A Verdi la Sass non piacque nè come cantante, definita “soprano belga”, ossia uno di quei soprani, che gridavano in zona acuta, (era, in effetti, un cosiddetto Falcon) né come interprete, asserendo che aveva fatto di Elisabetta una corista.
La prima esecutrice italiana (Bologna 1867) di Elisabetta fu Teresa Stolz. A Verdi piaceva molto la cantante ancor più la donna.
Don Carlo, nel raffronto con le altre opere di Verdi ebbe limitata circolazione almeno sino agli anni ‘50 del secolo passato. Pagava lo scotto di essere nato quale Grand-Opéra con le annesse difficoltà e vocali e direttoriali e di allestimento e il fatto che nel confronto con le altre opere del tardo Verdi, pensate per palcoscenici differenti da quello parigino, non offrisse ai protagonisti, tenore e soprano in primis, occasioni assolute per primeggiare.
Esemplare proprio il caso di Elisabetta di Valois, cantata da molti dei maggiori soprani drammatici in carriera sino agli anni ’50, senza, però, che nessuna passasse alla storia del canto e dell’interpretazione di questo personaggio. E magari si trattava di Aide, Amelie e Leonore di Calatrava di levatura storica.
La verità è che il limite, che Verdi imputava alla prima interprete è limite del personaggio stesso. Sia in Verdi che in Schiller, tanto per alleggerire le colpe del musicista. Piegata alla ragione di Stato nel primo atto (quello di Fontainbleu, ossia quello che non sentiremo in Scala), dopo una fittizia prospettiva di felicità, moglie infelice ed insoddisfatta, ma sempre regina e, quindi, prona alla ragione di Stato nel secondo, pure straniera ed esule nel quarto, oltre che oltraggiata nei diritti coniugali, soffocata dall’onda dei ricordi al quinto, come ogni sovrano più autentico schiavo di rango ed etichetta i veri sentimenti di Elisabetta escono allo scoperto ben di rado, grazie a qualche frasetta marginale. Nel secondo atto al “non piangere mia compagnia” con il “cela l’oltraggio indegno” che è un chiaro avvertimento al marito, al quarto, durante lo scontro con Filippo quando assume di essere moglie solo per dovere ed al quinto nel monologo davanti la tomba del suocero. Il monologo di Elisabetta che apre il quinto atto è il parallelo di quello di Filippo, che principia il quarto.
Verdi e Schiller sono chiari al sovrano non è dato esternare i suoi sentimenti, salvo che non sia solo e parli fra sé.
In questa regale uniformità sta Elisabetta ed è facile comprendere perché abbia attratto, sempre sino al 1950, ben poche cantanti in sede discografica. Anzi le sole Giannina Russ, protagonista nel 1913 in Scala ed al Costanzi e Selma Kurz in una edizione ridotta e concentrata sulle peculiarità della diva, che vale, forse, la pena di essere ascoltata. Né Gina Cigna, né Bianca Scacciati, né Rosa Ponselle, né Rosa Raisa sentirono il bisogno o ebbero l’opportunità d incidere alcun brano del personaggio, che pure avevano portato in scena.
Di Maria Reining la registrazione , interessantissima, è un live dalla Staatoper di Vienna.
Nel dopoguerra il personaggio venne affidato alle più importanti primedonne in carriera. Alcune fecero della Valois un cosiddetto cavallo di battaglia, basta pensare alla Caballè o alla Freni.
Credo, però, che inversamente proporzionale all’interesse diffuso per questo personaggio ne sia avvenuto lo snaturamento. Almeno vocale e non solo.
Mi spiego.
Spartito alla mano Verdi, che pure fece mostra di poca stima verso Marie Sass di fatto fotografa benissimo le caratteristiche di quel genere di soprano. Elisabetta non supera mai il si nat (anche Leonora di Calatrava lì si ferma) ma a partire lo emette occasionalmente ossia nel finale dell’opera (versione italiana) e le note dopo il la sono tutte e solo toccate, si attesta su una tessitura che talvolta è addirittura più bassa di quella di Amneris.
A parte un paio di frasi non proprio centrali (alludo nell’aria del primo/secondo atto a quelle “ritorna al suo natio” dove Elisabetta deve fraseggiare sulla zona re4 fa 4 alla frase, ma si tratta di tre battute per il resto in quella scena la scrittura è centralissima, anzi compaiono attacchi scomodissimi sul do grave. Elisabetta è chiamata a cantare su di una tessitura più sopranile nel quartetto del IV atto, allorchè rinviene, mentre in quella sede è Eboli ad essere impegnata su una tessitura grave; l’esatto opposto di quanto avvenga al secondo atto, nel terzetto con Posa e sempre Eboli, dove è la Valois a cantare più in basso dell’altra primadonna. Come pure centralissimo per la scrittura il duetto con don Carlos al secondo atto (primo nella versione in quattro) e quando Elisabetta insorge contro il figlio la frase “va corri“ la scrittura è marcatamente centrale, salvo un si bem tenuto (“menare la madre”).
Per capire la differenza di scrittura vocale con le altre primedonne del tardo Verdi basta esaminare quel che Verdi chieda alla invasata e furente Leonora di Vargas con il Padre Guardiano, che le promette un confortevole chiostro, o Aida sia con Amneris al secondo atto che con Amonasro e con Radames all’atto del Nilo. Ma anche certe frasi di sapore elegiaco e dolente in zona alta il “lieta poss’ioprecederti” del finale IV , sempre di Forza o il “vedi per noi s’appressa un angel” della morte di Aida non trovano il parallelo nella scrittura di Elisabetta.
Un personaggio, quindi, di contenuta spinta drammatica chiamata ad un canto elegante, nobile regale e distaccato ed in una tessitura mista, tipica, appunto del soprano Falcon. Scorrendo lo spartito le indicazioni sono costanti “largo”, “grandioso”, “commosso”, “dolce” a rinvigorire l’aura del personaggio.
Tanto per esemplificare: nella grande aria del quinto atto, ove la Valois deve fronteggiare un organico orchestrale che prevede oltre agli archi, oboe, clarinetto, trombe, tromboni, fagotti e, persino, l’oficleide (quello che nel Profeta accompagna gli Anabattisti) Verdi prescrive sull’attacco “larga la frase” seguito da una messa di voce su “ s’ancor si piange in cielo”, che deve anche essere molto dolce, sul “trono del Signor” Verdi scrive “marcato” e prevede “grandioso” per il “pianto mio”, ancora una messa di voce “monstre” compare su “ i ruscelli, i fonti, i boschi, i fior” e nella frase successiva con sotto un pesante organico orchestrale la Valois deve o dovrebbe rispettare la prescrizione “ a piacere” sul re grave della “pace dell’avel”.
Certo per lo slancio drammatico, inteso nel senso del fuoco verdiano, limitatissimo la Valois piace a soprani di limitato slancio drammatico e, quindi, da cinquant’anni a questa parte si ritiene (a torto!) che servano le altisonanti voce dei soprano cosiddetti di forza. Può bastare un soprano lirico, quelle alle quali Aida, Ballo e Forza sono (o sarebbero) interdette, tanto si può pensare il personaggio è essenzialmente dolente, sognante e sottomesso.
E quindi le Valois della Caballe e della Freni ( e poi della Scotto e della Ricciarelli sino alla Cotrubas, alla Dessy) fanno di la parente ricca, regale ed ispanica di Mimì o di Manon.
Le prescrizioni di “dolce”, i piani ed i pianissimi o le messe di voce, che occupano quattro o cinque battute, con sotto orchestrali poderosi convengono a voci di ampiezza ben maggiore di un normale soprano lirico e dobbiamo accettare che il pianissimo di un soprano cosiddetto di forza non può essere di un soprano lirico. In difetto assisteremmo ad un progressivo ed antistorico uniformarsi.
Quando, anni fa precisamente il 7 dicembre 1977, qualcuno al termine degli applausi riservati alla Freni Valois in Scala qualcuno gridò” bravina” aveva colpito nel segno. E non me ne voglia un nostro affezionatissimo lettore fans del soprano modenese.
Come non me ne voglia il più ardente adoratore del soprano catalano se ritengo la Caballè bravissima, ma non Elisabetta di Valois. A tacere del rapporto libertario della nostra con le indicazioni di spartito. Tanto per fare le solita osservazione circa il rispetto delle indicazioni la nostra Monteserrat arrivata, nella grande aria del V atto, al “Francia” rispetta l’indicazione di corona, ma la applica al comodissimo fa4 di “Fra” e non allo scomodo, per lei, fa 3 grave di “cia”, che batte in una zona poco propizia alla voce di soprani angelicati o assoluti cui appartengono sia la Freni che la Caballè, ma non quelli che dovrebbero cantare la Valois.
L’effetto è splendido chi lo nega, ma non è quello previsto da Verdi.
Ad una ascoltatore attento non sfugge che sia pur brava la Freni che la bravissima la Caballè (quella proposta di Barcellona 1971 e non quella che arronzava nelle Arene francesi a metà anni ‘80) non dispongono né dell’ampiezza e né della sonorità della prima ottava che la parte chiede.
All’apostrofe del primo duetto “va corri…” la Freni suona opaca e per nulla tragica o drammatica e lo stesso accade alla Caballè. L’esigenza di Elisabetta, che invita a parricidio ed incesto il figlio riesce completa nella sua valenza espressiva a Ghena Dimitrova, che pure non era un modello preclaro di tecnica di canto. Ma in quella zona della voce una Dimitrova ha altra ampiezza ed altra risonanza soprattutto idonea a sostenere il considerevole peso orchestrale.
Ancora nella prima grande aria “Non pianger mia compagna” di Elisabetta una Caballè strepitosa per ampiezza di fiato e legature (alcune di sua invenzione per compensare quelle previste, ma omesse) mostra che la voce sul primo passaggio non è saldissima e sicura e la romanza batte quella zone che nel prosieguo di carriera saranno le disastrate della Caballè.
Ancora nel primo duetto Maria Pedrini, che pure non è mai stata diva come Mirella Freni e nonostante l’ascolto fortunoso, è ben più sicura e non denota il limite della prima ottava da soprano lirico della Freni. Sentire anche che accade con i si naturale acuto chiusa del duetto sulla frase “oh ciel, oh ciel”,e con i successivi do gravi: è la sontuosa rappresentazione vocale della Regina. Le cose, ovvio peggiorano se, anziché la Freni, si prendesse a metro di paragone qualche più recente Elisabetta come Barbara Frittoli.
Due sono, oltre a Maria Pedrini, le Elisabetta di Valois che rispondono alle esigenze di regalità e di scrittura vocale del personaggio mi riferisco a Martina Arroyo ed a Maria Reining. Nel duetto con don Carlos, o meglio in quel che rimane (a fianco di un don Carlos che sembra provenire direttamente dall’800) dei due incontri fra gli sfortunati amanti la Reining padroneggia la scrittura centro grave con dolcezza e legato assoluti e conferisce al personaggio la nobiltà, che spetta alla Regina, in perfetto equilibrio fra esigenze vocali ed esigenze interpretative. La stessa osservazione vale per la Arroyo nella grande scena del quinto atto a San Giusto. E’ vero che da sempre e con ragione la Arroyo è stata ritenuta gelida, ma alle prese con personaggio statuario e tutto sommato compiuto ed espresso nel canto soprattutto in una zona propizia alla voce del soprano statunitense la raffigurazione è quanto mai aderente al pensiero di Verdi.
E forse sia Ilva Ligabue che Sena Jurinac che a rigore non furono soprani drammatici, ma lirici spinti di grande ricchezza in tutta la gamma vocale sono state aderenti al personaggio soprattutto sotto il profilo vocale. E’ interessante rilevare come entrambi i soprani rispettino le prescrizioni di Verdi nella frase, fra l’altro una delle più sopranili della parte “io sono straniera”, esibendo, però, una voce che non ha nulla del soprano lirico, che successive e celebrate, a ragione, Elisabette hanno sfoggiato.
Non escludo che si possa anche darne una raffigurazione credibile con un mezzo vocale che per natura non è quello richiesto dallo spartito, ma in questo caso si deve avere il superiore acume interpretativo di Leyla Gencer (che, per altro, assicuro nel 1970 in Scala non pativa il confronto con voci come quella di Talvela e di Bianca Berini), di Raina Kabaiwanska e di Renata Scotto, che, nonostante la prima ottava un poco vuota e i ballonzolamenti in quella superiore, si pone come paradigma della vittima sacrificata sull’ara della Ragion di Stato. Ma, ripeto, siamo dinnanzi forse alle tre più complete e fantasiose fraseggiatrici degli ultimi decenni. E quando non ci sono le soluzioni geniali delle geniali signore che ci rimane di Elisabetta? Mimì e Manon all’Escorial, e oggi la teoria delle grisette all’Escorial è lunghissima. In attesa, magari, di qualche Santuzza.
Gli ascolti
Verdi – Don Carlos
Atto I
Il suon del corno…Di qual amor…L’ora fatale è suonata – Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Mirella Freni & José Carreras (1977)
Atto II
Io vengo a domandar grazia – Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Anita Cerquetti & Angelo Lo Forese (1956), Renata Scotto & Giuseppe Giacomini (1979)
Non pianger mia compagna – Montserrat Caballè (1971), Ghena Dimitrova (1978)
Atto IV
Giustizia, Sire!…Ah! Sii maledetto – Sena Jurinac, Boris Christoff, Ettore Bastianini & Regina Resnik (1960), Ilva Ligabue, Jerome Hines, Louis Quilico & Giulietta Simionato (1964), Katia Ricciarelli, Nicolai Ghiaurov, Piero Cappuccilli & Fiorenza Cossotto (1973)
Atto V
Tu che le vanità – Martina Arroyo (1965), Montserrat Caballè (1971), Mirella Freni (1975)
E’ dessa…Sì, l’eroismo è questo…Ma lassù ci vedremo – Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Leyla Gencer & Richard Tucker (1964), Raina Kabaivanska & Franco Corelli (1966), Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci (1978)
Salve,
i miei complimenti a Donzelli per il bellissimo e dettagliato articolo, ma dirò subito che non sono d’accordo sulla definizione di Falcon per un ruolo come quello di Elisabetta. Il tardo ottocento e il verismo ci hanno abituati allo schema : soprano-protagonista e mezzosoprano-antagonista, del tipo Aida-Amneris, Lecouvreur-Bouillon e a causa di questa tradizione si sono trasformati in mezzosoprani le rivali in amore di Stuarda, Norma e Bolena allorchè Adalgisa, Seymour e Elisabetta sono ruoli da soprano. All’epoca il mezzosoprano non esisteva ma c’era la prima donna assoluta (Anna Bolena), la seconda donna (Seymour) e il contralto musico (Smeton). Questo per dire che oggi non si è più abituati, men che meno in un opera di Verdi, a concepire ed affidare il ruolo della protagonista ad un mezzosoprano, soprattutto quando già ce ne è uno cioè Eboli che per di più è rivale. Questo ci ha portato a snaturare il ruolo di Elisabetta affidandolo a soprani allorchè in base alla tessitura è un ruolo da mezzosoprano, ma un mezzosoprano non è assolutamente un ruolo Falcon. Elisabetta non oltrepassa il si acuto allorchè Cornélie Falcon, dotata di estensione abnorme aveva un registro grave esteso ed arrivava in acuto sino al re sopracuto. Passata alla storia come creatrice del ruolo di Rachel che prevede tale nota, creatrice anche del ruolo di Valentina negli Ugonotti che prevede 4 (5?) do. Vero è che sono do non obbligatori ma penso (questa è una idea personalissima) che Meyerbeer ha scritto il ruolo per Cornélie Falcon, ma si è anche preoccupato, il che mi pare logico, del fatto che l’opera potesse restare in repertorio e diffondersi al di là della Falcon e senza di essa, in futuro. Quindi ha scritto i do per la Falcon con la possbilità, per le altre interpreti presenti e future, di non eseguirli. Tutto questo per dire che Elisabetta non è un ruolo da Falcon ma da semplice mezzosoprano. Sarebbe stato un ruolo per voci tipo Bumbry o Stignani, anche la giovane Cossotto.
Per quanto riguarda la Caballé e la Freni permettetemi una chiosa : quando ho ascoltato la Freni in Elisabetta ho avuto la sensazione che il soprano che era stato scritturato per cantare Elisabetta non si era presentato ed era così stato sostituito dal soprano che era previsto per cantare il ruolo di Tebaldo. A me la Freni fa proprio pensare a Tebaldo travestito da Elisabetta. Ci sono tipologie vocali che per timbro e colore si addicono di più a certi personaggi e meno ad altri. Per me la Freni ha un colore vocale da Tebaldo e non da Elisabetta. Così come aveva un timbro da Susanna ma non per fare la Contessa Almaviva. Perchè manca di regalità : il trono non si addice alla Freni. E poi la Freni aveva quell’ abitudine di cantare tutto sul forte, avara di sfumature, quando aveva però a che fare con direttori come Karajan e Muti si piegava di più alle sfumature, ma restano comunque variazioni dinamiche, non ha mai sfoggiato una vera e autentica mezzavoce sostenuta. Il discorso sulla cantante catalana è diverso : la Caballé aveva un timbro più regale e nobile, adatto per Elisabetta, ma il registro grave è sempre stato il suo tallone d’Achille, fin dall’inizio, quindi in un ruolo come quello di Elisabetta (da mezzosoprano) gioca di rimessa e si concede varianti in acuto, e mostra la corda proprio in quei punti dove tutto si esprime in zona grave. La Caballé è una Elisabetta più credibile della Freni-Tebaldo, ma rimane comunque una mistificazione, mistificazione di lusso ma mistificazione in ogni caso.
Semolino!!!!!!
La Freni Tebaldo farà svenire Orbazzano…….la sua ira terribile piomberà su di noi!!!!
io scappo di corsa……..
caro semolino
sul fatto che elisabetta sia un mezzosoprano non sono d’accordo.
D’accordissimo sulla disamina che fai del mezzo soprano sinonimo di antagonista e sul fatto che molte antagoniste (in realtà amorose vedi Adalgisa e la Seympur o Agnese del Maino) siano soprani.
Però se guardo la scrittura vocale di Amneris e quella di Elisabetta posso dire la tessitura non cambia o cambia molto poco, ma spesso Amneris scende a note si bem sotto il rigo e forse anche qualche la (scrivo senza avere lo spartito davanti) che la Valois non emette.
Tanto è che una validissima Valois come Ghena Dimitrova nei panni di Amneris mostrava l’estraneità vocale al personaggio.
ciao a rileggerti prestissimo
dd
Caro Donzelli, ti do atto che il ruolo d Elisabetta non è abbastanza grave da essere considerato ruolo di mezzosoprano come Amneris o Azucena. Ma si tratta comunque di un ruolo che esige una ampiezza nel centro e una saldezza nel registro grave (che nella Freni è inesistente e nella Caballé troppo fragile) che il ruolo può convenire benissimo a un mezzosoprano, tant’è che il ruolo non è acuto da mettere in difficoltà. Sostengo che certi mezzosoprani avrebbero potuto rendere giustizia al ruolo molto di più di tanti soprani che lo hanno affrontato. Diciamo che è un ruolo che può convenire ad un soprano “corto” con un buon grave. Quello che in realtà contesto è quanto tu affermi all’inizio del tuo articolo : -La prima interprete di Elisabetta di Valois fu Marie Sass, la stessa cantante che nel 1865 aveva interpretato, sempre all’Opera di Parigi, Selika nella prima esecuzione di Africana.
A Verdi la Sass non piacque nè come cantante, definita “soprano belga”, ossia uno di quei soprani, che gridavano in zona acuta, (era, in effetti, un cosiddetto Falcon-.
Innanzi tutto Meyerbeer scriveva i ruoli su misura, e di do alla Sass nell’Africana gliene mise e mi pare più di uno. Se poi Verdi ha scritto un ruolo da soprano che non oltrepassa il si, questo è perchè a lui andava bene così, e se poi definì la Sass soprano belga e a lui non è piaciuta, molto probabilmente è perchè la Sass non piaceva a Verdi per motivi che colla vocalità c’entrano poco. A lui piacevano le Stoltz.
Ma non si può definire un ruolo di soprano “corto” un ruolo Falcon, perchè la Falcon aveva una estensione abnorme, era mezzosoprano e soprano allo stesso tempo. Halévy scrisse il ruolo di Rachel della Juive appositamente per lei dopo essere stato folgorato dalla sua voce ascoltandola alla creazione degli Ugonotti nel ruolo di Valentina. Halévy conosceva la partitura degli Ugonotti, se la Falcon non avesse fatto con estrema facilità quei do, mai l’avrebbe messa in difficoltà con il re sopracuto che il ruolo di Rachel prevede. Nella categoria falcon possono essere messe solo quelle cantati che possono cantare colla stessa facilità ruoli da mezzo e ruoli da soprano o i ruoli della Falcon senza venire a patti collo spartito originale. Si potrebbe definire una voce Falcon la Bumbry, che non è stata un soprano belga che gridava. Almeno a me pare.
caro semolino
tutti d’acordissimo su Grace Bumbry.
lo stesso su cantanti come Ebe Stignani, il cui do faceva parte della mitologia lirica quando la signora lo esibiva, andando indietro penso alla Matzenauer alla Onegin (bellissimo quello che scrive di Lei Rudolf Bing) e alla Brandt.
Quando guardo la parte di Rachele, più che Valentina penso che un mezzo soprano anche estesissimo tipo quelli nominati prima ( la Brandt la cantò spessissimo) non sia a proprio agio e me lo fece presente anni or sono un mezzo soprano molto soprano e poco mezzo, almeno in natura.
Quanto ai do di Selika rilevo che sono scritti in modo assolutamente belcantista (e di questo tipo è l’esecuzione della Matzenauer) e poi la parte di Selika fu scritta a strati partendo dal 1838 e per il ruolo Meyerbeer penso a molte ipotetiche protagoniste (Viardot compresa)
ciao a presto
dd
ps pero il “tu che le vanità” della Stignani o di sopran molto dotate al centro come la Arangi Lombardi lo sentirei proprio volentieri
Caro Donzelli, se intendi dire che i mezzosoprani, anche quelli dotati in acuto, avrebbero problemi con il ruolo di Rachel, questo lo capisco, poiché Rachel arriva al re sopracuto. Ma va sottolineato che anche i soprani, in generale, penano in basso, perchè la parte è anche molto grave, ed è per questo che io sostengo che i Falcon sono le voci come la Bumbry, che hanno una estensione che comprende il mezzo e il soprano. Se non vado errato la Bumbry il re sopracuto lo possedeva. Il soprano che non oltrepassa il si, quello belga, non è falcon ma soprano corto.
Per ritornare in argomento e al ruolo di Elisabetta riflettendo, ma mi sarebbe dovuto venire in mente prima, un vero soprano belga a cui il ruolo di Elisabetta andava a pennello era la Tebaldi. La Tebaldi era salda e piena nel registro grave, almeno nel registro grave come il ruolo di Elisabetta lo esige. Aveva un centro sfarzoso e una cavata molto ampia ed arrivava con relativa facilità sino al si, ma dopo il si gridava. I do non li ha mai avuti belli, forse nei primissimi anni di carriera sino al 1951 ma poi diventa molto belga.Io conosco la Elisabetta della Tebaldi solo tramite l’incisione Decca e purtroppo la Tebaldi incise il ruolo veramente troppo tardi.