I Contes d’Hoffmann: una delle più straordinarie opere mai scritte, una gemma del repertorio francese che grandi, immensi artisti hanno contribuito a eternare nel ricordo del pubblico. Mai questo capolavoro ci era parso lungo, prolisso, in una parola… pesante. Fino a ieri sera.
Emmanuel Villaume si è confermato bacchetta poco elegante e assai greve, poco o nulla adatta ad accompagnare un canto, che, mai come ieri sera, avrebbe avuto bisogno di essere sostenuto, guidato, corretto e confortato dalla buca. Tempi bislacchi, nessuna ricerca di colori foschi o misteriosi, chiasso scambiato per brillantezza, sonorità sovente bandistiche.
Il tenore Arturo Chacón-Cruz, inizialmente previsto nel secondo cast, promosso al primo per rimpiazzare l’annunciato e, poi, svanito Roberto Aronica, ha mostrato una voce naturalmente bella e molto sonora, ma anche una scarsa cognizione dei rudimenti tecnici dell’arte, cantando in modo stentoreo, tutto sul forte-mezzoforte e di gola. Il registro centrale è suonato sovente stonato, gli acuti assai tirati, pur senza arrivare ai disastri recenti di un Filianoti o di un Villazón. Ma la strada, ahimè, è quella, e speriamo che il signor Chacón-Cruz, che sappiamo essere giovane (classe ’77) e che sicuramente ha una bella dote di natura, possa evitare il destino cui sono andati incontri i summenzionati colleghi. La speranza è l’ultima a morire, anche perché il timbro è realmente bello e di qualità. Da segnalare il taglio della seconda strofa sia nell’aria dell’atto di Olympia sia nel brindisi dell’atto di Giulietta.
Non nutrivamo alcuna speranza e illusione nei riguardi di Desirée Rancatore, voce ormai slabbrata e stinta, un pigolio che dall’afonia dei gravi si arrampica su per i tornanti di un sovracuto divenuto ormai precario e aleatorio quanto il resto della gamma. Rileviamo che la signora, priva della flessibilità e lucentezza tipiche del soprano leggero, ha un rapporto sempre più conflittuale con l’intonazione, tanto che la gag della bambola, cui si scaricano le pile risulta colma di umorismo involontario.
Vera sorpresa della serata è l’Antonia di Raffaella Angeletti, che con vocina vetrosa, tiratissima e, spesso, gridata in acuto, affronta una grande parte di soprano lirico senza possederne l’ampiezza e soprattutto sfoggiando una proprietà di accento, che apparenta da subito la cantatrice cardiopatica a una piccola Nedda. Prudentemente evitata, nel terzetto, la salita al do diesis scritto, appena toccato e, strillato, il re nat. in vocalizzo.
Monica Bacelli non ha nulla di Giulietta, né il mezzo importante, richiesto dalla natura drammatica del personaggio come da quella dello strumentale su cui si trova a cantare (barcarola a parte), né il fascino fatale della cortigiana domiciliata sul Canal Grande. La voce è povera e opaca, priva di spessore in basso (dove spesso sconfina nel parlato) e stridula in acuto.
Quarta in mezzo a cotanto muliebre senno la Musa/Nicklausse di Nino Surguladze, stilisticamente ben poco plausibile a causa dei gravi gonfiati a dismisura, in una sorta di penosa imitazione della Barbieri, senza il sontuoso timbro della Fedora nazionale.
Simone Alberghini, anche lui inizialmente reclutato per il secondo cast, ha sostituito “last minute” Alfonso Antoniozzi nelle parti dei quattro Diavoli, cantando con voce artificiosamente scurita e non molto sonora, ma risultando se non altro corretto e sufficientemente vario nel fraseggio. A riprova del fatto che Simone Alberghini dovrebbe seriamente e costantemente cantare in corda di baritono sta l’esecuzione di “Scintille, diamant” in tonalità di baritono con acuti facili e sonori. Queste virtù, che in altri tempi non sarebbero state sufficienti a concludere una recita di provincia senza “incidenti” di percorso, lo hanno reso il miglior elemento del cast.
Emmanuel Villaume si è confermato bacchetta poco elegante e assai greve, poco o nulla adatta ad accompagnare un canto, che, mai come ieri sera, avrebbe avuto bisogno di essere sostenuto, guidato, corretto e confortato dalla buca. Tempi bislacchi, nessuna ricerca di colori foschi o misteriosi, chiasso scambiato per brillantezza, sonorità sovente bandistiche.
Il tenore Arturo Chacón-Cruz, inizialmente previsto nel secondo cast, promosso al primo per rimpiazzare l’annunciato e, poi, svanito Roberto Aronica, ha mostrato una voce naturalmente bella e molto sonora, ma anche una scarsa cognizione dei rudimenti tecnici dell’arte, cantando in modo stentoreo, tutto sul forte-mezzoforte e di gola. Il registro centrale è suonato sovente stonato, gli acuti assai tirati, pur senza arrivare ai disastri recenti di un Filianoti o di un Villazón. Ma la strada, ahimè, è quella, e speriamo che il signor Chacón-Cruz, che sappiamo essere giovane (classe ’77) e che sicuramente ha una bella dote di natura, possa evitare il destino cui sono andati incontri i summenzionati colleghi. La speranza è l’ultima a morire, anche perché il timbro è realmente bello e di qualità. Da segnalare il taglio della seconda strofa sia nell’aria dell’atto di Olympia sia nel brindisi dell’atto di Giulietta.
Non nutrivamo alcuna speranza e illusione nei riguardi di Desirée Rancatore, voce ormai slabbrata e stinta, un pigolio che dall’afonia dei gravi si arrampica su per i tornanti di un sovracuto divenuto ormai precario e aleatorio quanto il resto della gamma. Rileviamo che la signora, priva della flessibilità e lucentezza tipiche del soprano leggero, ha un rapporto sempre più conflittuale con l’intonazione, tanto che la gag della bambola, cui si scaricano le pile risulta colma di umorismo involontario.
Vera sorpresa della serata è l’Antonia di Raffaella Angeletti, che con vocina vetrosa, tiratissima e, spesso, gridata in acuto, affronta una grande parte di soprano lirico senza possederne l’ampiezza e soprattutto sfoggiando una proprietà di accento, che apparenta da subito la cantatrice cardiopatica a una piccola Nedda. Prudentemente evitata, nel terzetto, la salita al do diesis scritto, appena toccato e, strillato, il re nat. in vocalizzo.
Monica Bacelli non ha nulla di Giulietta, né il mezzo importante, richiesto dalla natura drammatica del personaggio come da quella dello strumentale su cui si trova a cantare (barcarola a parte), né il fascino fatale della cortigiana domiciliata sul Canal Grande. La voce è povera e opaca, priva di spessore in basso (dove spesso sconfina nel parlato) e stridula in acuto.
Quarta in mezzo a cotanto muliebre senno la Musa/Nicklausse di Nino Surguladze, stilisticamente ben poco plausibile a causa dei gravi gonfiati a dismisura, in una sorta di penosa imitazione della Barbieri, senza il sontuoso timbro della Fedora nazionale.
Simone Alberghini, anche lui inizialmente reclutato per il secondo cast, ha sostituito “last minute” Alfonso Antoniozzi nelle parti dei quattro Diavoli, cantando con voce artificiosamente scurita e non molto sonora, ma risultando se non altro corretto e sufficientemente vario nel fraseggio. A riprova del fatto che Simone Alberghini dovrebbe seriamente e costantemente cantare in corda di baritono sta l’esecuzione di “Scintille, diamant” in tonalità di baritono con acuti facili e sonori. Queste virtù, che in altri tempi non sarebbero state sufficienti a concludere una recita di provincia senza “incidenti” di percorso, lo hanno reso il miglior elemento del cast.
Avvertenza: gli ascolti, che non sono quelli paradigmatici per i Contes riteniamo bastino e avanzino, per commentare una serata… così!
Gli ascolti
Offenbach – Les Contes d’Hoffmann
Atto I
Les oiseaux dans la charmille – Alda Noni (1951)
Atto II
Ah! je le savais bien – Catherine Malfitano & Neil Shicoff (1980)
Atto III
Amis, l’amour tendre et rêveur – Alain Vanzo (1985)