Ma non è questa la questione. Interessante e magari meritevole di future riflessioni.
Che le ultime due opere di Verdi abbiano attirato famose bacchette è confermato dalle registrazioni di Toscanini e Karajan, in primis, poi Solti, Barbirolli.
Il confronto Toscanini-Karajan, poi, è topico fondato sull’assioma che l’italiano sia poco attento al lirismo ed alle indicazioni dell’autore, rispettate alla lettera ed ampliate dal maestro austriaco.
Però altri ed illustrissimi direttori hanno dedicato la propria arte al Moro verdiano.
Così, stimolati dall’approccio, per la prima volta fuori della Scala di Riccardo Muti siamo andati a risentire le interpretazioni tutte live, di Wilhelm Furtwangler, Thomas Beecham, Clemens Krauss, George Szell e Fritz Busch.
Una premessa sono nella migliore delle ipotesi esecuzioni riprese dalla radio fra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Non sempre le orchestre sono le grandi orchestre e pure i cantanti non sono sempre vocalmente, tecnicamente e stilisticamente ineccepibili.
Il primo e perchè fu inteso come un antiKarajan è Wilhelm Furtwängler a Vienna nel 1951. Confesso di aver sempre avuto una certa perplessità e diffidenza nei confronti dell’Otello diretto nel ’51 da Furtwängler. Sull’unica testimonianza discografica del suo Verdi (autore peraltro rarissimamente affrontato dal Maestro tedesco, e forse estraneo al suo orizzonte espressivo) pesava infatti un giudizio definitivamente negativo da parte della critica (rectius di certa critica): Giudici, in particolare, lo definisce imbarazzante! Date le poco lusinghiere premesse, l’ascolto è stato invece sorprendente. Pur nella difficoltà di una infelice ripresa sonora (i nastri originali che catturarono in diretta la rappresentazione, purtroppo, andarono perduti, e quello che abbiamo è un collage di diverse fonti amatoriali di qualità dubbia) appare chiaro come non si possa liquidare con schizzinosa sufficienza la lezione di Furtwängler. Al contrario di quel che dice Giudici la tensione drammatica è ovunque percepibile: i tempi sono a volte più lenti, ma la cosa è percepibile solo in certi episodi (in particolare nell’atto IV), e comunque non sono mai slentati o “sacrali” (Furtwängler non è Klemperer o Knappertsbusch, per i quali la lentezza era scelta interpretativa). Basti ascoltare l’uragano iniziale (ma dove sarebbero i “suonacci” ascoltati da Giudici?) tesissimo e nervoso, senza mai calcare su certi effettacci bandistici ormai consueti (tutti si ricordano il “fracasso” che apriva l’Otello scaligero del 2001). L’orchestra, nelle mani del grande direttore, è un unico strumento, morbido e preciso, dal legato perfetto e dalla qualità timbrica superiore – si sentano i “titanici oricalchi” e li si confronti con altre più celebrate edizioni. Un accompagnamento, quindi di grande compattezza e varietà, che ben sa cogliere i differenti momenti della complessa partitura e che solo il pregiudizio può definire monotona e lenta. Gli esempi sono tanti, oltre al sorprendente uragano iniziale: a cominciare dall’ “Esultate!”, molto più veloce del solito, quasi sbrigativo nell’ansia della vittoria (e nella stanchezza della battaglia). Poi non si può non citare la carezza musicale con cui Furtwangler accompagna “Io da qui non mi parto se prima non vedo deserti gli spalti”: il superbo legato e la morbidezza del tessuto degli archi che portano al lungo duetto, dipinto con tragica poesia. Certo non mancano le pagine di più vibrante solennità – oggi, forse, in piena liricizzazione, rectius “bonsaizzazione”, di Verdi, appaiono più inconsuete – “Ora e per sempre addio” e “Si pel ciel marmoreo giuro”: solenni e pure retorici, certo, ma come dovrebbero essere altrimenti? Si ascolti la pienezza orchestrale, la perfezione della tenuta musicale, la tensione continua: non vi è alcuna concessione all’effettismo più gratuito, vi è, anzi, la consapevolezza di una lettura forte e vigorosa, personale, forse, ma non arbitraria. E poi l’ultimo atto: un poema sinfonico, dolente e disperato, senza un momento di tregua, pur con i tempi generalmente più ampi del consueto (cosa che però non si traduce necessariamente nell’appannamento e nella pesantezza denunciati dal solito Giudici). Il grosso handicap di questa edizione resta, però, il cast. Assolutamente inadeguato. Questo sì imbarazzante davvero. A cominciare dal protagonista: un Vinay che oltre al bel timbro brunito non ha nient’altro da offrire. Qualche momento buono c’è, soprattutto per merito di Furtwangler, come il duetto del primo atto, ma il resto è da dimenticare: un moro orribilmente wagnerizzato! La Desdemona della Martinis ha voce francamente brutta e, in ossequio ai dogmi del “dramma musicale” rivisti da Cosima (che allora ammorbavano qualsiasi titolo eseguito in area tedesca, e che oggi – vergognosamente – vengono da taluni rivalutati e presi a modello), canta tutto sbraitando, fissa come una sirena dell’ambulanza! Pessimo Jago è Schoffler, il quale, semplicemente, rinuncia al canto per rivolgersi al mero parlato, allo strillo e al bercio più volgare. Tutti gli interpreti, poi, denotano una quasi totale estraneità alla pronuncia italiana! Comprimari dello stesso livello (bassissimo) dei protagonisti, compreso Dermota, assolutamente alieno alla necessaria sensibilità verdiana.
Edizione quindi da conoscere per il grandissimo lavoro interpretativo di Furtwängler, ma inevitabilmente sminuita e rovinata da un cast imbarazzante, del tutto privo delle capacità e della tecnica per assecondare la lettura del Maestro. Essa, se confrontata alla lezione di Herbert von Karajan da la misura esatta dei motivi per cui l’abbiamo definita “antikarajan”. Tanto infatti questo cura il dettaglio strumentale, la linea espressiva, il “non detto” della partitura, la bellezza e la perfezione di ogni suono (a torto ritenuta una mera liricizzazione), tanto Furtwangler si concentra sulla dimensione drammatica del lavoro: tratta l’orchestra come un blocco unico (seppur duttilissimo ed espressivo), laddove il Maestro salisburghese ne evidenzia i minimi dettagli di scrittura. Due letture antitetiche in parte (confesso di preferire senza riserve Karajan, soprattutto la sua prima incisione), ma entrambe fondamentali. E questo nonostante gli strali di certa critica preconcetta.
Tanto per andare a rivisitare un altro luogo comune ossia che Sir Thomas Beecham fosse un direttore compassato e scarsamente teatrale conviene ascoltare l’Otello di Buenos Aires anno 1958, realizzato in una stagione nel corso della quale l’ottantenne maestro dirigeva anche Sansone e Dalila Carmen, Flauto magico e Fidelio. A smentire quanto ci è toccato sentire qualche sera or sono da parte di Daniel Baremboim il quale ha dichiarato che prima di Karajan i direttori o dirigevano il repertorio tedesco o quello franco-italiano. Oblia il maestro argentino i repertori di un Beecham, di un Walter.
Premesse essenziali è che si tratta di una ripresa radiofonica di buon suono, ma che schiaccia ed appiattisce l’orchestra soprattutto nei momenti di maggiore intensità sonora. Non so come venisse reclutata l’orchestra del Teatro Colón è, però, certo che dall’immediato dopoguerra era sempre stata diretta da bacchette prestigiosissime soprattutto nel repertorio tedesco. E poi i cantanti perché se Antonietta Stella e Giuseppe Taddei erano elementi validi quand’anche non perfetti, Ramon Vinay è ridotto in condizioni prossime a quelle in cui ci venne somministrato nell’ultimo Otello scaligero Plácido Domingo.
Nonostante tutto è impressionante la tenuta dell’orchestra nel senso che mai un attacco è fuori posto, mai una sezione orchestrale con sonorità prevaricanti rispetto alle altre sezioni orchestrali, mai i cantanti sono abbandonati a se stessi.
E già queste peculiarità oggi sono rare, per non dire uniche.
Non solo: mai una prevaricazione nei confronti dei cantanti. E’ chiaro che la Desdemona della Stella dalla voce ampia e di qualità è molto semplice e molto semplice e lineare è l’accompagnamento al canto di questa Desdemona, quanto a Vinay, ripeto esausto, il direttore lo sostiene e lo accompagna, anzi, il più delle volte è l’orchestra ed il direttore che cantano in luogo del monocorde Vinay, per giunta molto ridotto quanto a volume.
In questo senso basta sentire il duetto d’amore dove l’orchestra è bella sotto il bel timbro di Antonietta Stella e canta l’amore in luogo di Otello. Ancora in “Ora e per sempre addio” il ritmo e le vibrazioni dell’orchestra rendono il senso del brano perché Vinay è alla frutta, ed ancora quando il dramma della gelosia tocca il suo momento più alto ossia al “Dio mi potevi scagliare” è sempre l’orchestra ed il ritmo del direttore che riescono a rendere la situazione.
La bacchetta si esprime in apertura dell’opera con asciuttezza e il tono tesissimo che la procella impone.
Quanto, poi, arriva il coro “fuoco di gioja” i dettagli e le sottolineature degli strumenti a fiato richiamano l’idea voluta dall’autore del guizzare del fuoco.
Tutta la sezione brindisi, staccato con un tempo piuttosto veloce e la seguente sommossa dove tempo e sonorità incalzano sempre più rendono l’idea di che possa fare un direttore con l’orchestra “in mano”. Certo che l’entrata in sordina di Vinay attutisce l’effetto.
Nel secondo atto Beecham è grandioso nel Credo nessun risparmio ad un’orchestra ampia sonora e vorrei dire “procellosa”. Certo per una simile direzione ci vorrebbe qualcosa di più della voce tutto sommato abbastanza ben emessa e non mugghiante di Taddei. Mi pare ovvio che l’idea sia quella di un ministro del male che officia il suo rito, o meglio declina la propria teologia, richiederebbe lo squillo dei baritoni a 78 giri. E’ un’idea interpretativa quella di Beecham in questo passo, Verdi diceva di una parte da cantare tutta a mezza voce, ma l’orchestra che apre e chiude la pagina porta, logicamente, ad altre scelte. Il finale paga lo scotto della voce di Vinay e del mezzo di Taddei (anche se lo preferisco ai mugghianti Jago di Kleiber in Scala).
Siccome si devono fare i conti con il palcoscenico ed i mezzi di cui i cantanti dispongono è chiaro che alla scena “Dio ti giocondi o sposo” l’ampiezza orchestrale è commisurata al mezzo del tenore ed esalta il candore e l’ingenuità della Stella. La quale sia detto per inciso al quarto atto senza indulgere a certi effetti estenuati stile Scotto è dolce, dimessa e patetica con un timbro ben più sontuoso di Desdemone pure e giustamente acclamate come la Freni.
Arrivato all’epilogo del dramma dall’uccisione di Desdemona al suicidio di Otello ritmo orchestrale è davvero serrato, salvo poi essere solenne e ridondandante (come la prosopopea boitiana più che verdiana impone) nell’incipit del “Niun mi tema”. Fra l’altro l’inizio molto oratoriale consente persino di rendere un certo patetismo nella trenodia finale, dove Vinay canta malissimo, si lascia andare ad una gigionata – la sola della sera – ma l’accompagnamento orchestrale fa saltare sulla sedia per aderenza al dramma.
Ignoro quanto sia stata provata una siffatta produzione, ho il sospetto molto poco anche per i pressanti impegni cui il direttore era sottoposto, ma l’impressione è che la “macchina” fosse ben a punto e che il braccio del direttore fosse pronto non solo a condurre in porto la nave dello spettacolo (qualità che era di molti direttori allora), ma anche a realizzare una idea musicale riferita al titolo in scena.
Molto interessanti anche i frammenti pervenutici dell’esecuzione proposta all’Opera di Stato di Vienna nel dicembre 1933, e anche stavolta malgrado un cast non privo di punti deboli. Otello era Franz Völker, tenore wagneriano fra i massimi, Iago un non memorabile (eufemismo!) Josef von Manowarda e Desdemona Viorica Ursuleac, scelta evidentemente gradita al consorte, nonché direttore della recita, Clemens Krauss. Una vita per Strauss, volendo condensarne la carriera in uno slogan.
L’accompagnamento al duetto del primo atto è giustamente soave. In primo luogo perché alle notturne confidenze degli sposi novelli mal si addicono sonorità e clangori degni di accompagnare il radunarsi delle Valchirie. E in secondo perché Völker sfoggia una voce bellissima e sfumata ma non si impone certo per l’arroganza dello squillo, mentre la Ursuleac fa sfoggio di tutti i vezzi delle cosiddette cantanti attrici e quindi spetta all’orchestra evocare l’incanto dei racconti che sedussero il cuore della figlia di Brabantio.
Quando poi si arriva al confronto fra Otello e Jago al secondo atto, è il direttore a prendere ancora una volta in mano la situazione, confidando all’orchestra l’espressione dell’ira di Otello e permettendo a Völker di esprimere piuttosto la melanconia e la disillusione del guerriero ferito, in un “Ora e per sempre addio” splendidamente fraseggiato. Ma il vero miracolo si compie nel Sogno di Jago, in cui la parola scenica – che spesso è realmente ai confini del parlato, e a volte anche oltre – di Manowarda trova nel golfo mistico un sostegno discreto quanto imprescindibile. Davvero un peccato che questa recita, in cui Krauss sa davvero fare come suol dirsi di necessità virtù, e di virtù grandi momenti di musica, non ci sia pervenuta integralmente. Per il momento almeno: conosciamo bene la capacità dei live di riemergere nei luoghi e nei momenti più impensati.
Concludiamo la carrellata sui grandi direttori alle prese con Otello prendendo in considerazione due recite tenutesi al Metropolitan di New York. Si è sempre ironizzato sullo scarso valore delle masse orchestrali e corali di questo teatro. E non a torto. Ma quando sul podio c’è un direttore di vaglia, come per miracolo anche la più scadente orchestra e il coro più raccogliticcio divengono, se non paragonabili alle formazioni di Vienna o Berlino, quantomeno accettabili. Sotto la bacchetta di George Szell la tempesta dell’Otello (febbraio 1946) è semplicemente travolgente, così come il successivo coro di Ciprioti inneggianti alla vittoria della Serenissima e, assai poco cristianamente, alla rotta del musulmano. Assai meno irresistibile appare l’Otello di Torsten Ralf, che nel finale del terzo atto maledice l’anima sua con accenti e modi da compare Turiddu per giunta ebbro più che da Generale della Serenissima, sia pur epilettico. Fortunatamente il direttore restituisce a questa scena tutta la grandeur che il protagonista non sa o non vuole infondere, riuscendo inoltre a valorizzare il timbro morbido e malioso di Stella Roman, certo la più grande risorsa di un’interprete dalla tecnica non proprio ferrea.
Al dicembre del 1948 risale un broadcast di Otello dal Met con Fritz Busch sul podio. E di Busch, fra i sommi mozartiani di sempre, proponiamo il terzetto fra Otello, Cassio e Jago. Brano quanto mai mozartiano, per la leggerezza della scrittura orchestrale, davvero anticipatrice di molti passaggi del Falstaff, non meno che per il carattere beffardo ed enigmatico della scena, in cui convivono e si sovrappongono la disperazione, la perfidia e la fatuità dei personaggi. Anche qui i cantanti finiscono in secondo piano e anche in terzo, di fronte a un’orchestra cangiante nei colori non meno che nella dinamica e nell’agogica. E quale migliore conclusione di questa rassegna che l’ingresso degli ambasciatori veneziani, risolto con grande solennità ma senza eccessi fracassoni, malgrado quel che possano pensare e soprattutto realizzare tanti malintesi emuli pseudotoscaniniani.
Introduzione a cura di Domenico Donzelli
Gilbert-Louis Duprez ha commentato Furtwängler
Domenico Donzelli ha commentato Beecham
Antonio Tamburini ha commentato Krauss, Szell e Busch
Gli ascolti
Verdi – Otello
Atto I
Una vela!…Esultate!…Vittoria! vittoria! – Ramón Vinay – Wilhelm Furtwängler (1951), Torsten Ralf – George Szell (1946)
Fuoco di gioia! – Thomas Beecham (1958)
Già nella notte densa – Franz Völker & Viorica Ursuleac – Clemens Krauss (1933)
Atto II
Credo in un Dio crudel – Giuseppe Taddei – Thomas Beecham (1958)
Ora e per sempre addio – Franz Völker – Clemens Krauss (1933)
Era la notte, Cassio dormia – Josef von Manowarda – Clemens Krauss (1933)
Sì, pel ciel marmoreo giuro – Ramón Vinay & Giuseppe Taddei – Thomas Beecham (1958)
Atto III
Dio ti giocondi o sposo – Antonietta Stella & Ramón Vinay – Thomas Beecham (1958)
Vieni, l’aula è deserta…Questa è una ragna – Leonard Warren, Ramón Vinay & John Garris – Fritz Busch (1948)
Questo è il segnale – Leonard Warren, Ramón Vinay & John Garris – Fritz Busch (1948)
A terra!…sì!…Nel livido fango – Stella Roman, Torsten Ralf & Leonard Warren – George Szell (1946), Dragica Martinis, Ramón Vinay & Paul Schoffler – Wilhelm Furtwängler (1951)
Atto IV
Era più calmo? – Antonietta Stella & Zaira Negroni – Thomas Beecham (1958)
Mia madre aveva una povera ancella…Piangea cantando – Antonietta Stella & Zaira Negroni – Thomas Beecham (1958)
Ave Maria – Antonietta Stella – Thomas Beecham (1958)
Niun mi tema – Ramón Vinay – Thomas Beecham (1958)