Il mito del primo uomo: Arturo dei Puritani

E’ inutile dire che il ruolo di Arturo nei Puritani, ultima opera scritta da Bellini, è da sempre uno dei topoi del repertorio tenorile, tra i più grandi ruoli dell’amoroso romantico. Questo perché il ruolo fu pensato ad hoc per un cantante che, estesissimo in alto, si giovava ancora dell’antica prassi dell’acuto in falsettone, che gli consentiva di reggere tessiture acutissime ma con uno slancio ed una forza di accento mai udite prima nei contraltini.

Questo, stando alla descrizione che ne fanno le fonti scritte a lui coeve, gli veniva anche da un mezzo di notevole qualità ed ampiezza, estraneo alla media dei tenori contraltini che lo avevano preceduto. Allorquando recensimmo l’omaggio discografico a Rubini di J.D.Florez vi riportammo il passo in cui Panofka descrive il Rubini celebre ed in fase matura, di fatto quello per cui Bellini scrisse tre titoli fondamentali, Pirata, Sonnambula e Puritani. Per la purezza del canto aereo Panofka lo metteva al pari dei castrati di un tempo; per la sua capacità di flettere la voce al pari di un soprano leggero; sul piano drammaturgico ed espressivo poteva cantare sia da tenore di forza che leggero.
La voce di Rubini era, ad una volta, d’una maschia possanza, meno per l’intensità del suono, che pel suo metallo vibrato, della più nobile lega, e d’una rara flessibilità, al pari d’un soprano leggiero: cosicché egli arrivava alle più alte note del soprano sfogato con una sicurezza ed una purezza d’intonazione così meravigliose, che si sarebbe tentato di crederlo un castrato. Rubini teneva, ad un tempo, del tenore di forza e del tenore leggiero…….Uno de rari meriti di questo cantante consisteva nel potere cantare pianissimo, e far già così un grande effetto; di servirsi del primo registro ( volgarmente e falsamente chiamato di petto ) fino al sol solamente, e d’avere unito il primo al secondo registro in modo, da potere, senz’ombra di sforzo, emettere collo stesso vigore il si b, il si e il do……”( E. Panofka, Voci e cantanti, Firenze, 1871, pg. 97-98 )


Le parole di Panofka sono molto importanti, poichè descrivono Rubini a circa 40 anni dalla prima rappresentazione, alle soglie del tardo Verdi, con voci come Tamberlick e Tiberini nelle orecchie. Sebbene nei Puritani Bellini non abbia più spinto il suo tenore preferito alle vette di Gualtiero o di Elvino prima maniera, il ruolo rimase a lungo legato al nome di Rubini, e soltanto in forza della Grisi, prima Elvira, venne riproposto sulle scene parigine e londinesi, interprete il suo consorte Mario, epigono di Rubini. In Italia invece il titolo circolò grazie all’altro celebre “imitatore” di Rubini, Nicolaj Ivanoff.
Fu comunque una “deriva”progressiva del ruolo verso il tenore cosiddetto di grazia, perché capace di reggere l’altezza della scrittura di Arturo e di emetterne i relativi sopracuti, magari privandolo di parte del suo vigore drammaturgico. Con tenori come Roberto Stagno, prima parte di carriera, Checco Marconi, Alessandro Bonci, Giacomo Lauri Volpi ( che li cantò dal ’21 al ’23, per poi riprenderli nel ’33 al Maggio Musicale Fiorentino e nel ’51 con la Callas ), Dino Borgioli, sino a Kraus, si compone la linea degli interpreti “leggeri”. Termine che, vale la pena di essere ripetuto, non ha nulla a che vedere con i tenori corti, bianchi e falsettanti, che circolano dal dopoguerra con la asserita specializzazione mozartiana e rossiniana (sino all’arrivo di Blake e Merritt): non per nulla erano tenori che affrontavano senza difficoltà Lucia, Favorita, Sonnambula e alcuni di loro i più significativi titoli del Grand-Operà.
Un altro diverso gruppo è costituito da Hipolito Lazaro (Arturo al Met nel ’18 con la Barrientos ), Mario Filippeschi, Gianni Raimondi e Luciano Pavarotti, con i quali Arturo riacquista un maggior peso vocale, perdendo, però, i connotati astratti dell’eroe romantico e buona parte del rispetto di quei numerosissimi segni di espressione che Bellini aveva posto in spartito. Segni di espressione che, nelle incisioni più arcaiche quale quella di Marconi, appaiono addirittura amplificati ed arricchiti dagli interpreti rispetto a quanto previsto dall’autore.
In altra sede abbiamo già commentato l’esecuzione di Checco Marconi. Non possiamo dire che Rubini o Mario cantassero come Marconi, ma che il modello di Marconi venga da molto lontano, ossia dalle origini o quasi del titolo belliniano è scontato. Nessuna esecuzione successiva è varia, quanto a dinamica ed agogica, come il reperto archeologico di Checco Marconi. Nessun tenore, se non Lauri Volpi (di cui forse andrebbero anche ascoltati per le idee interpretative i reperti registrati nel 1959) ed in parte Fleta e Lazaro, è in grado di evocare all’ascoltatore moderno un’idea di canto tenorile differente da quella cui siamo abituato negli ultimi cento anni. Quell’idea di cui il primo Arturo fu indiscutibile inventore.

Arturo non spaventa solo per gli acuti ed i sopracuti scritti, quanto per la tessitura, molto alta in parecchi momenti ed ampiezza e slancio drammatico. Di certo Arturo ha il carattere dell’eroe nobile, lirico ma pare connotato anche da quella maschia possanza che Panofka indicava come peculiarità del canto di Rubini maturo. Gualtiero del Pirata, ad esempio, momento chiave nella definizione del tenore romantico, lo era molto meno. Una delle peculiarità di questo ruolo consiste certo nella gran copia di forcelle, messe di voce e smorzature, spesso poste in sequenza, come nelle prime battute di “Ah te, o cara, amor talora”, su scrittura quasi orizzontale, oppure in frasi come “…tra la gioja e l’esultar.. “ ove Arturo deve eseguire una lunga messa di voce al F nella salita al la acuto; oppure, ad esempio, nell’aria del terzo atto, in chiusa di prima strofa, ove è prescritta una messa di voce nella salita re -si bem acuto e quindi di nuovo una messa di voce e successiva smorzatura sui sol puntati di “..ogni gioja gli par duol…”; idem dicasi per la seconda strofe, le cui frasi conclusive “ Sempre eguali ha i luoghi e l’ore…” sono ricchissime di forcelle singole e doppie. Un canto lontano da qualunque sentore di monotonia o piattezza dinamica per un tenore capace di controllare la voce a qualunque altezza. I fiati di Arturo sono poderosi, immensi, a dare ampiezza alla trenodia del canto belliniano: le legature scritte non lasciano scampo nemmeno in quei limitati passi ove ancora traspare il Rubini virtuoso, come nella sequenza di quartine e duine prescritte legate e con messa di voce-smorzatura di “….mio contento, il mio contento…” sempre dell’ ”Ah te o cara”, oppure ancora nell’aria finale ove compare anche un gruppetto, quartine etc, per giunta con segni di corona, che l’esecutore era chiamato a gestire, ossia …rimpolpare ancora (!) a piacimento. E’ scontata la vena anche malinconica del personaggio amoroso belliniano, che trova nell’aria dell’ultimo atto la sua palestra di accenti patetici ma non certo lamentosi.
Panofka, infatti, parla di accento scandito, di fraseggio scultoreo riferito a Rubini (che, non dimentichiamo, nella fase terminale della carriera fu considerato anche un grandissimo Edgardo, altro ruolo sacro del romanticismo tenorile..) ed il significato delle parole lo si può cogliere esaminando la vocalità che richiede Arturo alla scena della sfida: principia con l’indicazione di “con forza”, prevede una bella corona su si nat di “audace”, richiama anch’essa qualche passo vocalizzato (come accadrà anche in Lucia), chiedendo ad Arturo di fraseggiare in una zona (mi3- sol3) analoga a quelle dei personaggi rossiniani pensati per David e sulla cui vocalità Rubini si era formato.

Quanto al celebre duetto con Elvira, in origine un vero “ duettone “ cui venne scorciato il liricissimo “ Da quel dì che ti mirai” che sentiamo ripristinato da Bonynge con Pavarotti e la Sutherland ed oggi reintegrato nell’edizione critica ( vedi post relativo ), esso richiede accento lirico ma anche uno slancio straordinario. Nella seconda sezione del “Vieni vieni tra queste braccia “ , quella eseguita all’unisono, Arturo canta alla terza sopra Elvira, in zona fa-si nat, con tanto di corona su la nat di “ah deh vieni…” , re nat sopracuto attaccato scoperto e da eseguirsi rallentando (!!!!) di “t’amo si”, svariate forcelle nelle battute seguenti e corone su “d’immenso d’immenso amor” su sol e la nat, inezie rispetto a quanto vien prima! E dopo! con il pesantissimo Largo maestoso “ Credeasi misera”. Le ampie legature, le forcelle e gli accenti non lasciano dubbio alcuno sul come vada eseguito, potendolo eseguire !, questo monumentale finale, con frasi che partono dalla zona rebem-do-rebem-mibem, e salgono al fa-mibem-rebem-fa, quindi a solbem-fa-mibem-fa, salite al la bem, e quindi con gli slanci sino al re bemolle ed al fa sopracuti che han fatto la leggenda del canto, di Arturo e del suo primo interprete.
Che dire ancora? Se questo non è un mito di primo uomo, allora non ci sono miti!

Gli ascolti

Bellini – I Puritani

Atto I

A te, o caraHipolito Lazaro (1916), Giacomo Lauri-Volpi (1922), Miguel Fleta (1923) Giacomo Lauri-Volpi (1928), Alfredo Kraus (1966)

Ferma! Invan rapir pretendiAlfredo Kraus, Piero Cappuccilli & Corinne Curry (1969), Luciano Pavarotti, Sesto Bruscantini & Mirella Fiorentini (1969)

Atto III

Son salvo, alfinGianni Raimondi (1959), Nicolai Gedda (1963), Luciano Pavarotti (1969)

Finì…me lassa!…Vieni fra queste bracciaFrancesco Marconi & Maria Galvany (1907), Hipolito Lazaro (1916), Alfredo Kraus & Joan Sutherland (1966)

Un pensiero su “Il mito del primo uomo: Arturo dei Puritani

  1. “Nessun tenore, se non Lauri Volpi ( ed in parte Fleta e Lazaro,) è in grado di evocare all’ascoltatore moderno un’idea di canto tenorile differente da quella cui siamo abituato negli ultimi cento anni. Quell’idea di cui il primo Arturo fu indiscutibile inventore.”

    Questa è una grande verità.Grazie per aver scelto di ricordare. Grande per sempre Lauri Volpi.

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