La libertà testuale che accompagna ogni esecuzione del capolavoro verdiano, deriva, sostanzialmente, dalla complessità delle vicende compositive (complessità relative alla sua gestazione, non alla forma esecutiva). Senza la presunzione di ripercorrerne analiticamente i dettagli (e, anzi, rinviando, per questi, alla lettura di testi specifici: tra tutti il fondamentale saggio di Julian Budden sulle opere di Verdi), esse si possono qui riassumere in alcuni cenni, necessari a comprendere il senso del discorso e l’inammissibilità delle manipolazioni. Sono note le difficoltà dell’autore nelle fasi immediatamente successive alla stesura dell’opera: capricci di divi, esigenze contrattuali e, non da ultime, contingenze di natura più pratica (quali l’orario dell’ultima corsa delle ferrovie suburbane, o il fatto che a Parigi il sipario dell’Opéra non potesse levarsi prima delle 19 – “perchè non si vuol preciptar il desinare della gente” – e calare oltre la mezzanotte), costrinsero Verdi a praticare alcuni tagli anteriormente alla prima rappresentazione. Sono i famosi otto brani “riscoperti” a cavallo degli anni ‘60/’70 dai musicologi Ursula Gunther (poi curatrice dell’edizione critica pubblicata da Ricordi) e David Rosen e dal critico musicale Andrew Porter:
1 – il Preludio e Introduzione che apriva l’opera in luogo della fanfara dei corni e il coro dei cacciatori tra le quinte: in origine Verdi aveva predisposto un’ampia scena corale in cui i boscaioli e le loro mogli si lamentano della miseria causata dalla guerra, su cui si inserisce l’arrivo della Principessa di Valois accompagnata dal suo seguito. In quell’occasione le viene presentata una vedova che ha perso i due figli nella battaglia di San Quintino: Elisabetta commossa le dona una catena d’oro e promette di impegnarsi per far cessare le ostilità (che crede di poter ricomporre grazie all’imminente matrimonio con l’Infante di Spagna). Dopo un altro episodio corale dove si invoca la benedizione di Dio, la scena prosegue con la più consueta fanfara in lontananza che aprirà effettivamente l’opera la sera della prima;
2 – una considerevole sezione (40 battute) del Duetto tra Carlo e Posa nell’atto II, in cui Rodrigo – appena tornato dalle Fiandre – narrava all’amico la tragica situazione delle Province Fiamminghe, viene tagliata: sia per le difficoltà incontrate dal baritono (che riteneva il brano troppo faticoso), sia per una certa superfluità testuale riscontrata da Verdi stesso;
3 – nel Duetto tra Posa e Filippo (al termine dello stesso atto II), vengono tagliate le 42 battute in cui il Re confida i suoi sospetti circa l’infedeltà della moglie e il tradimento del figlio (provocando, però, un vuoto drammaturgico: il sovrano dichiara al Marchese di volersi confidare, ma poi non dice nulla…);
4 – una trentina di battute del coro fuori scena accompagnato da tamburelli baschi e nacchere, all’interno della scena dei preparativi per il Ballo, all’inizio dell’atto III;
5 – un piccolo taglio nell’ingresso di Elisabetta nello studio di Filippo dopo il colloquio con l’Inquisitore, nell’atto IV;
6 – un lungo Duetto tra la Regina ed Eboli che costringe quest’ultima a scendere più volte sotto il rigo (tra i primi ad essere eliminato): probabilmente il taglio fu anche motivato dall’inadeguatezza dell’interprete (Verdi scrisse la parte pensando quasi ad un contralto e si ritrovò con un soprano di ampia estensione);
7 – il grande Concertato successivo alla morte di Posa (“Qui me rendra ce mort”) tra Filippo, Carlo e Coro di Grandi, il cui tema verrà riutilizzato dall’autore per il Lacrymosa del Requiem, viene espunto a causa dell’insoddisfazione del baritono che interpretava Rodrigo: questi non tollerava di restare inattivo in scena (quale cadavere) per un tempo troppo ampio per una star, vedendosi impedito, di fatto, il tributo dell’applauso alla sua gran scena (e infatti, nelle repliche, l’atto terminerà direttamente con la morte di Posa);
8 – al termine dell’atto IV venne eliminata l’irruzione di Eboli mascherata da ragazzo che si avvicina alla Regina, confidandole di aver lei sollevato il popolo per poter salvare la vita all’amato Carlo: taglio giustificato dalla prolissità e dallo scarso rilievo musicale del pezzo.
Tolti questi brani (e tralasciando quelli progettati da Verdi, ma mai realizzati, come l’aria ternaria per il protagonista, poi sostituita da “Toi qui sus le néant”) l’opera andò in scena nella forma secondo la quale fu pubblicata da Troupenas. Tuttavia il travaglio compositivo non era concluso. Nelle repliche successive l’autore autorizzò che l’atto IV terminasse con la morte di Posa (probabilmente sfinito dalle pressanti lamentele del baritono), ma poi si disinteressò delle successive repliche (che i resoconti dei giornali contemporanei tramandano come piene di pesanti e ulteriori tagli e deficitarie nel valore degli interpreti). L’opera non fu un grande successo e ben presto sparì dai cartelloni dell’Opéra (almeno nella sua veste originale), tanto da venir ripresa solo ai giorni nostri. Don Carlo, tuttavia, lasciato Parigi iniziò la sua strada in Italia e in Europa: innanzitutto venne predisposta la versione ritmica in italiano (da eseguirsi fuori dalla Francia) e venne curata la pubblicazione da Ricordi. Verdi volle inserire nel contratto una clausola di salvaguardia (che andrebbe riletta anche dai presuntuosi esecuteri odierni) in cui l’autore imponeva che l’opera venisse eseguita interamente nella forma in cui venne presentata a Parigi nel 1867, senza aggiunte o tagli (salvo il balletto, lasciato facoltativo). La prima rappresentazione in lingua italiana avvenne però a Londra il 4 giugno del 1867: l’opera venne sfigurata. Atto I e balletto vennero eliminati del tutto. Duetto tra Filippo e Inquisitore accorciato. L’aria di Carlo spostata all’atto III. La grande aria di Elisabetta nell’atto V, infine, ridotta solo a parte dell’episodio centrale. Don Carlo arrivò poi a Bologna nell’ottobre dello stesso anno (la prima italiana) e il mese successivo a Milano, secondo la versione pubblicata da Verdi (cioè quella andata in scena a Parigi). Il successo sperato non arrivò e, anzi, nel 1871 a Napoli, fu un vero e proprio fiasco: circostanza che convinse Verdi – per le rappresentazioni del 1872, sempre al San Carlo – a rimettere mano alla partitura. La revisione coinvolse il duetto tra Posa e Filippo (su nuovi versi del Ghislanzoni), che venne riscritto quasi per la metà e il duetto tra Elisabetta e Carlo nell’ultimo atto, su cui vennero praticati due tagli. Anche così l’opera non ottenne il riscontro sperato e, nonostante le vive proteste dell’autore, ogni (rara) rappresentazione era segnata da nuove omissioni, aggiunte, spostamenti: nel 1874 a Reggio Emilia vengono aggiunti brani del Macbeth e, addirittura, degli Ugonotti; anche nel ’78 alla Scala l’opera subì pesanti manomissioni, alle quali Verdi non seppe che rispondere con sconsolato sarcasmo. La storia di Don Carlo però, doveva proseguire: già nel 1875 l’autore pensava di ridurlo a proporzioni più agili, sia per renderlo più gradito al pubblico, sia per l’insofferenza verso gli eccessi del grand-opéra (sempre sopportati con dispetto da Verdi), sia per effettiva maturazione dello stile compositivo. Il lavoro di revisione fu lungo e complesso: durò più di 9 mesi e necessitò l’intervento dei librettisti originari. Più della metà dell’opera originale viene eliminata e riscritta: vengono tagliati senza rimpianti l’intero atto I, la prima scena con i ballabili dell’atto III (sostituita da un breve preludio) e il finale dell’opera (ora più conciso e breve); viene riscritto il duetto Posa/Filippo, gran parte della scena Filippo/Elisabetta nell’atto IV, il successivo quartetto e la sommossa; così pure il duetto Elisabetta/Carlo e il finale; l’aria di Carlo è spostata (abbassta e modificata) nell’atto II. Una revisione radicale fortemente voluta da Verdi: non dovuta, cioè, a contingenze pratiche o a cause di forza maggiore, bensì ad un complesso ripensamento artistico. Verdi scrisse che l’opera così aveva la sua forma definitiva e così avrebbe dovuto essere rappresentata, senza alcuna alterazione (unica concessione i ballabili, ma se eseguiti, si sarebbe dovuto eliminare il preludio composto ex novo). In questa veste Don Carlo viene pubblicato da Ricordi nella sua forma finale, approvata e sanzionata dall’autore. E così andò in scena alla Scala di Milano, il 10 gennaio 1884. Ottenendo finalmente il successo che meritava (segno inequivoco della bontà della revisione e del netto miglioramento alla struttura dell’opera). Verdi scrisse ad Arrivabene che la nuova versione aveva migliorato l’originale, dandogli “più concisione e più nerbo”. Ma ancora non era finita: il 29 dicembre del 1886, a Modena, l’opera venne rappresentata nella sua redazione finale dell’84, ma con l’aggiunta dell’atto di Fointainebleau e il reintegro, in quella sede, della sortita di Carlo (nella sua prima stesura). Di tale ultima versione (voluta dal teatro) l’autore si disinteressò, restò a Genova e si limitò a consentire (pur con scetticismo) al ripristino. Tuttavia l’anno successivo tale versione fu data alle stampe da Ricordi – forse con intento puramente commerciale – ma non ebbe molta fortuna in sede esecutiva.
Un lavoro complesso di revisioni, ripensamenti e riscritture, certamente, ma non troppo distante da quello predisposto da Verdi per altre opere. Si pensi al Macbeth, alla Forza del Destino, al Simon Boccanegra. Eppure nessuno ha mai ritenuto i suddetti titoli alla stregua di opere aperte ad ogni sorta di collage e assemblaggio tra le differenti versioni. E spesso si tratta di redazioni profondamente diverse, sia nella struttura che nel tessuto musicale, con interi episodi o scene riscritte, tagliate e aggiunte. Nessuno si sognerebbe di eseguire un Simon Boccanegra nella sua seconda versione, ma con i festeggiamenti al porto (ripescati dalla redazione del 1857) al posto della scena del Palazzo Ducale; oppure una Forza del Destino fedele alla lettera del 1869, ma col brutto finale del 1862 (e meno che mai verrebbe in mente di seguire, in alcuni brani, la terza versione, oggi dai più quasi ignorata: La Force du Destin del 1882?). Eppure con Don Carlo ci si permette qualsiasi arbitrio! Al termine di questo ampio excursus, che testimonia null’altro che il procedere per fasi della scrittura verdiana, colta nel suo momento di transizione, all’inizio, cioè, dell’ultima fase della sua parabola creativa, mentre andava sperimentando nuove soluzioni e linguaggi espressivi, possono essere individuate due sole versioni autentiche (cioè finite) dell’opera: quella andata in scena l’11 marzo del 1867 al Théatre de l’Académie Impériale de Musique a Parigi, in cinque atti e il balletto di prammatica; e quella riveduta e corretta dall’autore per le rappresentazioni scaligere del gennaio del 1884, in quattro atti, senza balletto e con più della metà della musica completamente riscritta. Queste le uniche versioni licenziate da Verdi, approvate e stabilite con i crismi dell’ufficialità. Giacchè nè la versione del 1872, nonostante curata dal compositore per Napoli, può essere considerata definitiva, in quanto ancora segnata da “provvisorietà” e dovuta più all’occasione che ad un consapevole intento di revisione (Verdi non gradiva gli arbitrari rimaneggiamenti dei suoi lavori e, in quell’occasione, preferì metterci mano direttamente) e che, per questo, non fu mai data alle stampe (e che, come si è visto, è identica a quella del 1867, salvo due episodi); né la tarda redazione del 1886 per Modena può assurgere alla medesima dignità: essa infatti – che innesta l’atto di Fontainebleau sull’impianto della versione del 1884 – fu piuttosto “tollerata” da Verdi che voluta e comunque vista dall’autore con sospetto (si veda il carteggio con Arrivabene circa le valutazioni del compositore sull’atto francese: “dicono avesse musica bellissima”, scrive con sarcasmo). Tutto il resto – compresi i famosi pezzi eliminati prima della messa in scena parigina – pur essendo di fondamentale importanza musicologica (e spesso di eccezionale valore musicale) è stato espressamente scartato dall’autore. Ergo nessun recupero di quel materiale sarebbe lecito. Questo sostanzialmente per due motivi. Il primo è che Don Carlo è stato scritto nella seconda metà dell’800 (la prima è del 1867 e con le revisioni si arriva a sfiorare la fine del secolo): il rapporto tra compositore, cantante e opera è profondamte mutato dall’epoca di Haendel, Rossini e in misura minore Bellini e Donizetti. Questi scrivevano assecondando gli interpreti, sensibili ad ogni loro richiesta o capriccio, aggiungevano o tagliavano a seconda della necessità senza grossi scrupoli, e spesso poi, facevano “omaggio” di determinati brani a determinati divi. Con Verdi le cose cambiano: è il compositore al centro della creazione musicale, le sue idee e la sua sensibilità. Solo raramente l’autore accondiscende alle richieste del cantante, magari in contrasto con le ragioni teatrali dell’opera: lo stesso Verdi lo fece con Ernani (l’aria per Ivanoff scritta su insistenze di Rossini) e poche altre volte, per il resto le eventuali modifiche erano dovute esclusivamente a ripensamenti autoriali. Per questo motivo non si può trattare Don Carlo così come si tratterebbe Rinaldo o Tancredi o Lucrezia Borgia, dove ci sono tante varianti la cui scelta è lasciata alla sensibilità e alle capacità dell’interprete. Ma vi è anche un secondo motivo, squisitamente musicale: inserendo a piacimento brani eterogenei si corre il rischio di spezzare l’unità stilistica. Il Verdi che scrive nel 1866 non è lo stesso del 1884: passano vent’anni e, soprattutto, arrivano Aida, la Messa da Requiem, il rifacimento della Forza del Destino e il nuovo Simon Bocanegra. Dopo tre soli anni arriverà Otello! Inevitabilmente quei brani isolati, tolti dal loro alveo naturale e inseriti a forza nella versione ultima dell’opera, non nascondono la loro diversità, di stile e di linguaggio. Insomma, stonano. Perché, dunque, agire con tale disinvoltura nei confronti di un testo che mal si presta a certe operazioni di “taglia e cuci”? Ovviamente per appagare l’ego smisurato di direttori d’orchestra in cerca più della gloria personale – attraverso il preteso evento – che disposti a ben servire la musica di Verdi: e questo a discapito – naturalmente – di ogni forma di unità compositiva e coerenza drammatica (tanto ricercati e importanti per il compositore). A questo si aggiunga poi il plauso indiscriminato di certa critica che non fa mistero di ritenere il Don Carlo in quattro atti poco più che un aborto (peccato che tale aborto sia stato espressamente sanzionato dall’autore) e per cui pure la versione in cinque atti andrebbe ulteriormente “arricchita”, magari inserendo il lungo ed inutile preludio e introduzione, o il finale originale (Giudici, parla addirittura di colpevole preferenza nella scelta della redazione dell’84, fingendo di ignorare come il primo a dover essere portato sul banco degli imputati sarebbe Verdi…). “Sono solo note” scriveva Verdi. Ma alle superstar della bacchetta (Abbado in testa) non importa nulla. Non stupisce che Karajan (che grande direttore era davvero) opta per la più concisa e drammatica edizione in quattro atti. Tuttavia se trent’anni fa poteva anche avere un senso il recupero di certe pagine – da poco riemerse dall’oblio – oggi tale compito dovrebbe spettare unicamente al disco, che ha il vantaggio di permettere un comodo confronto tra ciò che è stato scartato e ciò che, invece, è stato reso definitivo. Così da consentire una visione d’insieme degli oggettivi miglioramenti rispetto alla stesura originale. Oggi poi vi è una specie di mania nel recuperare la primissima versione dell’opera (scelta in sé coerente, se seguita con rigore, anche se comporta la rinuncia ai grandi miglioramenti della redazione definitiva), ma liberamente modificata attraverso gli inserti più vari e ingiustificati di musica presa da revisioni successive. E non solo nella scelta di interi brani, ma pure intervenendo all’interno dello stesso pezzo, col risultato di “riscrivere” l’opera come se ci si trovasse di fronte ad un canovaccio della commedia dell’arte (un esempio di tale disinvoltura è il Don Carlo diretto da Pappano: un guazzabuglio, questo sì veramente “inestricabile”, di riscritture, inserimenti abusivi, arbitrii, che in nulla arricchiscono l’opera e la sua discografia, che qui tocca uno dei suoi momenti più infimi). E nonostane le ragioni della musica e della storia sconsiglino tali scelte avventate e incoerenti, c’è chi addita col marchio dell’arretratezza culturale e del “provincialismo” (ancora!) la scelta di eseguire l’edizione del 1884. Non si smentisce, in ciò, la Scala che, nella sua rincorsa ad aggangiarsi a certi (mal)vezzi della cultura europea e a scimiottare le scelte anche censurabili, ma estremamente a la pàge, approvate nei cenacoli più esclusivi , presenta una “sua” versione di Don Carlo. Non quello semplicemente in quattro atti, giammai, bensì un inedito remix: sulla struttura perfettamente compiuta del 1884, si innestano arbitrariamente non già l’atto francese (troppo “banale”) bensì due brani scartati dalla redazione primigenia dell’opera: il concertato sul cadavere di Posa (senza ovviamente l’originale sommossa che chiude l’atto) e lo scambio dei mantelli tra Eboli e la Regina. Tra l’altro quest’ultimo brano, collocato nella stesura originaria all’inizio dell’atto III, verrà eseguito prima del preludio (che tale brano, insieme al balletto, andrebbe a sostituire): scelta insensata, dunque. E con quali effetti? Rendere evidente la diversità di scrittura che, nel primo è musicalmente eccezionale (ma inevitabilmente già sentito), nel secondo è solo inutilmente prolissa (seppur non priva di giustificazione drammatica, la scena tra Eboli ed Elisabetta ha senso se seguita dalla Peregrina, di cui è parte integrante). Stavolta alla bacchetta c’è Gatti. Anche lui, come Abbado, alla ricerca della glorificazione personale attraverso l’abuso della musica di Verdi (il quale – per inciso – si è sempre battuto, anche con azioni legali, contro i liberi assemblaggi delle sue opere: proprio il Don Carlo, poi, è stato al centro di amare vicende, quando in giro per quell’Europa tanto ammirata dai nostri esterofili critici e musicanti, Londra e Vienna, veniva stuprato in edizioni spurie e sballate). Viene da dire, insieme al vecchio Carlo Marx, che la storia si ripete, ma mentre la prima volta è tragedia, la seconda è farsa.
Gli ascolti
Verdi: Don Carlos (prima stesura – 1866)
Atto II
Le voilà! C’est l’Infant – Robert Savoie & André Turp (1973)
Restez! Auprès de ma personne – Joseph Rouleau & Robert Savoie (1973)
Io rimango della mia opinione:la Scala avrebbe fatto bene a scegliere quest´anno la versione in 5 atti in francese,soprattutto perché a Milano non é mai stata eseguita.Sui rimaneggiamenti delle versioni Pretre a Venezia,Abbado a Milano e Pappano a Parigi,posso dire che in linea di principio sarebbe piú opportuno optare per una delle versioni esistenti e seguirla fino in fondo.Faccio notare peró che il problema si pone anche per altre opere.Per esempio il Don Giovanni si esegue normalmente in una versione che Mozart non ha mai immaginato.Lo stesso dicasi per il Boris Godunov dove spesso si esegue la versione 1874 senza i tagli apportati al finale del primo quadro del prologo e alla scena del convento di Novgorod e aggiungendovi la scena di San Basilio proveniente dalla versione 1869.Tornando al Don Carlo,l´ascolto dal vivo della versione 1866,quattro anni fa a Vienna,mi ha convinto che si tratta di una versione che ha una sua validitá e puó essere eseguita al pari delle altre.Posso aggiungere che qui in Germania si scarta decisamente la versione in 5 atti per un solo motivo:che il primo atto nel dramma di Schiller non esiste.Tra l´altro,Julian Budden,nel suo fondamentale studio sulle opere di Verdi,segnalava l´esistenza di una versione stampata in 4 atti e con le danze.Per concludere,secondo me il problema piú spinoso e la scena prima dell´Atto Terzo (secondo nella versione in 4 atti).Nella versione definitiva,abbiamo una pagina di altissima qualitá musicale come il Preludio,ma va perso uno snodo drammaturgico fondamentale come lo scambio degli abiti tra Elisabeth ed Eboli.
Un ultima aggiunta:anche nel predisporre la revisione,Verdi lavoró sul testo in francese.Pertanto sarebbe opportuno scegliere questa lingua anche eseguendo le versioni 1883 o 1886.
Saluti
Il problema, però, non è analogo al Boris o al Don Giovanni. I motivi che hanno condotto alle diverse redazioni sono assai differenti. Il Boris non venne mai rappresentato nella sua versione originale (ur-Boris), è solo “riscoperta” recente. E’ opera quindi, più aperta, mancante di una supervisione dell’autore alla pubblicazione della partitura. Discorso diverso per Don Giovanni. L’opera di Mozart (come quelle di Rossini, Bellini e Donizetti) prevede una serie di “alternative” dedicate a taluni interpreti: all’epoca il ruolo del compositore era diverso da come è oggi o ai tempi di Verdi e Wagner. La versione che si esegue consente il recupero di arie singole, pezzi chiusi, numeri, scritti espressamente per questo o quel cantante. Non si tratta di radicali revisioni dovute a ripensamenti estetici: Mozart NON riscrive Don Giovanni, aggiunge due arie ( nr. 10a e nr. 21b) ed un duetto (nr. 21a), e taglia due brani (nr. 20 e nr. 21) semplicemente per motivi di equilibrio interno. Non perchè ritenesse i nuovi pezzi migliori dei precedenti. Verdi fa tutt’altro: ripensa l’opera, la riscrive quasi del tutto! Si dovrà pur tener conto di tali ripensamenti. La versione del 1867 ha una sua validità, certo, e sarebbe stato forse più interessante, alla Scala, vedere quella. In 5 atti, in francese e con il balletto! Ma la versione in 4 atti è infinitamente più bella! E questo non lo dico io, ma Verdi! La versione del 1886 salva capra e cavoli…ma secondo me l’atto francese – pur musicalmente bellissimo – allunga “il brodo” e comprometta la tinta cupa che segna l’opera. La versione in 4 atti è compatta, tesa, drammatica. Perfetta e compiuta.
Ps: il problema dell’atto III (o II) è un pretesto. Verdi eliminò tutta la scena – coro, scambio mantelli e ballo – perchè l’uno necessario all’altro. Aggiungere lo scambio dei mantelli senza far seguire il ballo è follia (far seguire ad esso il preludio, poi, come farà Gatti) è puro scempio! Sul volume del Budden la cosa è ben spiegata (e pure Verdi riteneva che tolto il balletto, pure lo scambio di mantelli doveva essere cassato).
Pps: la versione in 4 atto con le danze in realtà non esiste autonomamente. Il fatto è che anche nella redazione in 4 atti dell’84 le danze compaiono come opzionali (non è esatto, infatti, dire che furono eliminate definitivamente). Verdi scrisse che potranno essere eseguite (ma in tal caso si elimini il preludio) nella forma completa e originale. Ergo detta versione è quella corrente. Non credo sia mai stata scelta.
Ppps: in merito alla lingua. Non sono assolutamente d’accordo sul fatto che si debba per forza rappresentare in francese e per diversi motivi:
1) opere in francese venivano eseguite solo in Francia: in tutto il resto d’Europa esse erano quasi sempre tradotte in italiano;
2) Verdi coinvolse i librettisti originali solo per comodità e per familiarità (oltre che per ovvi motivi contrattuali), ma era ben conscio che l’opera sarebbe stata rappresentata in italiano;
3) quando nel ’72 rivide l’opera per Napoli, Verdi incaricò Ghislanzoni di risistemare alcune parti del libretto tradotto (traduzione che l’autore avallò e approvò)