Terzo titolo presentato nell’ambito della stagione lirica bergamasca (e ultima opera riconducibile al melodramma italiano di primo ‘800 – giacché poi il teatro propone una Carmen coprodotta con il circuito lirico lombardo ed un balletto) è Marino Faliero di Gaetano Donizetti. Opera di grande interesse storico e musicale (nonostante il successo interlocutorio delle prime rappresentazioni e le scarse riprese in epoca successiva), le cui vicende compositive si legano a quelle dei Puritani di Bellini, in quell’irripetibile momento di vitalità e ricchezza artistica che fu la stagione del Theatre-Italien di Parigi. Ben note le vicende storiche: a metà del 1834 Rossini – vera e propria “eminenza grigia” del Theatre-Italien – si diede da fare per procurare nuove commissioni ai più importanti compositori italiani allora in attività, in vista del nuovo cartellone. Tra di essi naturalmente Bellini e Donizetti.
Per la stagione del 1835, infatti, mentre il primo si apprestava alla composizione dei Puritani – seguito e consigliato dallo stesso Rossini – al secondo toccò Marino Faliero, una cupa vicenda di tradimento, congiura e vendetta, ispirata alle omonime tragedie di Delavigne e Lord Byron. Ad arricchire le attese e le aspettative, oltre alla rivalità (più supposta che reale) tra i due autori, fu l’impiego della medesima compagnia di canto, che annoverava i più grandi cantanti dell’epoca: Giulia Grisi, Giovanni Battista Rubini, Luigi Lablache, Antonio Tamburini. Entrambe le partiture vennero così calibrate secondo le esigenze e le capacità di quelle voci. Con tutto ciò che questo comportava in termini di tessitura, virtuosismi, difficoltà tecniche. Donizetti iniziò a stendere la partitura a Napoli, a partire dall’estate del 1834. Tuttavia, arrivato a Parigi, la sottopose – con l’assistenza e i suggerimenti di Rossini – ad una radicale revisione. Purtroppo l’originale manoscritto napoletano finì nelle mani di un editore che, intenzionato a speculare sul successo potenziale dell’opera, intendeva pubblicarlo anche senza l’autorizzazione dell’autore: la vicenda ebbe gli inevitabili strascichi legali, ma alla fine vinsero le ragioni del compositore, per cui il materiale napoletano altro non era che uno schizzo, e l’opera nella sua veste definitiva, licenziata dall’autore, era solo quella con le numerose revisioni parigine, pubblicata in Francia da Troupenas e in Italia da Ricordi. Due versioni molto differenti quindi, per il cui analitico confronto si rimanda al dettagliato saggio contenuto nel libretto di sala che accompagna la riproposta bergamasca: qui basti dire che degli originali 14 numeri dell’autografo soltanto 4 furono riversati integralmente nella nuova versione (che consta, peraltro, di 13 numeri soltanto), dei rimanenti alcuni furono tagliati, altri sostituiti con nuove composizioni, altri ancora – la maggior parte – profondamente modificati all’interno, con rielaborazioni, aggiunte o tagli (talvolta mantenendo il libretto originale, talvolta richiedendo nuovi versi). A ben vedere si tratta di due opere diverse (come possono esserlo Maometto II e Le Siège de Corinthe, o Mosè in Egitto e Moise et Pharaon, o i due Boris, molto più, cioè, di quanto lo siano le diverse redazioni del Don Carlos) ognuna con una sua specifica identità e dignità esecutiva. Peraltro lo stesso Festival Donizetti aveva dichiarato – in sede di presentazione del cartellone, credo nel giugno di quest’anno – che parallelamente alle rappresentazioni in forma scenica del Marino Faliero, nelle vesti in cui l’autore l’aveva licenziato a Parigi il 12 marzo 1835, avrebbe curato un’esecuzione in forma concertante della prima redazione, secondo l’autografo napoletano, di recente restaurato. Purtroppo la lodevole iniziativa – che sarebbe stato l’autentico motivo d’interesse del festival, oltre alla presentazione della nuova edizione critica dei Puritani (che è andata come sappiamo), e che sino ad ora si è rivelato assai deludente – è subito sparita dal programma. Forse per mancanza dei fondi necessari, o di una accorta politica di gestione degli stessi, o forse ancora per le difficoltà di reperire un altro cast disposto a studiare l’altra versione. Non si sa: resta il rammarico per l’occasione mancata. Detto questo neppure la versione proposta ieri sera seguiva esattamente la partitura pubblicata da Ricordi. Donizetti, infatti, prima e dopo le rappresentazioni parigine mise mano alla partitura (o per lui lo fece la prassi esecutiva, sensibilissima alle contingenze e ai “capricci” dei cantanti), si sa – ad esempio – che quando sbarcò in Italia, a Firenze nel 1836 e a Milano nel 1837, l’opera subì, oltre a nuovi tagli e aggiunte dettati dalle esigenze di taluni interpreti, anche modifiche e migliorie apportate dall’autore stesso che però non finirono nella partitura pubblicata (e rinvenibili in parte su versioni apocrife): un testo intricato, dunque, in cui le fonti si sovrappongono e si intrecciano. L’organizzazione del Festival a tal proposito dichiara che l’edizione presentata è stata “condotta sull’autografo per le parti rimaste invariate, e su diverse altre fonti (soprattutto alcune partiture più tarde e una riduzione pianistica napoletana) per quelle invece che subirono delle modifiche”, assicurandoci che “il risultato è ciò che, presumibilmente, si vide si sentì al Theatre-Italien nel 1835”. Scelta testuale inedita, quindi, e per certi versi discutibile (in assenza di una vera edizione critica), dato che appare il frutto di un mescolamento arbitrario delle diverse redazione, laddove l’unica versione espressamente approvata dall’autore è e rimane quella stampata da Ricordi (dei ritocchi, infatti, tutt’ora non sono sopravvenute tracce certe né si sa quali di essi fossero effettivamente sanzionati da Donizetti). Il che dà luogo ad alcune incongruenze: tra le più evidenti, la scelta della Sinfonia, composta sì per Parigi, ma non inclusa nella partitura pubblicata da Ricordi, che preferisce – per probabile indicazione dell’autore, oltre che per la effettiva modestia del brano parigino – l’originale Preludio napoletano. Sicuramente altri dettagli riportano arbitrariamente all’autografo o a versioni successive, tuttavia non disponendo delle fonti non è stato possibile rilevarli. L’opera, problemi testuali a parte, è comunque molto interessante: sia dal punto di vista squisitamente musicale (pur rimanendo vocalmente meno seducente dei coevi Puritani), sia per ciò che concerne la struttura, che tende a superare certe convenzioni tipiche del melodramma ottocentesco. Innanzitutto il protagonista, Faliero, modellato sulla vocalità di Luigi Lablache: il pubblico della prima rimase sicuramente spiazzato nel vedere il basso, il marito offeso, convenzionalmente ai margini del consueto triangolo amoroso ed in vesti assolutamente diverse (confidente o confessore), nel ruolo apicale del dramma, vero motore della vicenda (il Rossini di Maometto II – altra opera con basso protagonista – al momento della rielaborazione francese, ne smussò il ruolo, conscio della diversità del pubblico d’oltralpe rispetto a quello napoletano, più progredito e ansioso di novità). E poi il ruolo di Elena, scritto per Giulia Grisi, del tutto atipico rispetto alle convezioni del melodramma (convenzioni ben più presenti nei Puritani): qui solo nell’atto III e nel finale ultimo ha modo di mostrarsi quale vera primadonna, ma non attraverso la consueta aria con cabaletta, bensì un duetto col basso e un breve e scarno recitativo privo di accompagnamento, di grande tensione drammatica, nell’attesa che dietro le quinte Faliero venga giustiziato. Per il resto: nell’atto I ha un duetto col tenore e partecipa al finale, mentre nell’atto II è del tutto assente. Unico episodio solistico che le viene concesso è l’aria dell’ultimo atto: la cavatina prima del duetto col tenore, prevista nel manoscritto napoletano, venne eliminata nella rielaborazione parigina (per la prima italiana, a Firenze, Carolina Ungher, che interpretava il ruolo, forse non paga del personaggio così come disegnato dall’autore, vi inserì la virtuosistica sortita di Sancia di Castiglia). Ad Antonio Tamburini il ruolo di Israele, insieme a Faliero motore della vicenda (sarà lui a convincere l’anziano doge ad appoggiare la cospirazione contro il Consiglio dei Dieci) e con lui protagonista del grande duetto dell’atto I, ricco di spunti preverdiani. Di particolare rilievo anche l’aria dell’ultimo atto (che a Firenze verrà omessa). Più tradizionale il personaggio di Fernando, nipote del doge e amante tormentato della di lui moglie, scritto per Giovanni Battista Rubini: “una delle più incomparabili e superbe interpretazioni vocali del tenore”, scrisse qualcuno. E in effetti il ruolo è proibitivo: la prima aria, riccamente fiorita, e insistente sulle note oltre il rigo del pentagramma, porta la voce sino al Re bemolle acuto (seguita da una vigorosa e ardua cabaletta che comprende diversi Re acuti, e un Fa facoltativo); la seconda aria, sempre in due sezioni, anch’essa di tessitura impervia, comprende una cabaletta assai acrobatica con sopracuti e virtuosismi assortiti. E’ probabile che proprio la difficoltà di reperire un tenore in grado di reggere queste tessiture acutissime (tutta la linea vocale insiste sulla parte oltre il rigo), sia la vera causa dell’oblio di opere come questa (oggi, per la verità, di voci adatte ce ne sarebbero ancora meno, tuttavia si eseguono lo stesso…con incosciente arroganza). Titolo che occupa un posto di rilievo nel catalogo donizettiano (un vero punto di svolta), di estremo vigore compositivo, ricco di spunti che guardano al futuro (il parallelo con I Due Foscari è scontato, ma ben più dell’opera di Verdi il Faliero appare compatto e ispirato), di grande tensione drammatica. Ebbe tra i suoi ammiratori Giuseppe Mazzini, che, forse suggestionato dalla tematica “rivoluzionaria”, vide in essa e nell’autore “l’opera dell’avvenire”. All’opera di Donizetti dedicò l’ultima parte della sua Filosofia della Musica (1836), analizzando con cura e passione i brani più importanti (dal duetto tra basso e baritono ai grandi cori, dalla barcarola del Gondoliere all’aria di Elena, dalla morte di Fernando al duetto finale tra la Grisi e Lablache) e vedendo in essi “indizi potenti d’un genio che non s’è svolto tutto finora, che vorrebbe bene pur correrlo, che forse inceppato, strozzato dalle mille cagioni ch’ostano in oggi al genio valente, nol correrà; ma che a ogni modo s’è rivelato in preludii, da’ quali la generazione ventura trarrà, credo, argomento di dire: Quegli era potente a conquistarlo, se avesse voluto davvero”. A Bergamo Marino Faliero era Giorgio Surjan. Con una ragguardevole carriera alle spalle (debutta nell’81 con Ernani), dedicata principalmente al repertorio del primo ‘800, la voce tradisce inequivocabilmente i segni del tempo: qualche problema di tenuta negli acuti e un vibrato piuttosto accentuato. Tuttavia è cantante di solido professionismo, che manca forse (e non solo oggi) di quell’autorità che richiederebbe il ruolo. Se, quindi, i momenti “intimi”, come il duetto finale, risultano i più riusciti, non altrettanto si può dire per i brani che richiedono maggiore autorevolezza e forza, in primis il duetto con Israele. Detto questo Surjan è cantante che sa dove e come mettere la voce, e dipinge un Doge credibile e ben cantato, che si pone su un altro pianeta rispetto ai colleghi che lo accompagnano nell’esecuzione bergamasca. Nel ruolo che fu della Grisi, la Dogaressa Elena, Rachele Stanisci: la parte, relativamente breve, necessita di temperamento autenticamente drammatico (senza scadere, però, in eccessi paraveristi), oltre alla consueta padronanza del canto d’agilità. La Stanisci, che ha debuttato in Mozart, Cimarosa, e certo Puccini, sta ora virando il repertorio verso ruoli ben più “pesanti” (il Verdi di Trovatore, Aida e Don Carlo), tuttavia non sembra, ad ora, disporre dei mezzi necessari. Il timbro è artificiosamente scurito nei centri, mentre man mano che la voce sale il canto si fa ingolato e privo di corretto “appoggio”. Gli acuti, così, risultano costantemente “indietro” e faticosissimi (spesso sono prossimi al bercio più volgare), tanto che è costretta a posture grottesche onde facilitare (invero malamente) l’emissione.. Si aggiunga poi un grave problema di intonazione che inficia il virtuosismo insito nella parte. Nel primo atto esordisce con evidenti stonature che si ripropongono aggravate nella scena e aria dell’atto III. La Stanisci poi tende a “callaseggiare” nel senso peggiore del termine. Il canto di agilità è difficoltoso e la presenza scenica impacciata. A vestire gli ingrati panni di Fernando, pensati per la voce di Rubini, Ivan Magrì: davvero non si comprende il motivo che spinga un cantante – evidentemente privo dei mezzi necessari a superare decorosamente la parte – ad accettare un ruolo del genere. Non basta, infatti, la buona volontà, la dote naturale, o la giovanile incoscienza. Magrì esordisce con una voce evidentemente favorita dalla natura (bella, voluminosa e squillante), peccato che sia rimasta allo stato brado, priva, cioè, di una qualsiasi educazione e tecnica. Dopo un recitativo sgangherato, salvato da una buona esecuzione dell’aria (esclusivamente sulle doti naturali), la cabaletta (misericordiosamente eseguita senza da capo) rivela, impietosa, le pecche: la voce tende a rimpicciolire man mano che sale, sino a risuonare esclusivamente nella gola. Questo rende gli acuti faticosi e sforzati, e i sovracuti necessitano l’abuso di falsetto. Ovviamente sforzare così la voce (che non usa correttamente la maschera e non appoggia con la tecnica dovuta) produce un rapido affaticamento, tant’è che nel duetto che immediatamente succede all’aria, Magrì naufraga miseramente: la voce rimpicciolisce e ricorre ora all’urlo ora al falsetto, stonando evidentemente in ambedue i casi (e in ciò perfettamente affiancato dalla stonatissima Stanisci). Il peggio però, è riservato all’aria dell’atto II (che metteva in difficoltà lo stesso Blake): stonature, agilità raffazzonata, inciampi nel solfeggio. La cabaletta (il da capo ci è di nuovo risparmiato) sembra eseguita in prima lettura, tanto è sgangherata nel ritmo e nell’intonazione. Gli acuti sono presi “alla bersagliera” e immancabilmente gridati. La voce è ormai spossata, incapace di reggere la linea di canto e di legare le note. Un’autentica vergogna, purtroppo non accolta con i doverosi segnali di riprovazione da parte del pubblico, ma con il consueto (anche se timido) applauso dei più. Israele era il baritono Luca Grassi, che ha stonato dall’inizio alla fine, “regalandoci” pure una sonora stecca (roba d’altri tempi) sul finale dell’aria dell’atto III (dopo una cabaletta ignobile, con tanto di da capo stavolta, privo della più minima variazione). Peccato che la sua parte sia, forse, la più bella e musicalmente interessante dell’opera. Comprimari mediocri (in particolare lo stonatissimo ed effeminato Leoni di Leonardo Gramegna: improponibile nella somiglianza con un satrapo della Bisanzio della decadenza!), compreso il Gondoliere di Domenico Menini a cui è affidata la suggestiva Barcarola dell’atto II (sulla cui linea melodica è costruito il Preludio, disegnando così, sin dall’inizio, il clima notturno dell’opera): e pensare che alla prima era cantata dalla soavissima voce di Nicola Ivanoff! Alla guida dell’orchestra bergamasca, Bruno Cinquegrani, chiamato a dirigere una partitura assai complessa, cupa, tragica, che deve ben rendere e tradurre “quell’ombra dell’antica Venezia” che “si stende misteriosa, solenne sull’intero dramma” (come scrive il Mazzini). Compito che purtroppo non gli riesce affatto, limitandosi a battere il tempo e a far procedere ordinatamente l’orchestra. L’opera così, perde gran parte del fascino e della suggestione, sortendo, spesso, l’effetto contrario: dalla Sinfonia (invero bruttina) degna di un’operetta, ai cori tanto vivaci e gai da non sfigurare in un’opera buffa (e immancabilmente “strillati” dalle mediocrissime compagini bergamasche), ai tempi troppo veloci e scanditi (che sembrano voler confermare il nomignolo “dozzinetti” dedicato dai più accesi denigratori all’autore). Regia ispirata al più che comodo laissez-faire (che demanda ogni interpretazione all’estro del singolo: e a volte conviene, altre volte – spesso in questo caso – conviene assai meno) e costumi abbastanza anonimi di un polveroso tradizionalismo. Molto brutta la scena unica: uno spazio circolare, chiuso da pareti metalliche, sul cui pavimento ora si aprono le fornaci dell’Arsenale, ora i pavimenti decorati del Palazzo Ducale (o della residenza di Leoni) ovvero la stuoia che funge da letto alla Dogaressa, ora campeggia un trono ferreo, ora si apre la voragine delle prigioni. Luci molto brillanti e calde, che contribuiscono – insieme a tutto il resto – a menomare l’atmosfera notturna e cupa che dovrebbe aleggiare sull’opera. Alla fine i consueti e immeritati applausi fanno calare il sipario su di una brutta esecuzione in un brutto Festival, dedicato, suo malgrado, all’autore che oggi, più di tutti, necessiterebbe di uno spazio serio e dedicato. Purtroppo il problema principale è legato agli interpreti: opere come Marino Faliero, scritte su misura per i fuoriclasse dell’epoca, necessitano di altrettante ugole per poter esprimere tutto il loro splendore. Così come rappresentate ieri, invece, mostrano solo le tante debolezze. Per concludere il Faliero resta opera cruciale nel catalogo donizettiano, di poco successo all’epoca, ma di grande lascito per il futuro (più di una volta si scorge Verdi nella partitura). Titolo dalla coraggiosa e innovativa struttura musicale, che meriterebbe un trattamento assai migliore, non potendosi reggere unicamente sulla affaticata bravura del protagonista. Assistendo alla rappresentazione di ieri pomeriggio non si può che immaginare soltanto quello che doveva essere l’opera, sia nella mente dell’autore che nelle orecchie dei primi spettatori: le esibizioni vocali, i virtuosismi, le finezze strumentali, la grandiosità della messa in scena. Espressamente costruita sull’eccellenza degli interpreti, ora ridotta a mediocre “vorrei, ma non posso”! A conclusione riporto qui quanto scritto da Mazzini nella sua acuta e approfondita analisi dell’opera: analisi che ben rende l’idea di quel che doveva essere la sensazione che essa donava allo spettatore dell’epoca: “E i presentimenti di rinnovamento crescono nel Marino Faliero. Un’ombra dell’antica Venezia – quanto almeno comportava il libretto – si stende misteriosa, solenne sull’intero dramma. La romanza del gondoliere, pronunciata nella sinfonia e cantata soavissimamente dall’Iwanoff, – il ballo veramente de’ tempi nel finale dell’atto primo, a cui s’intreccia con tanta scienza il dialogo declamato tra Faliero e Bertucci, – l’inno magnifico di Faliero cantato da’ cori, – la cavatina Di mia patria, o bel soggiorno, che solo un esule può intendere, e l’allegro dove un conforto d’amore spira con indicibile soavità, per entro alla languida tristezza della lontananza; – poi, e innanzi a tutto, il nuovo, sublime e veramente ispirato duetto fra Marino Faliero e Israele Bertucci, rappresentazione profondamente vera, l’uno del principio popolare intollerante di giogo, l’altro del principio aristocratico offeso nella parte più vitale della sua essenza, l’onore, – quell’alternare, iroso, tronco, concitato di frasi melodiche, che non è canto, perché chi canta è l’orchestra, ma congiura reale, evidente, evocata dalle ceneri di Faliero e Israele, – quella maestrìa mirabile di scienza musicale e scienza fisiologica umana ad un tempo, maestrìa d’insistenza progressiva in Israele, di progressivo incalorimento in Faliero: diresti una lama messa da Israele nel petto del doge, che penetra, penetra, poi quando il grido d’un popolo conculcato non basta, e Israele gitta a un tratto sulla bilancia l’onta del Doge, gli si pianta nel core, – e quel rapido annunzio delle sue vittorie a Bertucci Venezia avrà il brando di Falier, che sale alle stelle, e ti svincola l’anima da quel peso d’incertezza angosciosa che la premeva; – e quello spegnersi di ogni lotta in un vaticinio d’azione nel fratelli, amici furono, vero guanto di sfida cacciato alla tirannide veneta dai due principii serrati a lega di vendetta e di sangue – e allora quell’aura di tristezza muta, secreta, non definita, ma sempre crescente, che sottentra lenta lenta all’energia della volontà, che pone ad uno ad uno gli attori del dramma sotto il dominio della fatalità, unica da quel punto in poi scioglitrice del nodo: che invade la musica, trapela nei due cori del second’atto, serpeggia, ti circonda, t’avvinghia delle sue spire, in quel fatidico preludiare di violoncelli, all’io ti veggio, or piangi e tremi: si versa per ogni nota di quell’adagio ch’è un’onda di musica, s’incarna in quella movenza nuova, legata, continua, vi pone, o m’inganno, un presentimento della morte di Fernando, signoreggia dall’alto, cupa come la notte, immobile come la laguna, sull’apparire del Doge fra congiurati, e su quelle note, piene, gravi, solenni del Questo schiavo coronato; annuncia il suo trionfo vicino, in quel batter d’armi e di brandi che s’ode, e vince finalmente nell’ultimo addio di Fernando alla vita, riassumendosi tutta in quel mi bemolle su cui poggia l’intero canto, – poi l’ultimo sforzo, l’ultimo gigantesco tentativo dell’umana volontà che concentra tremendamente tutte le sue potenze alla lotta, e si slancia disperatamente nella stretta: non un’alba, non un’ora, che chiude la scena – poi ancora, e quando tutto è finito, l’aria cantata da Elena, l’addio di Bertucci a’ suoi figli, quel conato eloquente Siamo vili e fummo prodi, che dovrebbe far arrossire chi l’ode: il duetto finale tra la Grisi e Lablache, – sono tutti più o meno – o travedo – indizi potenti d’un genio che non s’è svolto tutto finora, che intravvede voglioso un nuovo mondo musicale, che vorrebbe bene pur correrlo, che forse inceppato, strozzato dalle mille cagioni ch’ostano in oggi al genio valente, nol correrà; ma che a ogni modo s’è rivelato in preludii, da’ quali la generazione ventura trarrà, credo, argomento di dire: Quegli era potente a conquistarlo, se avesse voluto davvero”.
Per la stagione del 1835, infatti, mentre il primo si apprestava alla composizione dei Puritani – seguito e consigliato dallo stesso Rossini – al secondo toccò Marino Faliero, una cupa vicenda di tradimento, congiura e vendetta, ispirata alle omonime tragedie di Delavigne e Lord Byron. Ad arricchire le attese e le aspettative, oltre alla rivalità (più supposta che reale) tra i due autori, fu l’impiego della medesima compagnia di canto, che annoverava i più grandi cantanti dell’epoca: Giulia Grisi, Giovanni Battista Rubini, Luigi Lablache, Antonio Tamburini. Entrambe le partiture vennero così calibrate secondo le esigenze e le capacità di quelle voci. Con tutto ciò che questo comportava in termini di tessitura, virtuosismi, difficoltà tecniche. Donizetti iniziò a stendere la partitura a Napoli, a partire dall’estate del 1834. Tuttavia, arrivato a Parigi, la sottopose – con l’assistenza e i suggerimenti di Rossini – ad una radicale revisione. Purtroppo l’originale manoscritto napoletano finì nelle mani di un editore che, intenzionato a speculare sul successo potenziale dell’opera, intendeva pubblicarlo anche senza l’autorizzazione dell’autore: la vicenda ebbe gli inevitabili strascichi legali, ma alla fine vinsero le ragioni del compositore, per cui il materiale napoletano altro non era che uno schizzo, e l’opera nella sua veste definitiva, licenziata dall’autore, era solo quella con le numerose revisioni parigine, pubblicata in Francia da Troupenas e in Italia da Ricordi. Due versioni molto differenti quindi, per il cui analitico confronto si rimanda al dettagliato saggio contenuto nel libretto di sala che accompagna la riproposta bergamasca: qui basti dire che degli originali 14 numeri dell’autografo soltanto 4 furono riversati integralmente nella nuova versione (che consta, peraltro, di 13 numeri soltanto), dei rimanenti alcuni furono tagliati, altri sostituiti con nuove composizioni, altri ancora – la maggior parte – profondamente modificati all’interno, con rielaborazioni, aggiunte o tagli (talvolta mantenendo il libretto originale, talvolta richiedendo nuovi versi). A ben vedere si tratta di due opere diverse (come possono esserlo Maometto II e Le Siège de Corinthe, o Mosè in Egitto e Moise et Pharaon, o i due Boris, molto più, cioè, di quanto lo siano le diverse redazioni del Don Carlos) ognuna con una sua specifica identità e dignità esecutiva. Peraltro lo stesso Festival Donizetti aveva dichiarato – in sede di presentazione del cartellone, credo nel giugno di quest’anno – che parallelamente alle rappresentazioni in forma scenica del Marino Faliero, nelle vesti in cui l’autore l’aveva licenziato a Parigi il 12 marzo 1835, avrebbe curato un’esecuzione in forma concertante della prima redazione, secondo l’autografo napoletano, di recente restaurato. Purtroppo la lodevole iniziativa – che sarebbe stato l’autentico motivo d’interesse del festival, oltre alla presentazione della nuova edizione critica dei Puritani (che è andata come sappiamo), e che sino ad ora si è rivelato assai deludente – è subito sparita dal programma. Forse per mancanza dei fondi necessari, o di una accorta politica di gestione degli stessi, o forse ancora per le difficoltà di reperire un altro cast disposto a studiare l’altra versione. Non si sa: resta il rammarico per l’occasione mancata. Detto questo neppure la versione proposta ieri sera seguiva esattamente la partitura pubblicata da Ricordi. Donizetti, infatti, prima e dopo le rappresentazioni parigine mise mano alla partitura (o per lui lo fece la prassi esecutiva, sensibilissima alle contingenze e ai “capricci” dei cantanti), si sa – ad esempio – che quando sbarcò in Italia, a Firenze nel 1836 e a Milano nel 1837, l’opera subì, oltre a nuovi tagli e aggiunte dettati dalle esigenze di taluni interpreti, anche modifiche e migliorie apportate dall’autore stesso che però non finirono nella partitura pubblicata (e rinvenibili in parte su versioni apocrife): un testo intricato, dunque, in cui le fonti si sovrappongono e si intrecciano. L’organizzazione del Festival a tal proposito dichiara che l’edizione presentata è stata “condotta sull’autografo per le parti rimaste invariate, e su diverse altre fonti (soprattutto alcune partiture più tarde e una riduzione pianistica napoletana) per quelle invece che subirono delle modifiche”, assicurandoci che “il risultato è ciò che, presumibilmente, si vide si sentì al Theatre-Italien nel 1835”. Scelta testuale inedita, quindi, e per certi versi discutibile (in assenza di una vera edizione critica), dato che appare il frutto di un mescolamento arbitrario delle diverse redazione, laddove l’unica versione espressamente approvata dall’autore è e rimane quella stampata da Ricordi (dei ritocchi, infatti, tutt’ora non sono sopravvenute tracce certe né si sa quali di essi fossero effettivamente sanzionati da Donizetti). Il che dà luogo ad alcune incongruenze: tra le più evidenti, la scelta della Sinfonia, composta sì per Parigi, ma non inclusa nella partitura pubblicata da Ricordi, che preferisce – per probabile indicazione dell’autore, oltre che per la effettiva modestia del brano parigino – l’originale Preludio napoletano. Sicuramente altri dettagli riportano arbitrariamente all’autografo o a versioni successive, tuttavia non disponendo delle fonti non è stato possibile rilevarli. L’opera, problemi testuali a parte, è comunque molto interessante: sia dal punto di vista squisitamente musicale (pur rimanendo vocalmente meno seducente dei coevi Puritani), sia per ciò che concerne la struttura, che tende a superare certe convenzioni tipiche del melodramma ottocentesco. Innanzitutto il protagonista, Faliero, modellato sulla vocalità di Luigi Lablache: il pubblico della prima rimase sicuramente spiazzato nel vedere il basso, il marito offeso, convenzionalmente ai margini del consueto triangolo amoroso ed in vesti assolutamente diverse (confidente o confessore), nel ruolo apicale del dramma, vero motore della vicenda (il Rossini di Maometto II – altra opera con basso protagonista – al momento della rielaborazione francese, ne smussò il ruolo, conscio della diversità del pubblico d’oltralpe rispetto a quello napoletano, più progredito e ansioso di novità). E poi il ruolo di Elena, scritto per Giulia Grisi, del tutto atipico rispetto alle convezioni del melodramma (convenzioni ben più presenti nei Puritani): qui solo nell’atto III e nel finale ultimo ha modo di mostrarsi quale vera primadonna, ma non attraverso la consueta aria con cabaletta, bensì un duetto col basso e un breve e scarno recitativo privo di accompagnamento, di grande tensione drammatica, nell’attesa che dietro le quinte Faliero venga giustiziato. Per il resto: nell’atto I ha un duetto col tenore e partecipa al finale, mentre nell’atto II è del tutto assente. Unico episodio solistico che le viene concesso è l’aria dell’ultimo atto: la cavatina prima del duetto col tenore, prevista nel manoscritto napoletano, venne eliminata nella rielaborazione parigina (per la prima italiana, a Firenze, Carolina Ungher, che interpretava il ruolo, forse non paga del personaggio così come disegnato dall’autore, vi inserì la virtuosistica sortita di Sancia di Castiglia). Ad Antonio Tamburini il ruolo di Israele, insieme a Faliero motore della vicenda (sarà lui a convincere l’anziano doge ad appoggiare la cospirazione contro il Consiglio dei Dieci) e con lui protagonista del grande duetto dell’atto I, ricco di spunti preverdiani. Di particolare rilievo anche l’aria dell’ultimo atto (che a Firenze verrà omessa). Più tradizionale il personaggio di Fernando, nipote del doge e amante tormentato della di lui moglie, scritto per Giovanni Battista Rubini: “una delle più incomparabili e superbe interpretazioni vocali del tenore”, scrisse qualcuno. E in effetti il ruolo è proibitivo: la prima aria, riccamente fiorita, e insistente sulle note oltre il rigo del pentagramma, porta la voce sino al Re bemolle acuto (seguita da una vigorosa e ardua cabaletta che comprende diversi Re acuti, e un Fa facoltativo); la seconda aria, sempre in due sezioni, anch’essa di tessitura impervia, comprende una cabaletta assai acrobatica con sopracuti e virtuosismi assortiti. E’ probabile che proprio la difficoltà di reperire un tenore in grado di reggere queste tessiture acutissime (tutta la linea vocale insiste sulla parte oltre il rigo), sia la vera causa dell’oblio di opere come questa (oggi, per la verità, di voci adatte ce ne sarebbero ancora meno, tuttavia si eseguono lo stesso…con incosciente arroganza). Titolo che occupa un posto di rilievo nel catalogo donizettiano (un vero punto di svolta), di estremo vigore compositivo, ricco di spunti che guardano al futuro (il parallelo con I Due Foscari è scontato, ma ben più dell’opera di Verdi il Faliero appare compatto e ispirato), di grande tensione drammatica. Ebbe tra i suoi ammiratori Giuseppe Mazzini, che, forse suggestionato dalla tematica “rivoluzionaria”, vide in essa e nell’autore “l’opera dell’avvenire”. All’opera di Donizetti dedicò l’ultima parte della sua Filosofia della Musica (1836), analizzando con cura e passione i brani più importanti (dal duetto tra basso e baritono ai grandi cori, dalla barcarola del Gondoliere all’aria di Elena, dalla morte di Fernando al duetto finale tra la Grisi e Lablache) e vedendo in essi “indizi potenti d’un genio che non s’è svolto tutto finora, che vorrebbe bene pur correrlo, che forse inceppato, strozzato dalle mille cagioni ch’ostano in oggi al genio valente, nol correrà; ma che a ogni modo s’è rivelato in preludii, da’ quali la generazione ventura trarrà, credo, argomento di dire: Quegli era potente a conquistarlo, se avesse voluto davvero”. A Bergamo Marino Faliero era Giorgio Surjan. Con una ragguardevole carriera alle spalle (debutta nell’81 con Ernani), dedicata principalmente al repertorio del primo ‘800, la voce tradisce inequivocabilmente i segni del tempo: qualche problema di tenuta negli acuti e un vibrato piuttosto accentuato. Tuttavia è cantante di solido professionismo, che manca forse (e non solo oggi) di quell’autorità che richiederebbe il ruolo. Se, quindi, i momenti “intimi”, come il duetto finale, risultano i più riusciti, non altrettanto si può dire per i brani che richiedono maggiore autorevolezza e forza, in primis il duetto con Israele. Detto questo Surjan è cantante che sa dove e come mettere la voce, e dipinge un Doge credibile e ben cantato, che si pone su un altro pianeta rispetto ai colleghi che lo accompagnano nell’esecuzione bergamasca. Nel ruolo che fu della Grisi, la Dogaressa Elena, Rachele Stanisci: la parte, relativamente breve, necessita di temperamento autenticamente drammatico (senza scadere, però, in eccessi paraveristi), oltre alla consueta padronanza del canto d’agilità. La Stanisci, che ha debuttato in Mozart, Cimarosa, e certo Puccini, sta ora virando il repertorio verso ruoli ben più “pesanti” (il Verdi di Trovatore, Aida e Don Carlo), tuttavia non sembra, ad ora, disporre dei mezzi necessari. Il timbro è artificiosamente scurito nei centri, mentre man mano che la voce sale il canto si fa ingolato e privo di corretto “appoggio”. Gli acuti, così, risultano costantemente “indietro” e faticosissimi (spesso sono prossimi al bercio più volgare), tanto che è costretta a posture grottesche onde facilitare (invero malamente) l’emissione.. Si aggiunga poi un grave problema di intonazione che inficia il virtuosismo insito nella parte. Nel primo atto esordisce con evidenti stonature che si ripropongono aggravate nella scena e aria dell’atto III. La Stanisci poi tende a “callaseggiare” nel senso peggiore del termine. Il canto di agilità è difficoltoso e la presenza scenica impacciata. A vestire gli ingrati panni di Fernando, pensati per la voce di Rubini, Ivan Magrì: davvero non si comprende il motivo che spinga un cantante – evidentemente privo dei mezzi necessari a superare decorosamente la parte – ad accettare un ruolo del genere. Non basta, infatti, la buona volontà, la dote naturale, o la giovanile incoscienza. Magrì esordisce con una voce evidentemente favorita dalla natura (bella, voluminosa e squillante), peccato che sia rimasta allo stato brado, priva, cioè, di una qualsiasi educazione e tecnica. Dopo un recitativo sgangherato, salvato da una buona esecuzione dell’aria (esclusivamente sulle doti naturali), la cabaletta (misericordiosamente eseguita senza da capo) rivela, impietosa, le pecche: la voce tende a rimpicciolire man mano che sale, sino a risuonare esclusivamente nella gola. Questo rende gli acuti faticosi e sforzati, e i sovracuti necessitano l’abuso di falsetto. Ovviamente sforzare così la voce (che non usa correttamente la maschera e non appoggia con la tecnica dovuta) produce un rapido affaticamento, tant’è che nel duetto che immediatamente succede all’aria, Magrì naufraga miseramente: la voce rimpicciolisce e ricorre ora all’urlo ora al falsetto, stonando evidentemente in ambedue i casi (e in ciò perfettamente affiancato dalla stonatissima Stanisci). Il peggio però, è riservato all’aria dell’atto II (che metteva in difficoltà lo stesso Blake): stonature, agilità raffazzonata, inciampi nel solfeggio. La cabaletta (il da capo ci è di nuovo risparmiato) sembra eseguita in prima lettura, tanto è sgangherata nel ritmo e nell’intonazione. Gli acuti sono presi “alla bersagliera” e immancabilmente gridati. La voce è ormai spossata, incapace di reggere la linea di canto e di legare le note. Un’autentica vergogna, purtroppo non accolta con i doverosi segnali di riprovazione da parte del pubblico, ma con il consueto (anche se timido) applauso dei più. Israele era il baritono Luca Grassi, che ha stonato dall’inizio alla fine, “regalandoci” pure una sonora stecca (roba d’altri tempi) sul finale dell’aria dell’atto III (dopo una cabaletta ignobile, con tanto di da capo stavolta, privo della più minima variazione). Peccato che la sua parte sia, forse, la più bella e musicalmente interessante dell’opera. Comprimari mediocri (in particolare lo stonatissimo ed effeminato Leoni di Leonardo Gramegna: improponibile nella somiglianza con un satrapo della Bisanzio della decadenza!), compreso il Gondoliere di Domenico Menini a cui è affidata la suggestiva Barcarola dell’atto II (sulla cui linea melodica è costruito il Preludio, disegnando così, sin dall’inizio, il clima notturno dell’opera): e pensare che alla prima era cantata dalla soavissima voce di Nicola Ivanoff! Alla guida dell’orchestra bergamasca, Bruno Cinquegrani, chiamato a dirigere una partitura assai complessa, cupa, tragica, che deve ben rendere e tradurre “quell’ombra dell’antica Venezia” che “si stende misteriosa, solenne sull’intero dramma” (come scrive il Mazzini). Compito che purtroppo non gli riesce affatto, limitandosi a battere il tempo e a far procedere ordinatamente l’orchestra. L’opera così, perde gran parte del fascino e della suggestione, sortendo, spesso, l’effetto contrario: dalla Sinfonia (invero bruttina) degna di un’operetta, ai cori tanto vivaci e gai da non sfigurare in un’opera buffa (e immancabilmente “strillati” dalle mediocrissime compagini bergamasche), ai tempi troppo veloci e scanditi (che sembrano voler confermare il nomignolo “dozzinetti” dedicato dai più accesi denigratori all’autore). Regia ispirata al più che comodo laissez-faire (che demanda ogni interpretazione all’estro del singolo: e a volte conviene, altre volte – spesso in questo caso – conviene assai meno) e costumi abbastanza anonimi di un polveroso tradizionalismo. Molto brutta la scena unica: uno spazio circolare, chiuso da pareti metalliche, sul cui pavimento ora si aprono le fornaci dell’Arsenale, ora i pavimenti decorati del Palazzo Ducale (o della residenza di Leoni) ovvero la stuoia che funge da letto alla Dogaressa, ora campeggia un trono ferreo, ora si apre la voragine delle prigioni. Luci molto brillanti e calde, che contribuiscono – insieme a tutto il resto – a menomare l’atmosfera notturna e cupa che dovrebbe aleggiare sull’opera. Alla fine i consueti e immeritati applausi fanno calare il sipario su di una brutta esecuzione in un brutto Festival, dedicato, suo malgrado, all’autore che oggi, più di tutti, necessiterebbe di uno spazio serio e dedicato. Purtroppo il problema principale è legato agli interpreti: opere come Marino Faliero, scritte su misura per i fuoriclasse dell’epoca, necessitano di altrettante ugole per poter esprimere tutto il loro splendore. Così come rappresentate ieri, invece, mostrano solo le tante debolezze. Per concludere il Faliero resta opera cruciale nel catalogo donizettiano, di poco successo all’epoca, ma di grande lascito per il futuro (più di una volta si scorge Verdi nella partitura). Titolo dalla coraggiosa e innovativa struttura musicale, che meriterebbe un trattamento assai migliore, non potendosi reggere unicamente sulla affaticata bravura del protagonista. Assistendo alla rappresentazione di ieri pomeriggio non si può che immaginare soltanto quello che doveva essere l’opera, sia nella mente dell’autore che nelle orecchie dei primi spettatori: le esibizioni vocali, i virtuosismi, le finezze strumentali, la grandiosità della messa in scena. Espressamente costruita sull’eccellenza degli interpreti, ora ridotta a mediocre “vorrei, ma non posso”! A conclusione riporto qui quanto scritto da Mazzini nella sua acuta e approfondita analisi dell’opera: analisi che ben rende l’idea di quel che doveva essere la sensazione che essa donava allo spettatore dell’epoca: “E i presentimenti di rinnovamento crescono nel Marino Faliero. Un’ombra dell’antica Venezia – quanto almeno comportava il libretto – si stende misteriosa, solenne sull’intero dramma. La romanza del gondoliere, pronunciata nella sinfonia e cantata soavissimamente dall’Iwanoff, – il ballo veramente de’ tempi nel finale dell’atto primo, a cui s’intreccia con tanta scienza il dialogo declamato tra Faliero e Bertucci, – l’inno magnifico di Faliero cantato da’ cori, – la cavatina Di mia patria, o bel soggiorno, che solo un esule può intendere, e l’allegro dove un conforto d’amore spira con indicibile soavità, per entro alla languida tristezza della lontananza; – poi, e innanzi a tutto, il nuovo, sublime e veramente ispirato duetto fra Marino Faliero e Israele Bertucci, rappresentazione profondamente vera, l’uno del principio popolare intollerante di giogo, l’altro del principio aristocratico offeso nella parte più vitale della sua essenza, l’onore, – quell’alternare, iroso, tronco, concitato di frasi melodiche, che non è canto, perché chi canta è l’orchestra, ma congiura reale, evidente, evocata dalle ceneri di Faliero e Israele, – quella maestrìa mirabile di scienza musicale e scienza fisiologica umana ad un tempo, maestrìa d’insistenza progressiva in Israele, di progressivo incalorimento in Faliero: diresti una lama messa da Israele nel petto del doge, che penetra, penetra, poi quando il grido d’un popolo conculcato non basta, e Israele gitta a un tratto sulla bilancia l’onta del Doge, gli si pianta nel core, – e quel rapido annunzio delle sue vittorie a Bertucci Venezia avrà il brando di Falier, che sale alle stelle, e ti svincola l’anima da quel peso d’incertezza angosciosa che la premeva; – e quello spegnersi di ogni lotta in un vaticinio d’azione nel fratelli, amici furono, vero guanto di sfida cacciato alla tirannide veneta dai due principii serrati a lega di vendetta e di sangue – e allora quell’aura di tristezza muta, secreta, non definita, ma sempre crescente, che sottentra lenta lenta all’energia della volontà, che pone ad uno ad uno gli attori del dramma sotto il dominio della fatalità, unica da quel punto in poi scioglitrice del nodo: che invade la musica, trapela nei due cori del second’atto, serpeggia, ti circonda, t’avvinghia delle sue spire, in quel fatidico preludiare di violoncelli, all’io ti veggio, or piangi e tremi: si versa per ogni nota di quell’adagio ch’è un’onda di musica, s’incarna in quella movenza nuova, legata, continua, vi pone, o m’inganno, un presentimento della morte di Fernando, signoreggia dall’alto, cupa come la notte, immobile come la laguna, sull’apparire del Doge fra congiurati, e su quelle note, piene, gravi, solenni del Questo schiavo coronato; annuncia il suo trionfo vicino, in quel batter d’armi e di brandi che s’ode, e vince finalmente nell’ultimo addio di Fernando alla vita, riassumendosi tutta in quel mi bemolle su cui poggia l’intero canto, – poi l’ultimo sforzo, l’ultimo gigantesco tentativo dell’umana volontà che concentra tremendamente tutte le sue potenze alla lotta, e si slancia disperatamente nella stretta: non un’alba, non un’ora, che chiude la scena – poi ancora, e quando tutto è finito, l’aria cantata da Elena, l’addio di Bertucci a’ suoi figli, quel conato eloquente Siamo vili e fummo prodi, che dovrebbe far arrossire chi l’ode: il duetto finale tra la Grisi e Lablache, – sono tutti più o meno – o travedo – indizi potenti d’un genio che non s’è svolto tutto finora, che intravvede voglioso un nuovo mondo musicale, che vorrebbe bene pur correrlo, che forse inceppato, strozzato dalle mille cagioni ch’ostano in oggi al genio valente, nol correrà; ma che a ogni modo s’è rivelato in preludii, da’ quali la generazione ventura trarrà, credo, argomento di dire: Quegli era potente a conquistarlo, se avesse voluto davvero”.
è il concerto di palermo! bei ricrodi.. oddio… belli belli no. Abbiamo fatto ‘na figuraccia con lo sciopero!
Per quanto riguarda la recensione mi stupisce quanto detto di Grassi. Ogni volta che l’ho sentito mi è sembrato un ottimo baritono.
Spero allora si trattasse di giornata infelice (anche se talune mende sembravano esservi già “nel manico”, in termini di scelte esecutive e idee interpretative), poichè la assicuro, caro Musicofilo, che dalla prima cavatina all’atto I sino al nobile addio ai figli nell’atto III, Grassi ha mostrato un a voce in perenne lotta con l’intonazione, con la tenuta e con il fraseggio. Un canto malfermo e sbandato che ha inficiato la bellezza della parte. Davvero un peccato poichè ad esse sono affidati i momenti musicalmente più affascinanti. In quali altri ruoli ha ascoltato Grassi?
Nella Lakmé a palermo anni or sono e ne Les pecheurs des perles di venezia (dvd dynamic).