La "provincia", Don Pasquale e certa esterofilia.

Domenica 19 ottobre (quasi un mese fa), ho assistito alla recita pomeridiana del Don Pasquale di Donizetti al Teatro Ponchielli di Cremona. La tanto denigrata (da certuni) “provincia”! Infatti ultimamente si legge da più parti, o meglio da parte dei “soliti noti” (che per amore di verità, e viste le dimensioni, sarebbe più corretto definire “ignoti”), una sorta di schizzinosa ripulsa per la “squallida provincia italiana”, povera di mezzi e di idee e naturalmente legata ad un concetto “stantito” (per loro) di fare opera: essi ritengono di non poter “sprecare” il loro preziosissimo tempo con spettacoli siffatti e che, orribile visu, non presentano in locandina nomi stranieri o registi di grido amanti di cappottoni e straniamento brechtiano. Costoro, del resto, applicano coerentemente e rigorosamente, oltre alla logica del nome (di cui già abbiamo parlato precedentemente e che si esemplifica nell’acritica accettazione di tutto ciò che i “grandi nomi” – magari resi tali da majors, agenzie e furbe strategie di marketing – offrono al pubblico), pure la logica del luogo, per la quale una volta varcate le alpi anche il ferraccio più arrugginito si tramuterebbe in metallo nobile e prezioso.
Peccato che queste “logiche” siano alquanto illogiche (chiedo venia per il bisticcio lessicale) e derivino, più o meno in egual misura, da mero pregiudizio, da snobismo e da vuota esterofilia. Ora, non sono certo a sostenere che nei teatri di provincia si assista a chissà quali spettacoli (anzi, spesso accade il contrario), tuttavia trovo stupido rifiutare “a prescindere” un universo tanto vario e variegato, unicamente per motivi ideologici. Peraltro, al rifiuto assoluto e irridente (poveretti “voi italiani”, sembra di intendere ogni volta che ci si imbatte nelle loro lezioncine…) di questa realtà, si accompagna un’assurda idolatria per tutto quello che vanta un marchio estero: come se valga davvero la pena – o fosse più nobile e intelligente – volare sino a Londra per una Fanciulla del West con…Silvano Carroli e Josè Cura! Come se fossero meglio le varie Denoke, Kozena, Gheorghiu di cui, magari, oltre la tecnica periclitante, tocca sorbirsi i capricci da diva, oppure qualcuna delle tante stelline che passano in quel di Bayreuth (festival il cui scadimento artistico è sotto gli occhi di tutti) o a Salisburgo o ad Aix-en-Provence. Purtroppo c’è chi – come noi – ha il “vizio” di ascoltare prima di giudicare (senza fermarsi alle apparenze e al prestigio dell’interprete o del teatro) e chi, invece, preferisce applicare ciecamente i propri teoremi e denigrare tutti colori che la pensano in modo differente. Questo atteggiamento, oltre a testimoniare la poca apertura mentale di chi lo professa, ne denota pure la scarsa conoscenza e preparazione: indubbio, infatti, è il valore che la “provincia” ha avuto nella storia e nello sviluppo del teatro d’opera in Italia. Un valore che è stato e che è ricchezza. E rispetto per la professione, l’arte e il pubblico. Bergonzi, Kraus, la Freni, e andando a ritroso Gigli, Schipa, Pinza etc…mai hanno disdegnato di calcare quei palcoscenici che le odierne starlettes della lirica (passate improvvisamente dalle fila del coro alla sala del Piermarini, magari transitando sulle copertine di riviste patinate) osservano schifate. Oggi appare impensabile, e lo è proprio per questo atteggiamento elitario ed esterofilo. Tuttavia non è detto che in realtà più piccole e con cantanti meno noti, o sconosciuti, non si possa assistere a spettacoli più che dignitosi (e a volte, a vere e proprie sorprese). Questo non significa “accontentarsi” (qui nessuno si accontenta e le critiche, precise e puntuali, stanno a dimostrarlo), questo significa, come direbbero i latini, “suum cuique tribuere” – dare a ciascuno ciò che merita, senza pregiudizi e preconcetti. Alla provincia come al grande teatro. Nessuno qui va all’opera per il gusto di certificare disastri, ma neppure pretende di prendere in giro i suoi lettori cianciando di presunte meraviglie europee o extraeuropee, come se fosse il mitico Katai di Marco Polo. Ma torniamo a quel Don Pasquale che ha dato spunto a questo ragionamento: uno spettacolo piacevole e interessante, ben cantato e ben diretto. Confesso di essermi divertito molto più a Cremona che in tutti gli ultimi spettacoli scaligeri. Innanzitutto l’allestimento: scene stilizzate e funzionali, senza inutili e pretestuose letture stravaganti del testo. Senza presunzioni da teatro impegnato. Una regia dalla mano leggera e intelligente che non ha voluto forzare gli aspetti comici o quelli malinconici (ottima l’idea di 4 grandi orologi che fanno apparizione fin dalla Sinfonia, ritornando poi nei momenti topici dell’opera, a cui una silhouette del protagonista si ostina a spostare indietro le lancette, immancabilmente riportate al loro scorrere naturale, ma senza calcar troppo la mano su pretese filosofiche). Assolutamente godibile la resa musicale. Fin dall’attacco della Sinfonia l’orchestra appare brillante e precisa, senza sbavature e assai spigliata. Dirige il giovane Francesco Maria Colombo con mano sicura e disinvolta, imponendo un ritmo serrato e incalzante, ma contemporaneamente sottolineando i momenti più lirici e malinconici della partitura con un intelligente uso di rubati e rallentando, esaltando così la raffinatissima fattura dell’orchestrazione donizettiana. Una direzione molto equilibrata, insomma, nel solco della grande tradizione italiana dei Serafin, dei Votto, dei Sonzogno, dei Gui, perfettamente rapportata al palco e al servizio dell’opera e dei cantanti, senza alcun eccesso di protagonismo (leggendo, sul programma di sala, che Colombo ha ricevuto in dono da Menotti la bacchetta di Schippers, trovo conferma nelle mie impressioni). Qualcuno potrà storcere il naso, biascicando tra sé “ma siamo in provincia…”, beh, preferisco questa onesta, ma musicalissima “provincia” a certe pretese superstar della bacchetta! Nel complesso buono anche il cast vocale. Alessandro Spina, nel ruolo di Don Pasquale, dimostra buona verve, senza eccedere nella caratterizzazione, con voce corretta e ben impostata, non indulgendo in quegli effettacci di camuffamento, falsettini, caccole con cui colleghi anche più blasonati amano “colorare” la parte (come se non bastasse ciò che ha scritto Donizetti). Pur non avendo grandissimo volume (e forse un timbro troppo chiaro), ha saputo dosare intelligentemente i mezzi (molto ben reso il difficile sillabato del duetto con il baritono), e se certamente non è il nuovo Bruscantini (la cui lezione però si sente nella malinconica semplicità di “E’ finita, Don Pasquale”), è stato comunque interprete bravo e credibile. Sulla stessa linea Il Dottor Malatesta di Davide Bertolucci, anche lui con qualche problema di volume, ma nel complesso molto corretto: voce controllata, linea di canto abbastanza nobile, buona dimestichezza nelle agilità. Molto buona la Norina di Ilina Mihaylova, un nome da tenere d’occhio: voce ricca di volume, bella e calda, corposa nei centri, facile e sicura negli acuti, precisa nelle agilità (di ottimo gusto le variazioni), varia nel fraseggio e ottimamente proiettata. Molto spigliata in scena e mai caricaturale. Un’esecuzione decisamente buona, con il solo appunto di qualche durezza di troppo nel registro acuto. Da segnalare l’aria e il duettino con Ernesto nell’atto III giocato tutto sulla mezza voce e sul chiaroscuro, senza mai sembrare esile o evanescente. A livello inferiore il tenore Samuele Simoncini, nell’ingrata e acutissima parte di Ernesto, affrontata – forse con incoscienza – senza abbassamenti. Voce dal buon volume, ma tendente a risuonare in gola man mano che la tessitura sale. Proprio nel registro acuto si sentono gli sforzi maggiori, con alcuni problemi di intonazione (non tanto nell’aria, quanto nella serenata e nel duettino successivo). Tuttavia la linea di canto pulita e la generale musicalità hanno in parte riscattato i difetti. E poi nessuno si aspettava di ascoltare Schipa o la reincarnazione di Mario! Alla fine meritato successo per tutti. E’ stato il Don Pasquale del secolo? Certamente no e neppure posso dire fosse privo di pecche, ma un direttore di solido mestiere e con ottimo senso del palcoscenico, un’orchestra precisa e attenta (senza sbavature o stonature), una compagnia di canto corretta con un soprano decisamente buono (con una tecnica che pare molto più solida di tante altre che calcano palcoscenici più prestigiosi) e che non si lascia andare a sbracature e gigionate, non saranno forse sufficienti per rendere uno spettacolo indimenticabile, tuttavia bastano per un ottimo spettacolo e un piacevole pomeriggio a teatro. Ai dotti esterofili, invece, tutto questo non basta: forse preferiscono applaudire una Turandot di…Carsen (stupidi – e provinciali – noi che ancora parliamo di Turandot di Puccini); o ex cantanti che non riescono più (semmai vi sono riusciti) ad emettere un suono che assomigli al canto, ma che li mandano in sollucchero con la loro magistrale interpretazione e la sofferta resa del personaggio: citare la Silja o Shicoff mi pare scontato (e poi costoro denigrano la Sutherland, ridicolizzata a produttrice di belle notine, e sbeffeggiano la Caballè…davvero non c’è più pudore!); oppure passare un week end a Zurigo, magari arrivando in treno, così da essere accolti in stazione da Alfredo e Violetta; perchè poi non fare una scappata a Lipsia e cercare di spiegare quel rivoluzionario Olandese Volante a quel pubblico condannato da anni alla coprofagia e che, una volta tanto, ha deciso di ribellarsi all’ennesimo scempio (ma forse le contestazioni sono dovute a un contagio di provincialismo italiano?!); e naturalmente Bayreuth, anche se mi è giunta voce che quest’anno i Meistersinger sono stati salutati da “provincialissime” bordate di fischi (giuro: il Corriere della Grisi non frequenta la Sacra Collina). La cosa più divertente è che da quei pulpiti ci vengono lanciate le più infamanti accuse di essere prevenuti! Da loro che “trionfalmente” fanno a meno di un artista per il sol fatto che qui è stato apprezzato (giudicandolo, of course, senza mai averlo ascoltato)! Da loro che neppure prendono in considerazione la “provincia italiana” con i fondali di cartapesta e i direttori che “servono” il palcoscenico, per sorbirsi la sotto cultura inglese, tedesca, olandese, spacciata però per chissà quale meraviglia per gente istruita, dove ogni bacchetta pretende di dare l’impronta storica fregandosene dei suoi interpreti e dove si fa “teatro di regia”! Beh, io tra gli strilli dei declamatori ad oltranza, le fellatio e le ammucchiate in scena o i cappottoni stile DDR, preferisco trascorrere un piacevole pomeriggio d’autunno con un Don Pasquale ben diretto e ben interpretato al Ponchielli di Cremona. Sono in provincia? …beh, me ne farò una ragione.

6 pensieri su “La "provincia", Don Pasquale e certa esterofilia.

  1. Concordo appieno: gloria e onore alla provincia italiana !
    Nel mese di maggio di quest’anno, avendo a disposizione un paio di mesi di libertà, ho deciso di organizzarmi un piccolo viaggio in germania, con l’intento di assistere a spettacoli tipicamente della provincia tedesca. masochismo allo stato puro mi direte. e avete ragione, ma sapevo sostanzialmente ciò che mi attendeva, ma avevo voglia di toccare con mano quella tanto declamata “tradizione tedesca” del teatro di provincia. orbene, in quattro giorni di viaggio, ho visto “racconti di hoffmann” a ratisbona, “fra diavolo” a monaco (non allo staatsoper bensì allo staatstheater, ovvero la seconda scena di monaco), “ballo in maschera” a Augusta e “Alcina” a Ulm. Orbene, in primo luogo, plauso in fin dei conti a cittadine come queste (tali sono ad eccezione di Monaco) che investono somme importanti in attività culturali, serie, vere, senza speculazioni di alcun tipo, nell’interesse del cittadino. giacché se la qualità degli spettacoli è infima, non si può negare che spettacoli operistici sono, in linea con le tendenze artistiche del paese e che, quindi, nell’ottica tedesca, sono da considerare come di qualità. i criteri sono però ben diversi dai nostri, appunto perché l’aspetto qualitativo vero e proprio, lasciando il passo a quello, chiamiamolo così, innovativo. da qui regie inqualificabili (il ballo in maschera è stata un’autentica tortura). e la parte vocale, bè, semplicemente non interessa. quindi di bassissimo livello, tranne per la presenza isolata e casuale di qualche cantante che canta decentemente per merito proprio. ma per il resto, credo che nessun (ma proprio nessuno, nemmeno la scala ai tempi di muti) teatro italiano, di provincia o non, si azzarderebbe mai a scritturare un solo di questi – volonterosi – artisti. quindi, la provincia italiana, se paragonata ad altre, sarà anche più povera a livello quantitativo; ma qualitativamente si lascia alle spalle, credo, qualsiasi altro complesso di scene minori di altri paese. anch’io ho visto di tutto in Italia; la provincia però mi ha anche sempre dato un livello di decenza che quantomeno spesso soddisfa, in quanto non delude alcuna aspettativa. e poi vi è un rispetto innato da parte dell’Italia nei confronti dei compositori e della musica (al testo, al contenuto), che costituisce un freno forte al bistrattamento delle opere da mandare in scena. Meglio, in Italia, l’aspetto musicale è ancora predominante rispetto a quello scenico, cosa che ci risparmia orrori tedeschi. orrori – in provincia – da rispettare per i motivi illustrati poc’anzi, ma orrori comunque.
    buona serata a tutti.
    Emanuele

  2. Scusate, ma con chi ce l’avete? Io vado spesso in Germania e non mi lascio mancare occasioni musicali. E’ vero che non tutto è allo stesso livello; ma molte cose si collocano su di un piano elevatissimo, in un ambito che è del tutto degno di una nazione cui appartiene una straordinaria dignità culturale. E, quel che più conta, questa dignità è generalizzata, è propria di un grande numero di persone.L’educazione musicale tedesca non è neppure paragonabile con quella italiana. Il livello delle orchestre è magnifico e lascia ad una enorme distanza qualunque, dico qualunque, orchestra italiana. Per quanto attiene al tanto vituperato teatro di regia, è vero che ha prodotto alcune espressioni detestabili, ma ha anche dato origine ad alcune fra le idee più innovative e originali di questa disciplina. Gustav Gruendgens era uno straordinario regista. E io (e non solo io) considero, a giudicare da alcuni video, Walter Felsenstein il più grande regista d’opera di tutti i tempi. A Monaco, ho visto Wozzeck; la regia era di Kriegenburg, la direzione di Nagano e il protagonista era lo straordinario Michael Volle, cui si poteva rimproverare solo un eccesso di Sprechgesang. Orbene, la regia era molto suggestiva. La direzione di Nagano un po’ fredda ed eccessivamente analitica; ma nessuna orchestra italiana sarebbe stata in grado di suonare il capolavoro di Berg come l’orchestra del Nationaltheater. Un’ultima osservazione per il Sig. Emanuele. Quando si fanno critiche di tipo culturale ad un paese come la Germania, almeno si deve essere in grado di scrivere in un italiano impeccabile, almeno i congiuntivi devono essere al loro posto, almeno i gerundi non devono essere sospesi come nuvole nel cielo.

  3. Le ultime 4 righe potevano/dovevano essere evitate… Per cortesia, evitate inutili e fastidiose scortesie personali.
    Felice per la sua soddisfazione circa gli spettacoli tedeschi (però lei mi parla di alcune eccezioni, non della media), ma non credo che l’eccellenza delle orchestre (che nessuno contesta), sia sufficiente per allestire dignitosamente un’opera lirica. L’opera è canto, cioè cantanti…poco importa se dirige una superstar della bacchetta, se poi il cast è infimo! Guardi le ultime incursioni operistiche di Abbado, grandissimo direttore certo, ma che recentemente ha prodotto risultati assai mediocri nell’ambito del teatro lirico.

  4. fra i miei molti difetti, due sono deprecabili: sono di lingua madre francese e non rileggo mai i miei mail prima di mandarli, in quanto ritengo – errando sicuramente – che debbano essere spontanei e discorsivi, più che corretti. mi spiace che siano inaccettabili dal punto di vista linguistico e di ciò mi scuso.
    per il resto sottoscrivo quanto detto da duprez.
    cordiali saluti a tutti

    emanuele

  5. Detto ciò, e scusandomi per la precedente replica al sig. Marco, dibattere della supremazia della concezione germanica rispetto a quella italiana necessiterebbe di spazi molto più ampi. In realtà, e su questo credo si possa concordare, entrambe le impostazioni sono difendibili. Io sono dell’avviso (ma di avviso si tratta) che la componente musicale e canora, specie nell’opera italiana o derivante dalla tradizione italiana, sia prevalente o quantomeno non secondaria rispetto alla componente scenica. Da qui per me l’esigenza di aver una rappresentazione di qualità per quanto attiene voci e direzione (l’orchestra essendo un’emanazione di quest’ultima), sopportata da una parte visiva adeguata. Capita quindi che queste due componenti siano entrambe valide, per cui si avrà uno spettacolo di qualità. E ciò può capitare ovunque. Per un concorso di circostanze o perché è il risultato a cui si mira. Però, ripeto, preferire l’approccio germanico è questione di gusto , tradizione e impronta culturale. Ben diverso è invece l’esercizio del criticare. Qui gusto e tradizione devono per forza lasciare il passo a criteri oggettivi. Un pessimo canto va pertanto sempre identificato come tale : al massimo può non importare allo spettatore interessato ad altri aspetti dello spettacolo, ma non può solitamente essere negato.

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