La direzione di Bartoletti è apparsa ottima, più ancora che per la scelta dei tempi (stringati, ma non tali da mettere in affanno solisti e concertatore), per l’abilità nel rendere la “tinta” verdiana, sopperendo con i colori dell’orchestra alla sostanziale monocromia del palco. Qualche attacco non pulitissimo di orchestra e coro (finale primo; impeccabile, per contro, la banda interna all’inizio dell’opera) e alcuni eccessi di impatto sonoro (eccessi che paiono tali, in realtà, più per deficienza del canto che per sovrabbondanza di suono orchestrale) non basta a inficiare l’esito di una prova di grande valore, segnatamente nell’ultimo atto.
Lo spettacolo di Cobelli sviluppa l’idea del “doppio” (Rigoletto/Monterone) già cara a Ponnelle: una parete di specchi spezza in due il palcoscenico, la corte di Mantova è una serie di pannelli mobili alternati ad angoscianti scorsi prospettici, la casa di Rigoletto sorge simmetrica a quella di Sparafucile, il prologo contiene in sé la disperazione dell’epilogo. L’intelligente light design e gli sfarzosi costumi stemperano bene la severità quasi arcigna della scenografia.
E con questo possiamo dire di avere praticamente esaurito l’elenco dei punti di forza della serata, perché il canto ha molto lasciato a desiderare.
Nucci ha ancora una sicurezza invidiabile nel registro acuto, anche se spesso i suoni emessi in questa fascia sembrano avere poco in comune con il canto. In basso la voce si assottiglia nettamente, scivolando nel parlato (confronto con Monterone, scena con Sparafucile al primo atto) e risultando poco udibile (alcune frasi del “Cortigiani” – il momento meno felice della serata – sono quasi soffocate dall’orchestra), e le frasi legate vengono risolte a prezzo di una diffusa nasalità, il che, associato al contegno scenico non proprio da cortigiano (seppur di basso ceto), enfatizza il carattere grottesco del buffone ma sminuisce la componente umana del padre oltraggiato, quella componente che Nucci con tanta forza sottolinea nelle interviste e che ancora emerge, sia pure a fatica, in alcune frasi del terzo atto (penso ad esempio a “Venti scudi hai tu detto?”). Forse, anche in considerazione della gloria passata, non sarebbe fuori luogo considerare l’ipotesi di un addio al ruolo. E comunque andrebbero cassati i singhiozzi nella scena che segue il ratto di Gilda. La disperazione di Rigoletto si esprime al meglio con il canto, e solo con quello.
Il Duca di Roberto Aronica è dotato di voce torrenziale, se non bella sotto il profilo del timbro, ma i suoni malfermi e spoggiati letteralmente non si contano. Fin dalla ballata il tenore dà vita a un personaggio che ha più dell’orco libidinoso che del raffinato libertino, impressione rafforzata al duetto con Gilda, in cui la salita all’acuto “Ah dunque amiamoci donna celeste” è voluminosa, ma priva di squillo e sempre a rischio d’intonazione. Intonazione che è definitamente salutata nell’aria al secondo atto, come dimostra l’attacco, per esser buoni incerto, sul passaggio di registro. La cabaletta, eseguita una volta sola, conferma il carattere poco nobile di questo Duca, che però non sa essere nemmeno popolaresco, vista l’esecuzione da balera della canzone al terzo atto, e lo stessi dicasi del quartetto, il momento peggiore della serata, con tanto di stonatura su “le mie pene consolar”.
Olga Peretyatko, che avevamo lasciato peregrina Desdemona in Pesaro, è molto più a suo agio come Gilda, malgrado la parte, scritta per Teresina Brambilla ossia per una cantante che affrontava anche Elvira dell’Ernani e Abigaille, non sia esattamente da soprano leggero. E difatti i momenti migliori della signora Peretyatko sono al primo atto: non tanto il duetto con il padre, di tessitura piuttosto bassa, quanto il duetto con il Duca e soprattutto il “Caro nome”, risolto con voce non molto sonora ma gradevole, belle intenzioni musicali, discreta coloratura e acuti intonati. Un po’ meno bene il secondo atto: “Tutte le feste al tempio” la vede in debito d’ossigeno e gli acuti risultano un po’ gridati, fino alla stecchetta sul mi bemolle, alla chiusa del bis della “Vendetta”. Il terzo atto, in cui la scrittura orchestrale si fa più densa e tremenda che mai (e qui forse Bartoletti avrebbe dovuto “alleggerire” l’accompagnamento, per quanto possibile), dimostra che Gilda, malgrado il momentaneo travestimento, non è il paggio Oscar. Meglio il finale, in cui pure la stanchezza si è fatta sentire negli acuti, un po’ troppo aperti. La signora Peretyatko ha comunque offerto una prova onesta e rispettabile, massime se confrontata con quella di recenti Gilde esibitesi in teatri, che hanno pretese di eccellenza in campo verdiano.
Poco da dire sulla coppia dei diabolici fratelli: Riccardo Ferrari, voce robusta ma non ampia, problematica in acuto e un po’ troppo senescente, e Rossana Rinaldi, Despinetta che declama con poca voce, ci hanno fatto rimpiangere gli “urlatori” o supposti tali che la profonda provincia italiana soleva proporre in queste parti, cruciali nell’economia del dramma. Fra i comprimari va segnalato il Ceprano di Raffaele Costantini, voce bella e ampia, che avrebbe forse meritato un ruolo di maggiore spicco, vista anche la modestia del contesto.
Gli ascolti
Verdi – Rigoletto
Atto I
Caro nome – Mercedes Capsir (1930)
Atto II
Ella mi fu rapita!…Parmi veder le lagrime – Ferruccio Tagliavini (1940)
Cortigiani, vil razza dannata – Domenico Viglione-Borghese (1924)
Sì, vendetta – Apollo Granforte & Nunu Sanchioni (1930)
Atto III
La donna è mobile – Dino Borgioli (1930)
Bella figlia dell’amore – Marcel Wittrisch, Margarete Klose, Erna Berger & Willi Domgraf-Fassbaender (1932)
V’ho ingannato…Lassù in cielo – Lucia Popp & Lorenzo Saccomani (1972)