A differenza di tanti smemorati o coscientemente immemori, riteniamo che sia di fondamentale importanza conservare memoria del passato, nel bene e nel male. Per questo, il nostro Corriere ha voluto visitare alcune delle più illustri tombe del Cimitero Monumentale della Certosa in Bologna e deporre un fiore non soltanto virtuale su quei sepolcrali marmi.
Entrando dal cancello del Claustro Maggiore e prendendo a sinistra, sotto il portico, troviamo la stele sotto la quale riposa Carlo Broschi, detto il Farinelli, certamente il più mitico fra gli evirati cantori, colui che stregò con il suo canto le corti di mezza Europa. Farinelli, membro dell’Accademia Filarmonica, si spense a Bologna nel 1782. Nel 2006 alcuni ricercatori hanno ottenuto di riportarne alla luce le ossa, nel tentativo – a dir poco azzardato ma innegabilmente affascinante – di decifrare i segreti di una voce di rara dolcezza, forza e abilità virtuosistica, teste il Burney e, più ancora, le parti scritte per lui dai compositori dell’epoca, in primis dal fratello Riccardo. Come si vede nella foto, ancora oggi la tomba di Farinelli è immersa in un clima da “lavori in corso”.
Attraversato il Claustro Maggiore, subito prima di entrare nel Claustro della Cappella, sulla sinistra, una tomba sotto il porticato riporta, sopra un altorilievo raffigurante una donna (la Musica) assorta in dolente meditazione davanti a un busto maschile, l’iscrizione A Giovanni Colbran. Lì riposa Juan Colbran, morto a Bologna nel 1820: il violinista spagnolo fu padre della cantante rossiniana per eccellenza, Isabella, e in quanto tale anche “suocero naturale” di Rossini (Colbran morì due anni prima delle nozze tra la figlia e il Pesarese). Isabella, anch’ella morta nella villa di Castenaso, alle porte di Bologna, nel 1845, trovò asilo nel monumento funebre di Colbran, che Rossini aveva commissionato allo scultore Adamo Tadolini. Manca tuttavia un’iscrizione che indichi la presenza dell’insigne cantante nella tomba del padre. Corre voce che nel medesimo sepolcro siano conservati i resti di Giuseppe e Anna Rossini (nata Guidarini), genitori del compositore, ma anche in questo caso, abbiamo invano cercato un segno visibile della loro presenza.
Proseguendo oltre il Claustro della Cappella, prima di giungere nel Claustro VII, sostiamo un momento nella splendida Galleria degli Angeli, in cui aleggiano altre suggestioni rossiniane. Sulla sinistra una grandiosa tomba che pare presa di peso da un allestimento vecchio stile de La Favorita ospita due insigni cantanti, Adelaide ed Erminia Borghi Mamo, madre e figlia. Adelaide, bolognese di nascita, morta nel 1901, fu grande interprete rossiniana e donizettiana: con lei studiò la figlia, morta nel 1941, il cui repertorio spaziava da Donizetti e Meyerbeer a Verdi e al Verismo. La sontuosità del monumento testimonia la fortuna anche materiale delle signore e il più che legittimo orgoglio per i risultati conseguiti.
Al lato opposto della Galleria, una semplice lastra di marmo indica, con lapidaria (è il caso di dire) sobrietà, la sepoltura di Nicola Ivanoff, tenore russo di nascita e italiano di formazione, amico personale di Rossini. Ivanoff trascorse a Bologna gli ultimi dodici anni della sua vita, morendovi nel 1880. Lo ricordiamo pubblicando uno stralcio della recensione comparsa su un giornale parigino in occasione del debutto al Teatro Italiano nel 1833, quale Percy in Anna Bolena:
Ivanoff ha una voce di tenore purissimo. Le sue note di petto hanno una forza straordinaria; e benché l’arte e l’esecizio non l’abbiano ancora dotato della capacità di fondere quei suoni con autentici suoni di testa senza soluzione di continuità, la natura è stata così prodiga con questo cantante, che per distinguere i cambi di voce era necessaria una grandissima attenzione. Va ribadito che Ivanoff è ancora giovane; ma se, com’è giusto che sia, ha qualche difetto connaturato all’età e all’inesperienza, bisogna dagli atto che il pubblico l’ha ascoltato con grande piacere nel ruolo in cui l’incomparabile Rubini si è meritatamente coperto di gloria. Quanta intelligenza ed energia ha dimostrato Ivanoff! […] Alla fine, dopo l’ultima aria “Vivi tu, te ne scongiuro”, tutto il pubblico ha applaudito chiedendone il bis, che Ivanoff ha eseguito da capo con grande successo, accolto da un nuovo uragano di applausi.
Lasciata la Galleria e costeggiando il Claustro VII lungo il lato sinistro, giungiamo nel Colombario. Due sono le sepolture notevoli in questa sorta di chiesetta poco illuminata ma tutt’altro che lugubre. La prima si trova nell’ultima sala, addossata a una delle colonne dell’abside. Si tratta dell’arca che accoglie il Conte Rizzardo Pepoli, la sua sposa, Contessa Cecilia Cavalca, e il loro figlio Carlo, poeta e patriota, amico di Giacomo Leopardi, Senatore del Regno d’Italia e, quel che più conta per noi, autore del libretto dei Puritani e dei testi di alcune delle Soirées musicales di Rossini. Il Conte Pepoli si spense nel 1881.
Uscendo dal Colombario in direzione del Campo Carducci, in una nicchia così defilata da parere collocata lì per sfuggire all’indiscrezione dei passanti, troviamo la tomba di Stefano Gobatti, autore de I Goti, opera di grandissimo successo al suo debutto nel Teatro Comunale della città nel 1873 (il trionfo fruttò al compositore la cittadinanza onoraria) e nelle successive riprese in mezza Italia, ma già praticamente scomparsa dalla circolazione solo pochi anni più tardi. Il rodigino Gobatti morì a Bologna, in solitudine e oblio, nel 1913.
Siamo così arrivati nel Campo Carducci, in cui troviamo, oltre all’illustre eponimo (che, se si fosse interessato al teatro d’opera, sarebbe verosimilmente stato per Verdi un collaboratore non meno prezioso di Boito), altri due insigni musicisti, collocati quasi l’uno di fronte all’altro. Guardando in direzione della tomba di Carducci, sulla sinistra vediamo il busto dedicato al direttore d’orchestra Rodolfo Ferrari, morto nel 1919, e sulla destra l’arca che accoglie il compositore Ottorino Respighi, morto nel 1936, e la moglie, Elsa Olivieri Sangiacomo.
Dal Campo Carducci raggiungiamo l’adiacente Claustro VI. Sulla sinistra, fra il portico e il sacrario dei caduti nella Prima Guerra Mondiale, sorge un’imponente urna, ultima dimora di Riccardo Stracciari, nato a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, nel 1875 e morto a Roma nel 1955. Stabilitosi nell’ultima parte della sua vita nella Capitale, il baritono acquistò una tomba alla Certosa per restare vicino al figlio, morto durante la Grande Guerra e ivi sepolto. Il cantante riposa accanto alla moglie, signora Maria.
Ed è alla voce del grande Stracciari, nei panni di un giovane sovrano in meditazione presso un sepolcro, che affidiamo il commento musicale per questa nostra piccola ma sentita commemorazione dei defunti. L’omaggio a Respighi, e con lui a questa maliconica stagione dell’anno, coinvolge una delle più sobrie ed eleganti esecutrici di musica da camera documentate dal disco, mentre la sconsolata meditazione di Cesare sull’urna del rivale Pompeo non poteva che essere affidata a una delle glorie della Rossini-Renaissance, anche perché Rossini, come si è visto, è di casa in Certosa. Completa l’antologia un passo del Requiem mozartiano, affidato a un cast che associa alla compostezza dell’elegia il fascino della magniloquenza.
Gli ascolti – Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum
Verdi: Ernani – O de’ verd’anni miei – Riccardo Stracciari (1914)
Respighi: Nebbie – Teresa Berganza (1984)
Haendel: Giulio Cesare in Egitto – Alma del gran Pompeo – Martine Dupuy (1988)
Mozart: Requiem – Tuba mirum – Pia Tassinari, Ebe Stignani, Ferruccio Tagliavini & Italo Tajo – Victor de Sabata (1941)
Vi ringrazio molto per questo doveroso e affascinante excursus tra “l’urne de’ forti” (parafraso volutamente il mio compatriota Ugo Foscolo).
Inutile dire che sposo in toto il vostro atteggiamento di fondo, oggetto della polemica accennata nel post.
Gabriele Brunini (Lele Bruni)