Nel giorno della festa degli innamorati, il principe degli amorosi romantici, simbolo universalmente riconosciuto non solo dell’amore tragico ma dell’eleganza, della nobiltà, in una parola dello charme applicato a un genere, come l’opera, in cui questi elementi conoscono, o dovrebbero conoscere, il loro apogeo.
Che Gounod non pensasse, per la parte del giovane Montecchi, a una voce leggera è evidente qualora si consideri il repertorio di Pierre-Jules Michot, che la sera del 27 aprile 1867 creò l’opera al Théâtre Lyrique di Parigi: Mozart (Ratto dal serraglio, Don Giovanni, Flauto magico) e Massenet (fu il primo interprete della seconda versione di Mireille) ma anche, fra gli altri, Weber (Franco Cacciatore, Euryanthe, Oberon) e Gluck (una memorabile edizione di Alceste al fianco di Pauline Viardot).
La parte è lunga e ardua, di tessitura piuttosto acuta, con frasi di grande ampiezza che richiedono una notevole capacità di controllo del fiato, accenti ora languidi ora imperiosi (ma senza che questo comporti un inconsulto sbraitare), morbidezza di canto e capacità di valorizzare segni dinamici e indicazioni espressive. Insomma è come usa dirsi una parte per un cantante “fatto” e non “da fare”, magari in corso d’opera. In compenso è anche una parte che offre all’artista, o meglio al divo, l’opportunità di cogliere, nei panni dell’adolescente veronese, autentici trionfi. Come quelli che seppe cogliere, al Metropolitan di New York, Jean de Reszke, che per un decennio, dal 1891 al 1901, fu interprete di riferimento e quasi di monopolio del titolo, di solito in compagnia del fratello Edouard e con partner femminili quali Nellie Melba ed Emma Eames. Del favoleggiato “Salut tombeau” inciso da De Reszke e per suo ordine prontamente distrutto non possiamo che sognare, ma le testimonianze a 78 giri della cavatina di Romeo che trovate in coda a questo post sono eloquenti nel documentare un’arte, varia e differente per origine nazionale e sensibilità artistica dei singoli interpreti, ma alla base della quale troviamo sempre un’idea di canto assai diversa da quella oggi più diffusa.
Si può censurare l’abbassamento di tonalità, praticato peraltro non da tutti gli esecutori e non da tutti in identica misura, ma onestà intellettuale impone di domandarsi quale esecuzione in tono possa vantare la grazia lunare, l’aristocratico e appassionatissimo fraseggio e l’abbondanza di colori e sfumature sfoggiati da don Fernando de Lucia, o lo squillo e i fiati di proverbiale lunghezza di Hermann Jadlowker, o ancora la morbidezza squisita ma tutt’altro che diafana di Alfred Piccaver, stella dell’Opera di Stato di Vienna che Puccini definì “Rodolfo ideale”.
Nella sorridente galanteria del Madrigale, brano di tessitura piuttosto centrale, spicca la lettura di Florencio Constantino, tenore celebre per il Duca di Mantova ma avvezzo anche agli Ugonotti, alla Manon pucciniana e al Lohengrin, il quale canta a fior di labbro (seppure a tratti un poco aperto al centro), esegue le ornamentazioni scritte e altre ne aggiunge, sfoggiando nella parte conclusiva la saldezza del registro acuto. Ma in questa pagina a imporsi è Alain Vanzo, la bellezza della cui voce cede solo di fronte all’intelligenza che la governa. Ascoltare per credere la smorzatura su “une bouche vermeille”, che insiste sul passaggio (mi-fa), la messa di voce bissata alle parole “vous l’avez pris, rendez-le moi” e il la acuto in pianissimo in coda al brano. Lo stesso Kraus, Romeo fra i massimi, non riesce, complice un mezzo in natura assai meno dotato, a porsi alle stesse vertiginose altezze di questa autentica pietra miliare dell’interpretazione operistica.
Di un altro grande Romeo, quello di Beniamino Gigli, abbiamo scelto due brani registrati a undici anni di distanza uno dall’altro. Ebbene è nella scena del balcone che Gigli, certo stimolato dalla generosissima ed elettrica partner, offre la prova più significativa sotto il profilo interpretativo, sfoggiando nella perorazione “Ah! Je te l’ai dit, je t’adore” accenti di virile facondia che ben si sposano con la carezzevole e assai pertinente mezzavoce di “Ah ne fuis pas encore”, in cui il periglioso attacco sul la naturale di “Laisse, laisse ma main” è morbido e facilissimo.
La scena in cui a Romeo è richiesto il massimo spessore drammatico, dal punto di vista e scenico e vocale, è certo il finale del terzo atto, con la sfida a Tebaldo (attacco sul fa diesis, quindi nella zona del passaggio, e ascesa in successione al la e al si naturale acuti) e il successivo concertato “Ah jour de deuil”. Ancora una volta, difficile trovare contendenti all’altezza di un Vanzo che ha tutto, il timbro del ragazzo (anche nelle registrazioni degli anni maturi), la facilità e lo squillo in acuto (compresa la puntatura di tradizione al do sovracuto in chiusa), l’alterigia e poi la disperazione dell’omicida per caso e per sciagura. Altri potranno possedere voci più importanti, ma in una parte come questa, il mero volume ha una rilevanza assai marginale. Non che l’eccesso di volume e penetrazione sonora sia un problema ricorrente, per i Romei dei nostri giorni.
Il culmine emotivo dell’opera è però indiscutibilmente il quinto atto, in cui Romeo deve affrontare, prima del duetto conclusivo, il monologo “Salut tombeau”, autentico vertice del declamato in musica. Qui basta un suono brutto, o anche solo anodino, a sciupare l’effetto di una musica che, se eseguita convenientemente, rende difficile resistere alle lacrime. Le interpretazioni che proponiamo sono a vario titolo memorabili, ma due in particolare meritano una segnalazione: quella di Fernand Annseau, di grande pregnanza e somma autorevolezza vocale, con l’unico limite di suonare più maturo e disilluso di quanto richiesto dal personaggio (insomma è più don José che Romeo), e quella di Sergei Lemeshev, del quale proponiamo integralmente il finale. La “voce di pianto” del grande tenore russo non ha nulla di smanceroso o piagnucolante, è di una compostezza e di una sobrietà senza macchia, lo squillo argenteo è applicato alle frasi a piena voce come ai piani e pianissimi generosamente profusi, le filature e i rubati non si contano, e soprattutto sono sempre utilizzati in funzione espressiva. Difficile isolare un momento di particolare emozione nel complesso di una simile prova, ma il ritorno del tema del duetto del quarto atto, cesellato a mezzavoce, è semplicemente da brividi.
Gli ascolti
Gounod – Roméo et Juliette
Atto I
Ange adorable – Alfredo Kraus & Jeannette Pilou (1981), Alain Vanzo & Huguette Rivière (1960), Florencio Constantino & Alice Nielsen (1908), Beniamino Gigli & Lucrezia Bori (1923)
Atto II
Ah, lève-toi, soleil – Alfred Piccaver (1912), Hermann Jadlowker (1912), Charles Dalmorès (1912), Emile Scaramberg (1905), José Luccioni (1946), Lucien Muratore (1916), Fernando De Lucia (1908)
Ô nuit divine…Ah, ne fuis pas encore – Beniamino Gigli & Mafalda Favero (1934), Jussi Björling & Bidú Sayao (1947), Sergei Lemeshev & Irina Maslennikova (1947)
Atto III
Dieu, qui fis l’homme à ton image – Alfredo Kraus (con Bruscantini, Freni, Graham – 1981), Charles Hackett (con Rothier, Norena, Wakefield – 1935)
Allons! Tu ne me connais pas, Tybalt…Ah! jour de deuil – Jussi Björling (1947), Alain Vanzo (1976), Franco Corelli (1967)
Atto IV
Va! Je t’ai pardonné…Nuit d’hyménée – Charles Hackett & Eidé Norena (1935), Raoul Jobin & Patrice Munsel (1946)
Atto V
Salut, tombeau – Paul Franz (1919), Fernand Ansseau (1926), Miguel Villabella (1930), Sergei Lemeshev (1947)
Où suis-je?…Console-toi, pauvre âme – Sergei Lemeshev & Irina Maslennikova (1947)
Belle le selezioni. e ben illustrano quelli che sono stati i maggiori interpreti di romeo (con la mancanza, forse, di kozlovsky). ho però sempre trovato lemesev il migliore di tutti. anche perché con lui si trova – cosa rarissima – una perfetta identificazione fra voce, personalità vocale, timbro, sensibilità, accento naturale e personaggio. apre bocca ed è romeo. mai appare in qualche modo che costruisca il personaggio (cosa che, invece, sicuramente fa, da grande artista che era). e cosa che non si ritrova in kraus. certamente, vocalmente è pure egli straordinario, ma in lui latita quella freschezza (timbrica e di accento) che dovrebbe essere la cifra dominante del personaggio. tant’è che emerge soprattutto nel finale (il suo “console toi, pauvre âme” è difficilmente superabile), ove il giovane innamorato deve cedere il passo ad un personaggio che di colpo diventa tragico.
mi ha per contro sempre lasciato perplesso il tanto decantato bjoerling. certamente, la voce è splendida ed il canto pure. ma è pure piatto nel fraseggio. tutto è lasciato alla linea naturale del canto ed alle doti musicali innate, senza però che le stesse appaiano filtrate di una qualsivoglia visione interpretativa o esaltate da una ricerca di fraseggio un po’ espressivo. in quanto a ansseau e vanzo, hanno dalla loro parte – oltre che voce e vocalità in ordine – il fatto di essere francese e di padroneggiare così perfettamente la lingua, tanto da consentirli di essere magnifici “diseurs”. ma per me, lemesev li batte tutti.
cari saluti a tutti.
emanuele
Molto appropriata gli escolta per San Valentino, come l’anno precedente che è stato anche bellísimo…
Saluti da un ardente Cellettiana-laurivolpista.
Il finale dell’atto II di Gigli è tra le cose più alte che siano mai state captate da un apparecchio di registrazione del suono dai tempi dei cilindri di Edison ad oggi.