E’ in scena in questi giorni alla Fenice la produzione del Roméo gounodiano che avrebbe dovuto segnare l’esordio di Jonas Kaufmann nel ruolo del titolo. All’annunciato debutto è seguita la rinuncia. Annunciata anche quella, almeno per chi abbia almeno una volta aperto lo spartito, o udito i Romei paradigmatici almeno in disco. Il teatro ha prontamente trovato un rimpiazzo in Eric Cutler, noto alle cronache principalmente per una discutibile edizione di Puritani al fianco di Anna Netrebko. L’altro motivo di curiosità e ragion d’essere dell’allestimento veneziano era la presenza di Nino Machaidze, all’esordio italiano come Juliette dopo il rutilante spettacolo salisburghese dell’anno passato. Almeno lei si è presentata all’appuntamento in Laguna, e di questo le siamo grati.
Riteniamo che il Roméo non si possa montare se si è sprovvisti di un grande tenore e, in subordine, di un soprano leggero (ma sarebbe meglio lirico-leggero, specie se si ha la velleità di inserire l’aria del veleno, espunta con il consenso dell’autore fin dalle prime esecuzioni – e non senza ragione!) e di un direttore in grado di rendere la forza della tragedia ma anche lo charme di questa musica. Venendo a mancare questi tre elementi (ma soprattutto il primo) di Roméo rischiano di cogliersi solo i difetti (una certa prolissità e un buon numero di passaggi di ottima, spesso squisita fattura ma scarsa ispirazione) e non i pregi, almeno altrettanto numerosi.
Cutler ha sfoggiato una voce lirico-leggera piuttosto nel naso e scarsamente proiettata, che a ogni tentativo di smorzatura diventa fievole e bianchiccia, mortificando intenzioni interpretative anche lodevoli, soprattutto nei primi due atti. L’acuto è sempre duro e sforzato, per giunta del tutto privo di squillo. Il momento peggiore è stato sicuramente il secondo quadro del terzo atto, che richiede, come abbiamo già avuto occasione di esporre, una sicurezza sul passaggio cui il tenorino americano sembra totalmente estraneo.
La signora Machaidze parte proprio male, con un valzer da avventizia del canto: assai imprecisa nella coloratura, qua e là stonacchiante al centro e con acuti strillati. Il volume è assai limitato e, come accade alle voci non in maschera, i piani e i pianissimi sono al limite dell’udibile. L’eleganza, la maliconia e la tenerezza del personaggio risultano del tutto assenti, tanto nel fraseggio quanto nel portamento scenico (tutt’altro che agevolato dagli estrosi costumi). Le cose vanno un po’ meglio alla scena del balcone, in cui l’attacco di “Hélas! Moi, le haïr?” ha dalla sua almeno una certa continenza espressiva, presto dimenticata nel finale d’atto (peraltro con taglio del da capo di “Ah ne fuis pas encore”, con buona pace di Gounod che giudicava basilare la ripresa della sezione conclusiva del duetto). Nuovi suoni acidi e sgallinanti al quartetto delle nozze e altri appena più controllati (forse anche per un venire meno delle forze?) nel “Nuit d’hyménée”, finché si arriva alla grande aria del veleno, che la Machaidze affronta con temerarietà ma anche con una voce ormai ridotta ai minimi termini, priva di morbidezza, ignara di che cosa sia lo slancio e la saldezza in acuto e con imbarazzanti suoni intubati sotto. Come possa questa ragazza, innegabilmente vivace e temperamentosa, essere considerata una promessa del canto, è qualcosa che sfugge alla nostra comprensione. Certo i limiti tecnici risultano meno evidenti che non nell’Elvira bolognese, ma ciò è merito (?) della parte, non dell’artista, che è sempre la medesima.
Giorgio Giuseppini nei panni di Frate Lorenzo, che la regia trasforma in prete di strada, ha una maggiore cognizione del canto e una voce più importante di quella dei protagonisti, sebbene assai corta in acuto: gli fa però difetto l’ampiezza del vero basso nobile e il vibrato risulta un po’ troppo accentuato.
Markus Werba, in una parte da fine dicitore quale Mercutio, dà prova di uno strumento piccolo e grigio e di un fraseggio che ben si accorda con la voce, tanto da rendere spento e tedioso un brano di grande effetto quale la ballata della Regina Mab. Analoghe considerazioni valgano per Ketevan Kemoklidze, la solita microsoubrette con velleità da mezzosoprano acuto, sguaiata e anche stonata. Il Capuleti di Luca Dall’Amico è il classico tenore dalla voce legnosa che gioca al basso-baritono grand seigneur. Un gioco pericoloso, come dimostra l’aria “Allons jeunes gens”, privata di ogni nobiltà e caricata di suoni rozzi e fiochi.
Di livello medio-basso i comprimari, con menzione onorevole per Nicolò Ceriani, Paride che sfoggia la voce più corposa e meglio emessa di tutto il cast, e disonorevole per Michele Bianchini, becero e stonatissimo nei panni del Duca di Verona.
Carlo Montanaro ha retto con mano discreta le fila del tutto, ma senza trovare mai la cifra caratteristica del dramma, quella fusione di esprit français, lirismo e dramma che del Roméo è la chiave. L’orchestra ha suonato discretamente, ma con infinita piattezza, non certo riscattata dai clangori plebei delle scene di massa (terribile in questo senso il finale terzo). Montanaro ha però avuto l’indiscutibile merito di non coprire mai, se non appunto nel grande concertato “Ah jour de deuil”, le voci, tutt’altro che immense, dei solisti.
Damiano Michieletto, di cui avevamo molto apprezzato la Gazza ladra allestita per il Rof, confeziona uno spettacolo sfarzoso e ricco di verve, ma estraneo al clima dell’opera di Gounod, che non è West Side Story né Grease. La scena fissa (un enorme giradischi) consente di ridurre i tempi morti ma risulta eccessivamente spoglia e alla fine anche poco funzionale per i cantanti, che vi si muovono quasi con circospezione e con movimenti spesso goffi (vedi ad esempio la rissa al terzo atto). Le luci, che avrebbero dovuto giocare un ruolo essenziale nel tratteggiare il lato onirico della vicenda (massime nell’ambito di una rilettura fumettistica), risultano spesso crude e banalotte (l’effetto stroboscopico e quindi il rosso diffuso al finale terzo). La grevità dei momenti comici emerge abbastanza bene, la solennità di quelli tragici (l’aria del veleno, con il fantasma di Tebaldo che perseguita Giulietta) molto meno.
Riteniamo che il Roméo non si possa montare se si è sprovvisti di un grande tenore e, in subordine, di un soprano leggero (ma sarebbe meglio lirico-leggero, specie se si ha la velleità di inserire l’aria del veleno, espunta con il consenso dell’autore fin dalle prime esecuzioni – e non senza ragione!) e di un direttore in grado di rendere la forza della tragedia ma anche lo charme di questa musica. Venendo a mancare questi tre elementi (ma soprattutto il primo) di Roméo rischiano di cogliersi solo i difetti (una certa prolissità e un buon numero di passaggi di ottima, spesso squisita fattura ma scarsa ispirazione) e non i pregi, almeno altrettanto numerosi.
Cutler ha sfoggiato una voce lirico-leggera piuttosto nel naso e scarsamente proiettata, che a ogni tentativo di smorzatura diventa fievole e bianchiccia, mortificando intenzioni interpretative anche lodevoli, soprattutto nei primi due atti. L’acuto è sempre duro e sforzato, per giunta del tutto privo di squillo. Il momento peggiore è stato sicuramente il secondo quadro del terzo atto, che richiede, come abbiamo già avuto occasione di esporre, una sicurezza sul passaggio cui il tenorino americano sembra totalmente estraneo.
La signora Machaidze parte proprio male, con un valzer da avventizia del canto: assai imprecisa nella coloratura, qua e là stonacchiante al centro e con acuti strillati. Il volume è assai limitato e, come accade alle voci non in maschera, i piani e i pianissimi sono al limite dell’udibile. L’eleganza, la maliconia e la tenerezza del personaggio risultano del tutto assenti, tanto nel fraseggio quanto nel portamento scenico (tutt’altro che agevolato dagli estrosi costumi). Le cose vanno un po’ meglio alla scena del balcone, in cui l’attacco di “Hélas! Moi, le haïr?” ha dalla sua almeno una certa continenza espressiva, presto dimenticata nel finale d’atto (peraltro con taglio del da capo di “Ah ne fuis pas encore”, con buona pace di Gounod che giudicava basilare la ripresa della sezione conclusiva del duetto). Nuovi suoni acidi e sgallinanti al quartetto delle nozze e altri appena più controllati (forse anche per un venire meno delle forze?) nel “Nuit d’hyménée”, finché si arriva alla grande aria del veleno, che la Machaidze affronta con temerarietà ma anche con una voce ormai ridotta ai minimi termini, priva di morbidezza, ignara di che cosa sia lo slancio e la saldezza in acuto e con imbarazzanti suoni intubati sotto. Come possa questa ragazza, innegabilmente vivace e temperamentosa, essere considerata una promessa del canto, è qualcosa che sfugge alla nostra comprensione. Certo i limiti tecnici risultano meno evidenti che non nell’Elvira bolognese, ma ciò è merito (?) della parte, non dell’artista, che è sempre la medesima.
Giorgio Giuseppini nei panni di Frate Lorenzo, che la regia trasforma in prete di strada, ha una maggiore cognizione del canto e una voce più importante di quella dei protagonisti, sebbene assai corta in acuto: gli fa però difetto l’ampiezza del vero basso nobile e il vibrato risulta un po’ troppo accentuato.
Markus Werba, in una parte da fine dicitore quale Mercutio, dà prova di uno strumento piccolo e grigio e di un fraseggio che ben si accorda con la voce, tanto da rendere spento e tedioso un brano di grande effetto quale la ballata della Regina Mab. Analoghe considerazioni valgano per Ketevan Kemoklidze, la solita microsoubrette con velleità da mezzosoprano acuto, sguaiata e anche stonata. Il Capuleti di Luca Dall’Amico è il classico tenore dalla voce legnosa che gioca al basso-baritono grand seigneur. Un gioco pericoloso, come dimostra l’aria “Allons jeunes gens”, privata di ogni nobiltà e caricata di suoni rozzi e fiochi.
Di livello medio-basso i comprimari, con menzione onorevole per Nicolò Ceriani, Paride che sfoggia la voce più corposa e meglio emessa di tutto il cast, e disonorevole per Michele Bianchini, becero e stonatissimo nei panni del Duca di Verona.
Carlo Montanaro ha retto con mano discreta le fila del tutto, ma senza trovare mai la cifra caratteristica del dramma, quella fusione di esprit français, lirismo e dramma che del Roméo è la chiave. L’orchestra ha suonato discretamente, ma con infinita piattezza, non certo riscattata dai clangori plebei delle scene di massa (terribile in questo senso il finale terzo). Montanaro ha però avuto l’indiscutibile merito di non coprire mai, se non appunto nel grande concertato “Ah jour de deuil”, le voci, tutt’altro che immense, dei solisti.
Damiano Michieletto, di cui avevamo molto apprezzato la Gazza ladra allestita per il Rof, confeziona uno spettacolo sfarzoso e ricco di verve, ma estraneo al clima dell’opera di Gounod, che non è West Side Story né Grease. La scena fissa (un enorme giradischi) consente di ridurre i tempi morti ma risulta eccessivamente spoglia e alla fine anche poco funzionale per i cantanti, che vi si muovono quasi con circospezione e con movimenti spesso goffi (vedi ad esempio la rissa al terzo atto). Le luci, che avrebbero dovuto giocare un ruolo essenziale nel tratteggiare il lato onirico della vicenda (massime nell’ambito di una rilettura fumettistica), risultano spesso crude e banalotte (l’effetto stroboscopico e quindi il rosso diffuso al finale terzo). La grevità dei momenti comici emerge abbastanza bene, la solennità di quelli tragici (l’aria del veleno, con il fantasma di Tebaldo che perseguita Giulietta) molto meno.