La carriera di Luisa Maragliano si è snodata nell’arco di circa 25 anni fra il 1955 e il 1979/80, carriera importante con apparizioni in tutti i più grandi teatri del mondo, dalla Scala all’Arena di Verona (quando era un teatro dove si sentivano le VOCI) tutti i teatri italiani, fino ad esibizioni a New York, Buenos Aires, Parigi ecc. in un repertorio oneroso cui la Maragliano ha sempre saputo rendere giustizia grazie ad una saldezza tecnica di rara consistenza.
La Maragliano inizia giovanissima, quasi per caso, ad avvicinarsi al mondo dell’opera e subito incontra il suo mentore e compagno di vita, il direttore Tristan Illersberg, che la sceglie nel 1955 come una delle Fanciulle fiore nel Parsifal a Genova, sua città d’origine. In seguito la carriera della giovane Maragliano comincia a farsi importante fino alla rivelazione all’Arena di Verona nel 1959 sostituendo un’indisposta Antonietta Stella come Leonora ne La forza del destino. Da qui in poi la Maragliano si cimenterà con un repertorio molto vasto comprendente soprattutto Verdi e opere del Verismo senza disdegnare cimenti come quello del Giulio Cesare di Handel (oggi come non mai farebbe proprio piacere sentire una Cleopatra dalla sensuale voce sontuosa, invece, delle consuete striminzite soubrettine sprovviste della tecnica di base del canto), spaziando in opere da soprano lirico puro come Bohéme e Carmen (Micaela), a ruoli da lirico spinto come Tosca, Manon Lescaut, Maddalena di Coigny e di soprano drammatico sia nel tardo Verdi (Aida e Don Carlo) che nel primo Verdi (Attila e Due Foscari) LA L’esteso repertorio fu possibile grazie sia ad una voce di bel timbro di soprano lirico-spinto che una grande cognizione tecnica ha preservato per lungo tempo in un simile repertorio consentendo all’interprete la capacità di essere sempre all’altezza delle richieste dello spartito, fosse Handel o Verdi o Puccini, magari con qualche limite stilistico nel primo, ma sempre a pieno agio sotto il versante vocale.
Interessantissimi sono, infatti, gli ascolti di Luisa Maragliano, che oggi moltissime giovani cantanti dovrebbero prendere a modello per capire come la professionalità e la serietà rendano grandi un cantante più ancora della carriera effettuata. Se infatti negli anni di carriera Luisa Maragliano non ha mai ricevuto riconoscimenti dal mondo della discografia e fama internazionale, o può essere stata all’ombra di colleghe come la Caballè, la Gencer, la Stella, la Price, cio non di meno il pubblico le ha sempre tributato il giusto plauso per il suo valore artistico e le registrazioni, che rimangono, consentono ancora oggi di ammirare una cantante che vorremmo avere oggi sui palcoscenici mondiali, dove surclasserebbe senza sforzo le più blasonate dive odierne, incapaci di produrre un canto di pari qualità tecnica e artistica. La polemica può sembrare ripetitiva e sterile, ma l’ascolto porta sempre e solo ad una siffatta conclusione.
La cavatina di Lida della Battaglia di Legnano per esempio, mette in evidenza nella Maragliano una grande attenzione, soprattutto nel cantabile, ai segni d’espressione e di dinamica presenti nello spartito (che in più di un passaggio chiede all’interprete di rendere “dolce” i suoni e di avere una dimamica molto varia nel rinforzare e smorzare frasi intere), la voce apputo smorza e addolcisce i suoni a qualsiasi quota, con grande sicurezza, ed è capace di salire ad acuti granitici come il do5 prima della cabaletta e quello in chiusa della cabaletta medesima. Nella cabaletta la Maragliano mostra come la sicurezza e la professionalità tecnica consentano all’esecutore di risolvere brillantemente i problemi della scrittura per certo poco agevole e di destreggiarsi fra note picchettate, trilli e volatine risolte alleggerendo il mezzo vocale senza che i suoni diventino ,però, “suonini” flautati e falsettanti in assenza del saldo sostegno della respirazione.
Unico vezzo che è possibile rilevare è quello dell’interprete che tende a tebaldeggiare al centro in certi vezzi di pronuncia.
Nel recitativo della grande aria di Amalia nei Masnadieri invece la Maragliano esegue dei diminuendo non scritti molto appropriati sulla frase “all’obliato sepolcro tuo che sola…”, molto espressivi nel risultato e che ben contrastano col tono di disprezzo con cui Amalia risponde al canto del coro fuori scena nelle frasi seguenti. Abbiamo ancora grande attenzione agli accenti mentre l’uso del registro di petto per le note basse su “in quella pietra” non si tramutano in suoni gutturali e indietro o in afonoidi emissioni d’aria come oggi siamo abituati, ma sono dei suoni timbrati, raccolti e sonori.
Nel cantabile la Maragliano da il meglio di sè, la voce piena e corposa al centro si addice molto bene a questo tipo di pagina, cui la Maragliano dona la solita attenzione alla dinamica, molto varia nelle prescrizioni di Verdi, che chiede all’interprete di rinforzare e diminuire di continuo i suoni lungo le prime lunghe frasi, in cui la Maragliano è attenta alle sfumature pur mantenendo la voce sempre dolce. Bello è poi il contrasto di dinamica prodotto dal prorompere della voce su “Oh quanto invidio, oh quanto”. MA la morale è sempre la stessa si può “propormpere” solo se si ha la cognizione di dove mettere i suoni.
La voce è molto omogenea e sicura nel si bemolle pianissimo in chiusa prima della cadenza finale.
La cabaletta della scena, scritta appunto per una grande virtuosa come Jenny Lind, metterebbe un pò a mal partito una cantante come la Maragliano abituata a Tosche e Aide, ma l’intelligenza e la preparazione (che non consiste solo nel sapere le note) consente di evitare grossi inciampi. Innanzitutto affronta la cabaletta ad un tempo più slentato rispetto a quello di una Sutherland , ma sempre cercando di essere più possibile fedele allo spartito. Analogamente alla cabaletta della Battaglia di Legnano, infatti, la Maragliano alleggerisce il volume della voce per affrontare le volatine e le note puntate sempre mantenendo il ferreo appoggio della voce, che le consente di chiudere con uno dei consueti saldissimi do acuti.
Sarebbe ingiusto non parlare dell’Aida di Luisa Maragliano, ruolo cardine della sua carriera, di cui la Maragliano è stata grande interprete per più di 500 rappresentazioni, un record forse unico al mondo. Ancora una volta le ragioni di questo lungo rapporto con un ruolo temibile per difficoltà e pesantezza come Aida è riscontrabile nella grande saldezza vocale e tecnica della Maragliano. Qualità che l’audio di una recita estiva del 1972 mostrano in tutto e per tutto. Insieme a Franco Corelli ci viene regalata una grande esecuzione del duetto finale. L’aperto dell’Arena non fa dimenticare agli interpreti (soprattutto alla Maragliano, più che al Divo Corelli) le necessità dello spartito, anzi onorato da una grande esecuzione in cui i due protagonisti gareggiano a suon di pianissimi, smorzature e frasi lunghissime oltre che in acuti sonori e squillanti. C’è chi vorrebbe queste esecuzioni areniane come mere palestre di sterili esibizioni vocali, un ascolto simile è la prova che più in questo passato l’Arena di Verona è stata luogo di esibizioni in cui si è fatta dell’Arte vera rispetto alle problematiche, spesso noiose serate odierne.
Da subito, ovvero senza neppure la minimale gavetta si fece notare, invece, la voce di Rita Orlandi-Malaspina, che dalla metà degli anni 60 e per tutti gli anni 70 ha mietuto onori come vera voce verdiana eccellendo soprattutto nel repertorio verdiano da soprano drammatico. Il debutto avviene a 26 anni al Teatro Nuovo di Milano come Giovanna d’Arco, il debutto alla Scala avviene solo due anni dopo come Leonora nelle repliche dell’inaugurale Forza del destino. Il sodalizio con il teatro milanese continuerà in seguito con Don Carlo, Il trovatore, Un ballo in maschera e Attila. Sempre nel 1966 debutta alla Carnegie Hall di New York nel Mosè di Rossini accanto a Nicolai Ghiaurov mentre al Met approda nel 1968 come Amelia nel Simon Boccanegra ed Elisabetta nel Don Carlo per poi tornarvi una sola volta ancora, come Aida nel 1979/1980. La carriera di Rita Orlandi-Malaspina l’ha portata nei maggiori teatri del mondo come nei teatri di provincia, ovunque onorandosi non solo grazie alla doviziosa dote naturale ma in virtù della solida tecnica e della grande professionalità con cui Artiste simili hanno sempre inteso il loro mestiere e la gestione del loro patrimonio vocale.
Gli ascolti proposti sono tutti improntati al repertorio verdiano, centrale nella carriera della Orlandi-Malaspina, sia nelle opere del primo Verdi che, soprattutto, per quanto riguarda i titoli del cosiddetto Verdi pesante.
Il duetto dal II atto dei Masnadieri è funestato dalla presenza di un Mario Petri in fine di carriera, cui una certa afonia impedisce di strafare in quanto a volgarità varie ma che non può evitargli di produrre molti suoni opachi e strozzati soprattutto in acuto. La Orlandi-Malaspina è invece bravissima, la voce è ampia, bellissima, mostrando da subito quella che per unanime giudizio è la vera voce verdiana dalla materia prima preziosissima. Soprattutto nella stretta del duetto le basta pochissimo per rendere lo slancio della pagina, con grande facilità di canto in tutta la linea e persino nell’esecuzione delle agilità. Un’ottimo esempio di canto di forza nel primo Verdi, utile per fare una distinzione col canto urlato che oggi viene spacciato per grande primo Verdi.
Esecuzione esemplare è poi l’aria di Amelia nel II atto di Un ballo in maschera. La tessitura è ardua, la voce è chiamata ad affrontare un orchestrale pesante, intere frasi sono scritte in tessitura medio bassa, scendendo più volte sotto al rigo per poi far salire la voce in un’ampia frase al do acuto e prima ancora a svariati si bemolli e si naturali. La voce della Orlandi-Malaspina si adatta benissimo alle richieste di Amelia, che non a caso è stato uno dei suoi “cavalli di battaglia”, per l’ampiezza che possiede in tutta la gamma e la precisione del canto. Affronta, infatti ,senza problema le frasi più basse della tessitura, pur ricorrendo all’uso del registro di petto (senza ovviamente sbracare il suono), è capace di scendere al la sotto al rigo con un suono corposo e sonoro, contrasta senza problema l’orchestrale anche nei fortissimo. Ha accuratezza nel legato di frasi che rende molto espressive come “o finisci di battere e muor” (in cui risultano un pò aperti solo i la bemolli acuti posti sul termine della frase) che lo spartito prescrive piano all’inizio per affrontare un crescendo nel resto della frase, come ugualmente accade in “Deh mi reggi m’aita signor”, che la Orlandi-Malaspina inizia con un bellissimo piano per poi salire via via ad un ottimo do acuto sul forte dell’orchestrale. Molto bella è anche l’esecuzione della cadenza, eseguita attaccando mezzoforte il si bemolle acuto mantenendo la voce sempre omogenea nello scendere sotto al rigo nelle ultime frasi.
Il duetto dell’Ernani vede accanto alla Orlandi-Malaspina un bravissimo Mario Zanasi, dall’emissione morbidissima, accento semplice, nobile e composto, interprete di un vero Re. Ottimo è il contrasto fra questo Re e la voce sontuosa della Orlandi-Malaspina che nella prima parte del duetto sfodera un poderoso si bemolle per poi eseguire ottimamente la frase “ogni cor serba un mistero”, allargandola con grande effetto espressivo.
Nel cantabile Zanasi ha una bella linea di canto ed emissione molto morbida, il chè lo rende un Re sopra la media per gli anni dell’esibizione e un fuoriclasse per gli standard odierni. Alla bellissima e donizettiana frase d’incipit del cantabile di Don Carlos la Orlandi-Malaspina risponde con la giusta fierezza prescritta dallo spartito e che solo una voce di questo calibro e di tale bellezza può dare al personaggio, sul modello di Anita Cerquetti. La Orlandi-Malaspina sa rendere molto bene l’esecuzione delle agilità a piena voce, mantenendo omogenea la voce nelle discese alle frasi più basse che portano la voce sotto al rigo come in “lo splendor d’una corona”, in cui la voce risulta sempre correttamente emessa e il suono risulta timbrato e raccolto. E le ultime frasi, perlopiù centrali, come “la corona o sire è un dono…” cantate piano come Verdi prescrive sono luogo ideale per dispiegare tutta la bellezza di cotanta voce, veramente sontuosa.
Pace mio Dio è un brano ideale per dispiegare una voce sontuosa in tutta la sua bellezza e la Orlandi-Malaspina non fa eccezione, offrendo un’esecuzione da manuale dell’aria di Leonora di Vargas. Nella riflessione del venerdì sugli agenti abbiamo proposto un confronto fra i Pace mio Dio della Caniglia, della Tebaldi e della Urmana. Il confronto poteva risultare, come nei fatti risulta, impietoso. Personalmente inviterei a confrontare qualche Leonora di Vargas odrierna, come la Urmana appunto o la Stemme, incensate e ammirate come nuove grandi voci ed interpreti verdiane, con Rita Orlandi-Malaspina, che di certo non ha avuto il rilievo discografico di queste signore. Proprio sul terreno dell’emissione prima ancora che dell’esecuzione appare schiacciante il confronto, emissione mantenuta sempre morbida e sul fiato per quanto riguarda la Orlandi-Malaspina, quasi sempre di gola per le due citate colleghe. Un confronto che chi scrive ha sentito di voler suggerire ascoltando la voce della Orlandi-Malaspina dispiegarsi nella malinconica melodia verdiana con grande dolcezza e morbidezza, ma soprattutto con una sapienza tecnica oggi più che mai riguardevole, esempio ne sia la frase “invan la pace qui sperò quest’alma”, che passa dall’iniziale forte alla salita al si bemolle pianissimo, suono perfetto e bellissimo, che regge benissimo il confronto con le prime colleghe citate, la Caniglia e la Tebaldi, sicuramente due modelli per la grandissima Rita Orlandi-Malaspina e di cui può senz’altro essere definita l’erede. E non dimenticherei Antonietta Stella.
Di grandissimo interesse è l’ascolto di Ilva Ligabue, vero esempio di voce d’oro, che iniziò lo studio del canto quasi per caso per divenire una delle più importanti e brave cantanti del secondo dopoguerra.
Per una maggiore e più dettagliata biografia rinviamo al suo sito, appena creato, per parte nostra ricordiamo gli studi che la Ligabue effettuò a Milano presso il Conservatorio Verdi dove fu allieva di Aureliano Pertile in primis per poi passare ai corsi di perfezionamento del Maestro Campogalliani patrocinati dalla Scala, che ancora oggi sforna nuovi allievi…anche se non propriamente purtroppo di egual bravura. Ilva Ligabue dopo i corsi del Maestro Campogalliani, debutta alla Piccola Scala ne “L’Osteria portoghese” di Cherubini e “La serva padrona” di Pergolesi. Nei primi anni di carriera infatti affronta molto repertorio del ‘700 (Cimarosa, Pergolesi, Mozart), palestra per la voce di una giovane debuttante, che ha avuto così modo di “farsi le ossa” prima di passare gradatamente ad un repertorio più pesante, consentendole di non rovinarsi. Degli inizi di Ilva Ligabue dovrebbero tenere conto giovani cantanti e agenti che nel gestire giovani talentuosi non tengono conto dell’esperienza che dovrebbero maturare prima di affrontare importanti debutti e certi ritmi di carriera. E quindi abbiamo una Carolina del Matrimonio segreto promossa a Tosca perchè agenti e direttori artistici percepiscono un po’ di volume.
Ilva Ligabue si fece, dunque, notare da subito come voce di soprano lirico e con gli anni maturò la propria voce in quella di un vero soprano lirico spinto affrontando un repertorio molto vario, dall’iniziale repertorio settecentesco, di cui terrà cari i personaggi mozartiani, soprattutto La Contessa e Donna Elvira, eseguite spessissimo, aggiungendo in seguito Alice Ford in Falstaff (ruolo inciso due volte in studio con Solti e Bernstein), Francesca da Rimini, Margherita nel Mefistofele, fino a Puccini con Tosca, Butterfly, Suor Angelica e Manon Lescaut e Verdi con Masnadieri, Trovatore, Simon Boccanegra, Don Carlo, Otello ecc.
Gli ascolti proposti vogliono prendere un pò dai vari ambiti del repertorio della Ligabue, partendo da Mozart, per proseguire col repertorio Verista, il primo Verdi di Ernani e il tardo Verdi del Don Carlo.
Fra i motivi per cui bisognerebbe preferire certe moderne esecuzioni mozartiane a quelle cosiddetto vecchio stile ci sarebbe in primis la questione della maggiore aderenza stilistica e drammaturgica di un filone di interpreti che possiamo definire specialisti. A nostro parere l’ascolto della Contessa d’Almaviva di Ilva Ligabue giunge a smentire tali fole a partire da un recitativo in cui a risultare espressiva è la voce stessa, di timbro nobilissimo ed emissione morbida, a questa Contessa infatti basta un’inflessione della voce per essere espressiva, nobile e malinconica. Nel rondò, inoltre, la voce si dispiega con grande facilità e ampiezza tramite una linea di canto semplice ma molto espressiva che mette in risalto la bellezza della voce e l’abilità della cantante, ferratissima nel dosare i fiati e nel variare la dinamica.
In Ernani la Ligabue entra in scena con con un sonorissimo la che tiene benissimo testa a quello di Corelli.
La voce, da autentico soprano lirico spinto, pur dotatissima, al cospetto di una collega come la Orlandi-Malaspina nella stessa opera, risulta in un ipotetico confronto meno ampia al centro e soprattutto in basso, ma l’interprete è, però, tecnicamente molto agguerrita e riesce con grande facilità a reggere le pesanti frasi centrali del terzetto finale, per giunta eseguito ad un tempo molto largo, che metterebbe chiunque in difficoltà. Nelle frasi più gravi la voce si mantiene sempre e comunque sonora, i suoni rimangono raccolti e mai sbracati, il sostegno è perfetto e lo si nota nel modo in cui dalle prime frasi centrali la voce passi al piano di “Ma che diss’io perdonami” senza perdere sonorità, e mantenendo anzi sempre morbido il suono. E in quanto a sonorità l’ascolto prova come la Ligabue non abbia alcun problema a tenere testa a Corelli e Raimondi, non certo due voci poco sonore, all’aperto dell’Arena.
La grande cantante da l’ennesima prova di sé nell’aria di Maddalena di Coigny, che rende in modo poetico. La voce è come sempre bellissima e con tale peculiarità il personaggio è già realizzato per metà e la Ligabue, con uno stile giustamente diverso rispetto a Mozart ma senza strafare e sempre cantando, risulta anche interprete e fraseggiatrice attentissima. Le prime frasi vengono cantate pianissimo, adatte al clima drammatico del cupo racconto di Maddalena, la voce cambia, però, colore gradualmente nel narrare del meretricio di Bersi e alla frase “Fu in quel dolore..” per lasciarsi infine andare al canto spiegato di “Ei disse vivi ancora”, dove l’ampia voce della Ligabue tiene facilmente testa all’orchestrale. Una prova superlativa, che fa meritare ampiamente alla Ligabue la sua fama di grande Artista.
Infine eccezionale è l’ascolto del Don Carlo. Pur non essendo un vero soprano drammatico o addiruttura Falcon la voce della Ligabue ha notevole ampiezza, tanto da reggere con relativa facilità le frasi della Valois e l’orchestrale che Verdi predispone per la sua grande aria. Già dalle prime frasi l’esecuzione si segnala come grandissima, oltre a rispettare i segni di dinamica previsti da Verdi la Ligabue si mostra vera interprete, forse facendo anche di necessità virtù, nel variare la dinamica ulteriormente passando dal forte di “e godi nell’avel” alla smorzatura su “il riposo”. Vi è grande rispetto per i segni di legatura che Verdi spande a piene mani, e la voce cerca sempre di mantenersi più ampia e regale possibile, invece di liricizzare la pagina, eseguendo benissimo l’effetto di grandioso prescritto su “il pianto mio al trono del signor”. Nella sezione centrale dell’aria la Ligabue è molto espressiva e attenta al fraseggio ed è bravissima nel crescendo de “i fonti i boschi i fior” coronato da un bellissimo la diesis dopo il quale la Ligabue smorza abilmente il suono rallentando sul poco ritenuto de “cantino il nostro amor” con grande effetto espressivo e grandissima bravura tecnica nel manterere e gestire il fiato, mostrando un appoggio granitico della voce. Nella parte finale, sul crescendo orchestrale, perfetta è l’esecuzione della forcella dal pianissimo di “il pianto” al ff di “mio”, reggendo senza difficoltà alcuna l’orchestrale nelle frasi seguenti e, grazie ad un perfetto passaggio di registro, eseguendo benissimo le discese al registro grave delle ultime frasi. Pur non essendo un soprano drammatico tout-court la Ligabue riesce ad essere interprete fedele della regalità di Elisabetta e della maestosità delle arcate vocali a lei affidate da Verdi, senza incappare in liricizzazioni che, come abbiamo avuto occasione di scrivere a suo tempo, citando un collega del blog, rendono Elisabetta parente stretta di Mimì.
Gli ascolti
Luisa Maragliano
Verdi – La battaglia di Legnano
Atto I – Quante volte come un dono…A frenarti, o cor (1969)
Verdi – I masnadieri
Atto I – Tu del mio Carlo…Carlo vive! (1969)
Verdi – Luisa Miller
Atto IV – La tomba è un letto sparso di fiori (con Cornell MacNeil – 1969)
Verdi – Aida
Atto IV – La fatal pietra…O terra addio (con Franco Corelli – 1972)
Rita Orlandi-Malaspina
Verdi – Ernani
Atto I – Da quel dì che t’ho veduta (con Mario Zanasi – 1967)
Verdi – I masnadieri
Atto II – Io t’amo, Amalia…Ti scosta, malnato (con Mario Petri – 1973)
Verdi – Un ballo in maschera
Atto II – Ecco l’orrido campo…Ma dall’arido stelo divulsa (1971)
Verdi – La forza del destino
Atto IV – Pace mio Dio (1970)
Ilva Ligabue
Giordano – Andrea Chénier
Atto III – La mamma morta (1973)
Mozart – Le nozze di Figaro
Atto III – E Susanna non vien…Dove sono i bei momenti (1963)
Verdi – Ernani
Atto IV – Ferma, crudele, estinguere (con Franco Corelli & Ruggero Raimondi – 1972)
Verdi – Don Carlo
Atto IV – Tu che le vanità (1964)
Magnifico post.Ero presente a molte delle esecuzioni da voi citate e posso aggiungere che la Maragliano é stata anche la prima Abigaille da me ascoltata,all´Arena nel 1971 insieme al Nabucco di Cornell Mc Neil.A quei tempi,potevi sentire Bergonzi e Domingo alternarsi nella Tosca,Corelli e Domingo in Turandot…all´Arena si andava per sentire le grando voci e non per le idiozie del regiata di turno.Grazie per aver ricordato tre autentiche fuoriclasse,che hanno onorato la tradizione del canto italiano.E non sono trascorsi molti anni dal loro ritiro,alla faccia di chi taccia questo sito di feticismo per i 78 giri!
grazie mozart!
il problema, credo, non è il feticismo per il 78 giri, Il problema è avere un minimo di educazione e propensione all’ascolto a mente libera. Chi non lo possiede e non lo ammette preferisce aggredire ed insultare. E’ grazie a siffatti ascoltatori ed ai loro “educatori” che i teatro d’opera è in condizioni da rianimazione.