Les Indes Galantes alla Scala

Ieri sera, nell’ambito dei “Concerti straordinari del Teatro alla Scala”, è stata presentata Les Indes Galantes di Jean-Philippe Rameau, per i complessi francesi de Les Arts Florissants, diretti da William Christie. Scritta nel 1735, Les Indes Galantes, appartiene al genere dell’opéra-ballet, che si contrapponeva alla più rigida e seriosa tregédie lyrique per i ricchi inserti strumentali, le ampie parti coreografiche e l’inserimento di personaggi più leggeri e comici, a discapito dell’impianto mitologico ed elevato tipico dell’opera francese dell’epoca, senza perdere, per questo l’altisonante impostazione raciniana.

Les Indes Galantes è composta originariamente da un Prologo – dove gli dei bisticciano tra loro sulla fine della loro influenza in Europa e la conseguente necessità di rivolgere l’attenzione verso terre più esotiche, che dà una parvenza di unità ai differenti episodi – e due entrées (Le Turc généreux e Les Incas du Pérou), a cui Rameau aggiunge in breve una terza entrée, Les Fleurs, fete persane, e l’anno successivo addirittura una quarta, Les Sauvages. Ciascuna di esse rappresenta stravaganti vicende amorose che vedono come protagonisti, Indigeni ed Europei. La finalità allegorica è evidente: il mito del buon selvaggio, generoso e moralmente integro, non contaminato dalla ormai corrotta civiltà europea. Il lavoro presuppone – come tutti gli altri del genere – una fastosa messa in scena ed una ricca coreografia (lo stesso appellativo di opéra-ballet, avrebbe dovuto suggerirlo anche ai profani, figuriamoci ad una sovrintendenza d’un teatro d’opera!). La Scala, nonostante ciò, decide invece di rappresentare Les Indes Galantes in forma concertante: con l’ovvia conseguenza della perdita irrimediabile di un aspetto fondamentale dello spettacolo (dato che la musica di Rameau non sempre si regge da sola). Oltretutto dell’opera viene presentata una versione arbitrariamente accorciata: è eliminato il Prologo e la terza entrée. Il motivo dei tagli non ci è dato conoscerlo, giacchè il programma di sala nulla dice al riguardo. Mancando scene, costumi e danze, e non essendo neppure rispettata l’integralità del testo, l’attenzione non può che concentrarsi sull’esecuzione musicale.

Confesso che molta era la curiosità e l’aspettativa: conoscevo Christie e Les Arts Florissants solo dalle tante incisioni discografiche che – pure nell’ambito dell’approccio esecutivo tipico degli specialisti del barocco – hanno sempre rivelato letture interessanti e musicalissime dei titoli affrontati (penso appunto alle belle incisioni del barocco francese), assai diverse da quelle di altri ensamble baroccari (in ispecie quelli anglosassoni o tedeschi, molto più aridi e mortificanti). L’ascolto dal vivo è stata, invece, un’autentica delusione. I tempi sono sì veloci, ma secchi e privi di colore. L’orchestra è sì precisissima, ma meccanica e metronomica. Quel che però mi ha più colpito, in negativo, è l’intollerabile mancanza di intonazione dell’intera compagine: gli archi fin dall’inizio rivelano suoni stridenti e calanti, ma il peggio lo danno i fiati, uno strazio di perenne stonatura, nessuno strumento pareva accordato all’altro! Sono gli effetti degli strumenti originali quando mancano i benefits della sala d’incisione? Forse porta a questi risultati il rifiuto di quegli accorgimenti che il naturale progresso ha consigliato (il sistema di chiavi e di pistoni) proprio per ovviare ai problemi di intonazione. Ovviamente la circostanza genera tutta una serie di dissonanze e incertezze tonali che richiamano più Berio o Nono che Rameau (saldamente ancorato al sistema temperato)! Insomma non ho trovato nulla di quanto ascoltavo nei dischi. Stesso discorso per il coro: naturalmente le voci faticavano ad amalgamarsi ad uno strumentale così incerto e ondivago nell’intonazione. Peccato, perché vi sono momenti notevoli nell’opera, che meriterebbero ben altra esecuzione (penso alla tempesta della prima entrée o all’invocazione al Sole e al terremoto della seconda o alla seconda parte della quarta, incentrata su di un ostinato incalzante).

La compagnia di canto, poi, è stata, se possibile, ancora peggiore. Juliette Galstian (mezzosoprano), Sonya Yoncheva (soprano), Ed Lyon e Juan Sancho (tenori), Stéphane Degout (baritono), Joao Fernandes (basso). Non val la pena differenziare, poiché tutti erano gravemente insufficienti. Stonatissimi, ingolatissimi, privi nel modo più assoluto di una qualche parvenza di proiezione, mancanti totalmente di appoggio sul fiato e – cosa gravissima, forse la più grave – incapaci di rendere la prosodia del canto francese, l’alta retorica del declamato alessandrino e la sontuosità della parola recitata che deve necessariamente richiamare Racine e Corneille e che ha rilievo fondamentale nel teatro musicale francese: tanto che il recitativo ha ben più importanza dell’aria vera e propria.

Al termine lo scarso pubblico presente (sull’atteggiamento “particolare” del quale forse varrebbe la pena soffermarsi) ha tributato un poco convinto applauso, forse dovuto più al prestigio dell’interprete (o, peggio, a certo atteggiamento snobistico) che a reale convincimento e onestà di giudizio. Applauso che rapidamente si è spento nella fredda e piovosa nottata milanese.

Händel – Rinaldo Or la tromba in suon festante Marilyn Horne

15 pensieri su “Les Indes Galantes alla Scala

  1. Lei, Sig. Caoduro, ha ascoltato lo spettacolo recensito? Le critiche non si fanno coi ricordi, le memorie e le amicizie, ma con l’onestà dell’ascolto diretto. Io c’ero e ho riportato le mie impressioni. Ripeto, nessun cantante ha cantato in modo degno di un professionista. A meno che il canto di gola, indietro e la mancanza totale di proiezione e appoggio siano divenuti IMPROVVISAMENTE esempi di tecnica perfetta. Così neppure le canzonette andrebbero cantate, figuriamoci Rameau!

  2. Ma infatti non ho detto che e’ impossibile che abbia cantato male, ho solo detto che faccio fatica a crederlo e che la cosa mi stupisce, avendolo sentito l’anno scorso in Orfeo ad Aix en Provence, dove canto’ veramente bene. Se veramente ha cantato male sara’ stato in serata no… capita!
    Concordo comunque appieno che Rameau (come tutto peraltro) vada cantato bene, seguendo tutti i crismi del sano canto sul fiato.

  3. Il grosso problema è che i baroccari, e Christie in primis (ebbi una interessantissima conversazione telefonica con uno dei suoi allievi) sono convinti che il canto dalle origini fino ai primi dell’ottocento, era svincolato da un emissione che loro (i baroccari) definiscono alla Garcia, come se la voce impostata fosse stata inventata da quest’ultimo. In pratica secondo loro la voce non era impostata come lo intendiamo oggi noi : i cantanti avevano una voce che non era in maschera e sopra tutto era senza vibrazioni. Ma tutto quasto è falso, basta documentarsi. Il grosso problema è che il barocco non è stato riscoperto dai baroccari veramente colla ricerca musicologica e con i trattati in mano, ma semplicemente colle loro deduzioni personali, deduzioni dettate dalla loro ignoranza e dal loro “petit goût”. In pratica i baroccari hanno approfittato di un repertorio poco praticato e senza una vera tradizione per potere sbizzarrirsi a loro piacimento, pretendendo poi che loro avevano fatto ricerche musicologiche, il che è falso. Intanto il publico li crede e nessuno va a verificare. E i pochi di loro che qualche trattato lo hanno leggicchiato lo hanno frainteso poichè sono trattati, sopra tutto i trattati che riguardano il canto, scritti in italiano e in italiano antico, essendo i baroccari estranei alla lingua italiana e ancora meno all’italiano antico, hanno solo frainteso alcuni precetti o ne hanno distorto l’interpretazione per giustificare il loro cattivo gusto. Ma tutto questo argomento meriterebbe un articolo molto più ampio…………

  4. Verissimo Semolino: il tuo commento è da condividere in toto. Ed è quello che vado sostenendo da tempo, ogni volta che mi trovo a parlare di “barocco”. Oggi siamo di fronte ad una grande impostura: ad una vera ideologia spacciata per seria ricerca musicologica e filologica. Purtroppo pochissimi ne sono consci e la maggioranza (anche critici “di fama”) ritiene que QUELLA sia la prassi autentica, che QUELLO sia il suono vero del barocco. Eppure nessuno si prende mai la briga di verificare le fonti di queste discutibili teorie. E ogni volta, che mi capita di scontrarmi con qualche “baroccaro”, ho la sensazione di confrontarmi con un “muro di gomma”, impermeabile al dubbio, al buon senso e al ragionevole esercizio dell’intelletto: il “baroccaro” ha solo verità in cui credere, non ha nè argomenti, nè giustificazioni. Crede, è un fedele. Russel scriveva che il mondo “non ha bisogno di dogmi, ma di libera ricerca”. Ecco anche la musica barocca….

    Ps: la questione che poni (circa il canto impostato, le ignoranze dei “baroccari” e la loro saccente presunzione, il colloquio con l’allievo di Christie) è interessantissima. Ogni tuo contributo sarà ben accetto…

  5. Sig. Caoduro, temo, purtroppo, che la performance dell’altra sera non fosse dovuta a momentanea defaillance, ma a precise scelte esecutive (come bene ha scritto Semolino). Mi fa piacere che lei, ancora, ritenga che “cantare sul fiato” secondo tutti i crismi, sia una condicio sine qua non per tutti i repertori… Mi creda, orami, pare, non sono moltissimi (soprattutto nel barocco) a pensarla così. Tra l’altro nelle Indie Galanti vi sono splendide pagine proprio per baritono, come lo splendido inno al Sole nella seconda entrée…

  6. Non voglio entrare nel merito della discussione, non avendo né assistito né sentito alle / le Indes Galantes. una cosa però va detta: solitamente christie è un po’ più avveduto dei suoi colleghi barocchisti nella scelta delle voci. non che ciò garantisca sempre risultati di buon livello, ma le sue concezioni non sono traviate come lo sono invece quelle dei vari herreweghe, gardiner, ecc. tant’è che nel libretto che accompagna il suo flauto magico (uno dei più belle della discografia e a dirlo è davvero uno uno strenuo oppositore delle esecuzioni su strumenti d’epoca), nel definire il suo ideale di voce, utilizza l’espressione “soft/edged” che, tradotto, assomiglia molto al “morbido e squillante” di cellettiana memoria. che poi riesca a trovare i cantanti adatti per trasformare in realtà questa sua concezione è tutt’altro discorso.
    emanuele

  7. Trovo poco credibile che musicisti seri e preparati da voi spesso appellati “baroccari” abbiano fondato o sposato una determinata prassi esecutiva senza fare alcuna ricerca musicologica sulle fonti. Il discorso sul fraintendimento della lingua mi sembra un argomento risibile: a parte il fatto che ci sono molti studiosi e/o baroccari che sono italiani e che esisteranno anche trattati in lingua francese, lo scoglio linguistico non può aver generato un malinteso così grosso come pensate.
    Ma pur ammettendo che sia effettivamente come sostenete voi, forse si continua sulla strada dell’errore perché si è dimostrato piacevole, bello… A me piace molto il risultato di alcuni baroccari, trovo molto belle certe esecuzioni secondo questa prassi da voi ritenuta inaccettabile in quanto non autentica. La questione dell’autenticità è irrisolvibile. C’è chi cerca di avvicinarsi attraverso una via, chi attraverso un’altra. A me la via dei baroccari piace… e devo dire che mi convince anche. Che farci… figlio di questi tempi!

  8. Per Emanuele: sono d’accordo, Christie mi pareva assai diverso dai suoi colleghi “specialisti del barocco”, sicuramente più generoso per ciò che concerne i colori e il compiacimento musicale. Ed è stato questo uno dei motivi di più grande delusione per quelle Indie Galanti… Insomma, abituato ad ascoltare certe cose nei cd, alla Scala ho sentito tutt’altro: e non era certo migliore… I cantanti scelti erano la diretta conseguenza dell’approccio esecutivo. Deludente. Credimi Emanuele, ha stupito anche me.

  9. Per Musicofilo: spesso però, quella che tu chiami, giustamente, RICERCA, è smerciata dagli “specialisti del barocco” per unica e sola e vera cifra esecutiva. Senza discussioni o dubbi. A mio avviso è inaccettabile. Poi è vero che ci sono alcuni prodotti più piacevoli di altri (anche nell’universo baroccaro), tuttavia ogni volta mi dà la sensazione che manchi qualcosa… Vedi, non è un problema di AUTENTICITA’ (che di fatto è irriproducibile), è una questione legata all’esecuzione, al naturale progresso degli strumenti e della prassi. Progressi che hanno solo migliorato certi aspetti (penso all’intonazione che su strumenti a fiato “antichi” è alquanto ondivaga proprio perchè mancano quegli accorgimenti che ne hanno migliorato la qualità). Rifiutare questi progressi significa arroccarsi su posizioni ideologiche e preconcette per pura “burocrazia musicale” (all’epoca i fiati non avevani i pistoni – e stonavano – allora anche oggi bisogna stonare e usare fiati senza pistoni). Assurdo per me! Come chi si ostina ad utilizzare quell’abominio del fortepiano! O gli oboi senza chiavi, o i celli senza puntali. Perchè? Per il gusto di avere un suono brutto e stonato??? Io credo che ogni repertorio possa essere ben reso e differenziato anche con i tanto vituperati strumenti moderni: se uso un’iorchestra contemporanea per Mozart o Haendel non necessariamente devo “wagnerizzarlo” o appesantirlo…. Anzi, spesso sono proprio le esecuzioni “filologiche” ad essere pesanti e grevi (vedi Sonnambula con la Bartoli, o quell’orribile Creazione diretta da McCreesh con orchestra “baroccara” da 130 – dico 130^ – elementi, più coro e solisti: neppure Mahler ha organici così ampi…)

  10. Ci credo caro Duprez, ci credo ! ma occorre anche domandarsi fino a che punto le incisioni in disco siano davvero il riflesso di ciò che accade in sala da concerto. ricordo, parecchi anni fa, di aver prima sentito in radio alcuni sprazzi delle incisioni di beethoven fatte da gardiner con il suo orchestre revolutionnaire et romantique. che sembravano quantomeno corrette. poi ascoltai quella stessa orchestra dal vivo, alla scala, nella nona. incredibile: archi grezzi, ruvidi, graffianti; fiati tremolanti e ottoni che steccavano a tutto spiano (il corno in particolare era uno strazio). da qui l’idea secondo cui il teatro è pur sempre il luogo della verità (a volte il live ne è un buon riflesso) ed il disco uno strumento di inganno. a volte almeno.
    cordiali saluti.
    emanuele

  11. Sì, sono d’accordo. La sua risposta mi convince appieno. E in effetti non contraddice la mia posizione, perché io mi riferisco sempre ad esecuzioni belle, benché baroccare: quindi con strumenti d’epoca che siano suonati da esecutori in grado di evitare le stonature cui certi strumenti antichi sono più facilmente soggetti, o cantanti che emettono suoni fissi non calanti o troppo sbiancati.

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