E’ inutile ed infruttuosa una riflessione supportata di soli lai e doglianze. Non serve e non è proficua per la crescita.
Quando si parla delle direzioni dei teari è bene chiarire che, come in ogni organismo societario, che si rispetti, due sole sono le figure: il sovrintendente ed il direttore artistico. Al primo spetta il solo profilo organizzativo ed economico dell’azienda teatro e guai se osa mettere mano alla programmazione artistica. Quanto al direttore artistico, invece, ha da essere uno solo, senza frammentazioni e divisioni dei suoi compiti in vari rivoli (responsabile delle voci, degli allestimenti, dei registi, dei ballerini, dei tutù, dei sospensori e chi più ne ha più ne metta, perchè in queste parcellizzazioni è l’unico sfogo della fantasia). Attesi i lauti compensi, che una siffatta figura professionale lucra il titolare deve assumere le proprie responsabilità in sala (con applausi e fischi) e fuori con pronte e spontanee dimissioni, se come spesso accade, la barca affonda. In epoca di miseria (leggi tagli al Fus, forse provvidenziale segno del destino) il direttore artistico, che auspichiamo deve saper “mettere insieme pranzo e cena” con la stessa abilità delle massaie napoletane dei rioni popolari, celebrate da Giuseppe Marotta, e per adempiere il compito, gravoso, deve essere colto, fantasioso ed indipendente. Colto e fantasioso ovvero conoscere e per esame sugli spartiti o per ascolto, ove possibile, l’intero repertorio operistico e le relative difficoltà di esecuzione donde non gli succeda di ragionare per stereotipi e schemi, magari diffusi, che sono funesti per l’arte. Insomma quando parla di barocco non deve ridurlo alla trilogia monteverdiana o ad una cinquina di titoli handeliani, perchè ha da essergli chiaro che quella stagione del melodramma comprende Cavalli, Pollarolo, Leo, Vinci, Legrenzi, Bononcini, Purcell, Hasse e, pure, Porpora. Non può ragionare per trilogie altrimenti corre il rischio di ridurre Mozart a quella dapontiana e Donizetti alla Tudor.
Ancora deve avere il coraggio e la forza intellettuale di proporre autori diversi ed, invece,titoli desueti dei più rappresentati, non arroccato su posizioni critiche, che vogliono (sia pure con fondamento dal loro punto di vista) privilegiare in forza di quei punti di vista solo alcuni autori, solo taluni periodi, solo talune aree culturali, donde via libera alla Wintereise, ostracismo o, almeno, naso storto ad Arditi e Tosti , se parliamo di musica da camera, ossia largo a Janacek, chiusura a Goldmark o Zandonai, se versiamo nelle scelte melodrammatiche. In queste si concretizza l’indipendenza, figlia di cultura ed intelligenza.
Indipendenza da praticarsi nella scelta dei titoli per proseguire con gli esecutori. Chiunque abbia minimale conoscenza del meccanismo del mondo dell’opera e degli ingaggi conosce lo sforzo degli agenti di piazzare alle direzioni artitiche i loro rappresentati, senza andar troppo per il sottile e guai a quel direttore artistico che per qualunque motivo (quale che sia, sempre poco nobile) aderisca acriticamente a queste proposte. Sarebbe come il giudice che accolga le ragioni di una parte per la sola fama del patrono. Altro deve fare il vero direttore artistico: ascoltare le voci ai concorsi a condizione che sappia riconoscere qualità minimali e difetti capitali, frequentare gli altri teatri, magari meno quotati del proprio, osare scelte non scontate ed al tempo stesso non rischiose ( se conosci il tuo mestiere le due caratteristiche non sono antitetiche) sia che si parli di ugole che di bacchette. Cantanti e direttori sono investimenti non speculazioni da squalo. Cantanti e direttori, quando famosi, vanno gestiti, non adorati ed accontentati acriticamente con le loro richieste sotto ogni profilo esose, con le pretese di imporre personaggi e cortigiani facenti parti del loro corteggio, di cui non sanno far a meno. E deve anche aver buon senso il nostro direttore artistico, anzi avere il senso delle cose, che insegna che la scelta del titolo anteposta all’esecutore è garanzia di sicuro naufragio. Se i grandi di ogni epoca e di ogni luogo componevano e riadattavano ad personam le parti non vi è ostacolo, anzi è corretto e dovuto programmare ad personam. Note le forze o, soprattutto, le debolezze, che il mercato offre, cultura, indipendenza e fantasia sono gli strumenti per una scelta, che ha tutte le caratteristiche per attirare il pubblico e lucrare il successo, che è, poi, il fine vero del direttore artistico, se perseguito senza l’ausilio di personaggi emuli del Macrobio della Pietra di paragone, che saranno oggetto delle nostre prossime riflessioni.
Quando si parla delle direzioni dei teari è bene chiarire che, come in ogni organismo societario, che si rispetti, due sole sono le figure: il sovrintendente ed il direttore artistico. Al primo spetta il solo profilo organizzativo ed economico dell’azienda teatro e guai se osa mettere mano alla programmazione artistica. Quanto al direttore artistico, invece, ha da essere uno solo, senza frammentazioni e divisioni dei suoi compiti in vari rivoli (responsabile delle voci, degli allestimenti, dei registi, dei ballerini, dei tutù, dei sospensori e chi più ne ha più ne metta, perchè in queste parcellizzazioni è l’unico sfogo della fantasia). Attesi i lauti compensi, che una siffatta figura professionale lucra il titolare deve assumere le proprie responsabilità in sala (con applausi e fischi) e fuori con pronte e spontanee dimissioni, se come spesso accade, la barca affonda. In epoca di miseria (leggi tagli al Fus, forse provvidenziale segno del destino) il direttore artistico, che auspichiamo deve saper “mettere insieme pranzo e cena” con la stessa abilità delle massaie napoletane dei rioni popolari, celebrate da Giuseppe Marotta, e per adempiere il compito, gravoso, deve essere colto, fantasioso ed indipendente. Colto e fantasioso ovvero conoscere e per esame sugli spartiti o per ascolto, ove possibile, l’intero repertorio operistico e le relative difficoltà di esecuzione donde non gli succeda di ragionare per stereotipi e schemi, magari diffusi, che sono funesti per l’arte. Insomma quando parla di barocco non deve ridurlo alla trilogia monteverdiana o ad una cinquina di titoli handeliani, perchè ha da essergli chiaro che quella stagione del melodramma comprende Cavalli, Pollarolo, Leo, Vinci, Legrenzi, Bononcini, Purcell, Hasse e, pure, Porpora. Non può ragionare per trilogie altrimenti corre il rischio di ridurre Mozart a quella dapontiana e Donizetti alla Tudor.
Ancora deve avere il coraggio e la forza intellettuale di proporre autori diversi ed, invece,titoli desueti dei più rappresentati, non arroccato su posizioni critiche, che vogliono (sia pure con fondamento dal loro punto di vista) privilegiare in forza di quei punti di vista solo alcuni autori, solo taluni periodi, solo talune aree culturali, donde via libera alla Wintereise, ostracismo o, almeno, naso storto ad Arditi e Tosti , se parliamo di musica da camera, ossia largo a Janacek, chiusura a Goldmark o Zandonai, se versiamo nelle scelte melodrammatiche. In queste si concretizza l’indipendenza, figlia di cultura ed intelligenza.
Indipendenza da praticarsi nella scelta dei titoli per proseguire con gli esecutori. Chiunque abbia minimale conoscenza del meccanismo del mondo dell’opera e degli ingaggi conosce lo sforzo degli agenti di piazzare alle direzioni artitiche i loro rappresentati, senza andar troppo per il sottile e guai a quel direttore artistico che per qualunque motivo (quale che sia, sempre poco nobile) aderisca acriticamente a queste proposte. Sarebbe come il giudice che accolga le ragioni di una parte per la sola fama del patrono. Altro deve fare il vero direttore artistico: ascoltare le voci ai concorsi a condizione che sappia riconoscere qualità minimali e difetti capitali, frequentare gli altri teatri, magari meno quotati del proprio, osare scelte non scontate ed al tempo stesso non rischiose ( se conosci il tuo mestiere le due caratteristiche non sono antitetiche) sia che si parli di ugole che di bacchette. Cantanti e direttori sono investimenti non speculazioni da squalo. Cantanti e direttori, quando famosi, vanno gestiti, non adorati ed accontentati acriticamente con le loro richieste sotto ogni profilo esose, con le pretese di imporre personaggi e cortigiani facenti parti del loro corteggio, di cui non sanno far a meno. E deve anche aver buon senso il nostro direttore artistico, anzi avere il senso delle cose, che insegna che la scelta del titolo anteposta all’esecutore è garanzia di sicuro naufragio. Se i grandi di ogni epoca e di ogni luogo componevano e riadattavano ad personam le parti non vi è ostacolo, anzi è corretto e dovuto programmare ad personam. Note le forze o, soprattutto, le debolezze, che il mercato offre, cultura, indipendenza e fantasia sono gli strumenti per una scelta, che ha tutte le caratteristiche per attirare il pubblico e lucrare il successo, che è, poi, il fine vero del direttore artistico, se perseguito senza l’ausilio di personaggi emuli del Macrobio della Pietra di paragone, che saranno oggetto delle nostre prossime riflessioni.
Gli ascolti
Haendel – Rinaldo
Atto II – Lascia ch’io pianga – Claudia Muzio
Mascagni – L’Amico Fritz
Atto I – Son pochi fiori – Claudia Muzio