana, ma splendida che sta però girando nei paesi europei.
Dico anche io che bisognerebbe programmare le stupende opere di Menotti.
Se i “grandi” di oggi fossero realmente tali, sarebbero sicuri della propria voce e verrebbero alla Scala tranquillamente e a tal proposito farei ascoltare loro l’intervista fiume a puntate che il GRANDE Lauri-Volpi rilasciò a Celletti e presente su Youtube.
Anche lui fischiato alla Scala aveva solo un’arma per difendersi…LA PROPRIA VOCE e il bello è che si difese pure bene :D!!!
caro daland,
certamente negli ultimi settant’anni sono state prodotte opere. credo però che il genere sotto il profilo della produzione sia terminato. E ne adduco quale prova inconfutabile la stagione delle renaissance. Prima la Handel in Germania poi la Donizetti ed infine la Rossini. Riguardo la quale, per non venire meno alla polemica, non posso che parlare di fine ormai consumatasi da qualche anno.
Quanto al pubblico non posso tacere che il declino della sua qualità nasca anche dal fatto che altr eforme d’arte o di divertimento abbiamo preso il posto del melodramma.
Lo stesso fenomeno vale per il teatro di prosa. Scusa ma prime donne come Sarah Ferrati o la Brignone, piuttosto che primi uomini come Randone(e cito i primi che ricordo e che pur over 70 ho visto recitare) credi possano avre un sostituto.
Vedi il teatro di regia fra l’altro concetto applicabile alla prosa con qualche problemma quasi inapplicabile al melodramma ha retto sin tanto che i registi hanno avuto a disposizione professionisti solidi ed artisti. Pensa ai “fissi” del Piccolo che rispondevano al nome di Tino Carraro o Giulia Lazzarini. Ma anche il regista privo di questi attori può poco o nulla. BAsta andare a teatro di prosa oggi.
E se difettano di personalità cantanti e direttori (e qui anticipo una riflessione cui dedicheremo i prossimi mesi con oggetto al direzione d’orchestra) è normale che vi difetti il pubblico anche dei più rodati appassionati.
A sopire e assopire il pubblico hanno contribuito idee fisse propagandata in maniera martellante (tipo pubblicità delle calze o dei detersivi) complice una critica che vuole restare in teatro nel senso vuole entrare a vedere gli spettacoli ed i cui caposaldi sono
a) la distruzione delle generazioni di cantanti e direttori precedenti. per la cronaca il primo fu Karajan con un paio di critici che distrussero la grande scuola direttoriale tedesca ed il suo massimo e scomodo rappresentante Furtwangler.
b) la imposizione di teorie interpretative assolutamente deformate come quelle del canto baroccaro. Se leggessero scoprirebbero che Garcia ripete il Mancini ed il Tosi e siccome gli allievi di GArcia li abbiamo documentati (Maria Ros, ossia signora Lauri Volpi) sono già sbugiardati da soli.
c) il teorema del “bisogna accontentarci” ossia “le voci di una volta non ci sono più”. Eppure una volta malnutrizione, malattie infettive etc falcidiavano mentre oggi salvo eccezioni nel mondi civile si mangia regolarmente e variatamente. Solo che se la signora Netrebko cantasse con il sostegno, l’appoggio e la costanza di studio dei cantanti di 100 anni or sono canterebbe come la Nezdanova o la Sembrich. Altro che accontentarci
non ho finito, ma credo, di aver rotto satis ed abundans
ciao dd