Con la produzione di Marin Faliero a Bergamo si sono conclusi i festival operistici dell’anno 2008.
Il festival è un tipico prodotto estivo che, al più, si protrae sino all’inizio d’autunno in attesa che, poi, partano le stagioni operistiche invernali, quelle che un tempo si definivano di Carnevale e Quaresima, con canonica inaugurazione la sera di Santo Stefano.
I festival, che oggi dilagano in Italia, dovrebbero esistere e avere diritto ai lauti fondi che lo Stato, ossia i contribuenti, che versano regolarmente le imposte, profonde, solo ove fossero rispettati due elementi, ovvero che il festival rappresenti una qualche utilità culturale e che il prodotto offerto sia di qualità congruente l’autore e la proposta.
In difetto il festival non ha nessun senso o, peggio ancora, ne assume altro e differente che nulla ha che spartire con la cultura.
Con questi principi che ritengo ferrei mi domando il senso di festival dedicati ad autori la cui produzione non ha o abbia conosciuto mai oblio e polvere del tempo. Non ha alcun senso, quindi, proporre un festival dedicato a Giuseppe Verdi, i cui titoli, anche quelli degli anni cosiddetti di galera, conoscono rappresentazione abbastanza regolare da almeno mezzo secolo. Consultare le cronologie di teatri e festival sparsi nel mondo per verificare l’assunto. E, poi, qualcuno che non ho ragioni particolari di smentire potrebbe anche ritenere che il motivo dell’oblio è piuttosto giustificato. Era l’opinione dello stesso Verdi il quale , se non erro nel 1864, dinanzi ad una ripresa scaligera di Giovanna d’Arco dichiarò che certi titoli “andrebbero lasciati stare”. Erano anni in cui, sia detto, per inciso, Ernani o Lombardi conoscevano ancora un certo numero di rappresentazioni e Verdi rimetteva mano a Macbeth.
Mi domando se possa avere senso proporre del maestro di Busseto alcune prime edizioni poi riviste e rivisitate e con ragione aggiungo (se penso ad esempio al finale del primo atto del Boccanegra, una paesana festa, che meraviglia se si pensa che Verdi aveva già composto splendide scene di festa come in Traviata e Vespri) dal Maestro stesso. Certo che una bella edizione di Aida nella versione del Cairo risparmierebbe a molti soprani, la prescelta scaligera della recente inaugurazione ad esempio, la via dolorosa dei cieli azzurri.
Avrebbe sicuramente senso , visto che siamo in clima un bel Don Carlos ove con il titolo alla francese si preveda anche la versione originale munita degli imprescindibili balli. Era e rimane un grand-opéra, che da sempre vediamo in versione mignon. Da qualche tempo anche vocale.
Poi certo sorge il problema della pratica realizzazione. Mai come oggi la voce e l’accento verdiani sono stati latitanti ed anche gli auspici,di un ventennio or sono circa un Verdi in francese alla francese, soprattutto, stenterebbero a trovare adeguata realizzazione. Perché sia chiaro: un festival non può solo proporre, che è la prima parte del teorema, ma deve anche allestire in maniera consona.
Questa seconda declinazione irrinunciabile porta a riflessioni non certo encomiastiche, anzi, su tutti gli altri festival. E non solo italiani.
Per esempio proporre tre titoli come Favorita, Marin Faliero e Puritani a Bergamo difficilmente può dar luogo ad una esecuzione acconcia. Furono scritte per fuoriclasse (anche se qualcuno, se di quei fenomeni esistessero incisioni, sosterebbe che Anna Netrebko o Rolando Villazón siano superiori per tecnica a Giulia Grisi e a Giovan Battista Rubini) e richiedono fuoriclasse in ogni riproposizione. A Bergamo abbiamo sentito e per giunta in un contesto penalizzante, una sola voce ed interprete all’altezza del compito per cui era scritturata. Il resto da dimenticare o da impiegare in opere ben più facili del maestro bergamasco, autore di tante deliziose farse o operine come la Rita o la Francesca di Foix. E le considerazioni non migliorano prendendo in considerazione i direttori d’orchestra, atteso che il solo Marco Zambelli, officiato di Favorita, ha dimostrato di “sapere il fatto suo”.
Il passo più lungo della gamba, magari sulla scorta di un’idea in astratto valida, non è un buon servizio all’autore, anzi il contrario.
All’uscita di Favorita un giovane melomane, molto presente e molto attento, lamentava la noia del titolo. Mi domando che cosa avrebbe detto ( o con che cosa avrebbe armato il braccio, per usare un linguaggio operistico) se avesse avuto una cognizione delle pagine più famose del titolo nelle esecuzioni più note. Che so lo “spirto gentil” di Kraus o Pavarotti, le arie di Alfonso di Tagliabue. Mica richiamo Battistini o Bonci. Lasciamoli dove stanno anche se sono scomodissimi perché ci richiamano un gusto, prima ancora che una modalità vocale, assolutamente inattaccabile per quei titoli, in difetto della quale Fernando si trasforma in Turiddu ed Alfonso XI in Tonio, lo scemo.
Insomma esecuzioni raffazzonate non solo non servono l’autore, ma talvolta allontanano i ben intenzionati, gli interessati, i curiosi.
Il problema dell’esecuzione è imprescindibile quando l’autore è autore di Belcanto, ossia quando si parla del festival più famoso e blasonato di Italia, ossia il ROF.
Devo dire, paradossalmente, che i tagli del FUS che hanno scorciato e non di poco l’edizione prossima ventura sono benefici e salutari per l’autore. L’autore è il paradigma di musica scritta per determinati cantanti, scomparsa o quasi con il ritiro dalle scene dei primi esecutori o di alcuni, ricomparsa quando, per una strana congettura, si sono ripresentati sul palcoscenico cantanti in grado di affrontare le difficoltà previste dall’autore (oltre a quelle che si cercavano da soli) ed il gusto vigente ha provato interesse per una musica tutta ideale ed astratta.
Ma anche quando erano in carriera quei cantanti (due delle quali con autentico mio stupore hanno scatenato una autentica, interessantissima polemica in un precedente post) mai si pensò di poter allestire nella stessa stagione due titoli napoletani, che prevedessero due soprani Colbran, due contralti e ben tre tenori protagonisti.
Si può addomesticare il pubblico, ricorrere alla damnatio memoriae dei cantanti del recente (glorioso!) passato, instillare il dubbio che quella precedente generazione non fosse autenticamente rossiniana, si può fare ricorso ai media, all’ansia ed ai pettegolezzi da retropalco, ma alla fine si manderà in scena una esecuzione dal carente tasso rossiniano, si instillerà nel pubblico neofita l’idea di un autore noioso e inutilmente difficile; insomma non si servirà alcuna causa culturalmente valida, si potrà, nella migliore delle ipotesi, far cassetta per qualche anno, propiziare la carriera di qualche protégé, ma alla fine il corso e ricorso storico avrà la meglio e scenderà, immeritato ma giustificato, l’oblio sui vari Assedio, Maometto, Semiramide.
È solo una questione di scelte: una, quella fatta e perseguita per il presente o al più per l’immediato futuro; l’altra , più difficile più costosa e meno immediatamente remunerativa per il lungo termine. Anche i festival sono un’azienda in fondo!!!
Il festival è un tipico prodotto estivo che, al più, si protrae sino all’inizio d’autunno in attesa che, poi, partano le stagioni operistiche invernali, quelle che un tempo si definivano di Carnevale e Quaresima, con canonica inaugurazione la sera di Santo Stefano.
I festival, che oggi dilagano in Italia, dovrebbero esistere e avere diritto ai lauti fondi che lo Stato, ossia i contribuenti, che versano regolarmente le imposte, profonde, solo ove fossero rispettati due elementi, ovvero che il festival rappresenti una qualche utilità culturale e che il prodotto offerto sia di qualità congruente l’autore e la proposta.
In difetto il festival non ha nessun senso o, peggio ancora, ne assume altro e differente che nulla ha che spartire con la cultura.
Con questi principi che ritengo ferrei mi domando il senso di festival dedicati ad autori la cui produzione non ha o abbia conosciuto mai oblio e polvere del tempo. Non ha alcun senso, quindi, proporre un festival dedicato a Giuseppe Verdi, i cui titoli, anche quelli degli anni cosiddetti di galera, conoscono rappresentazione abbastanza regolare da almeno mezzo secolo. Consultare le cronologie di teatri e festival sparsi nel mondo per verificare l’assunto. E, poi, qualcuno che non ho ragioni particolari di smentire potrebbe anche ritenere che il motivo dell’oblio è piuttosto giustificato. Era l’opinione dello stesso Verdi il quale , se non erro nel 1864, dinanzi ad una ripresa scaligera di Giovanna d’Arco dichiarò che certi titoli “andrebbero lasciati stare”. Erano anni in cui, sia detto, per inciso, Ernani o Lombardi conoscevano ancora un certo numero di rappresentazioni e Verdi rimetteva mano a Macbeth.
Mi domando se possa avere senso proporre del maestro di Busseto alcune prime edizioni poi riviste e rivisitate e con ragione aggiungo (se penso ad esempio al finale del primo atto del Boccanegra, una paesana festa, che meraviglia se si pensa che Verdi aveva già composto splendide scene di festa come in Traviata e Vespri) dal Maestro stesso. Certo che una bella edizione di Aida nella versione del Cairo risparmierebbe a molti soprani, la prescelta scaligera della recente inaugurazione ad esempio, la via dolorosa dei cieli azzurri.
Avrebbe sicuramente senso , visto che siamo in clima un bel Don Carlos ove con il titolo alla francese si preveda anche la versione originale munita degli imprescindibili balli. Era e rimane un grand-opéra, che da sempre vediamo in versione mignon. Da qualche tempo anche vocale.
Poi certo sorge il problema della pratica realizzazione. Mai come oggi la voce e l’accento verdiani sono stati latitanti ed anche gli auspici,di un ventennio or sono circa un Verdi in francese alla francese, soprattutto, stenterebbero a trovare adeguata realizzazione. Perché sia chiaro: un festival non può solo proporre, che è la prima parte del teorema, ma deve anche allestire in maniera consona.
Questa seconda declinazione irrinunciabile porta a riflessioni non certo encomiastiche, anzi, su tutti gli altri festival. E non solo italiani.
Per esempio proporre tre titoli come Favorita, Marin Faliero e Puritani a Bergamo difficilmente può dar luogo ad una esecuzione acconcia. Furono scritte per fuoriclasse (anche se qualcuno, se di quei fenomeni esistessero incisioni, sosterebbe che Anna Netrebko o Rolando Villazón siano superiori per tecnica a Giulia Grisi e a Giovan Battista Rubini) e richiedono fuoriclasse in ogni riproposizione. A Bergamo abbiamo sentito e per giunta in un contesto penalizzante, una sola voce ed interprete all’altezza del compito per cui era scritturata. Il resto da dimenticare o da impiegare in opere ben più facili del maestro bergamasco, autore di tante deliziose farse o operine come la Rita o la Francesca di Foix. E le considerazioni non migliorano prendendo in considerazione i direttori d’orchestra, atteso che il solo Marco Zambelli, officiato di Favorita, ha dimostrato di “sapere il fatto suo”.
Il passo più lungo della gamba, magari sulla scorta di un’idea in astratto valida, non è un buon servizio all’autore, anzi il contrario.
All’uscita di Favorita un giovane melomane, molto presente e molto attento, lamentava la noia del titolo. Mi domando che cosa avrebbe detto ( o con che cosa avrebbe armato il braccio, per usare un linguaggio operistico) se avesse avuto una cognizione delle pagine più famose del titolo nelle esecuzioni più note. Che so lo “spirto gentil” di Kraus o Pavarotti, le arie di Alfonso di Tagliabue. Mica richiamo Battistini o Bonci. Lasciamoli dove stanno anche se sono scomodissimi perché ci richiamano un gusto, prima ancora che una modalità vocale, assolutamente inattaccabile per quei titoli, in difetto della quale Fernando si trasforma in Turiddu ed Alfonso XI in Tonio, lo scemo.
Insomma esecuzioni raffazzonate non solo non servono l’autore, ma talvolta allontanano i ben intenzionati, gli interessati, i curiosi.
Il problema dell’esecuzione è imprescindibile quando l’autore è autore di Belcanto, ossia quando si parla del festival più famoso e blasonato di Italia, ossia il ROF.
Devo dire, paradossalmente, che i tagli del FUS che hanno scorciato e non di poco l’edizione prossima ventura sono benefici e salutari per l’autore. L’autore è il paradigma di musica scritta per determinati cantanti, scomparsa o quasi con il ritiro dalle scene dei primi esecutori o di alcuni, ricomparsa quando, per una strana congettura, si sono ripresentati sul palcoscenico cantanti in grado di affrontare le difficoltà previste dall’autore (oltre a quelle che si cercavano da soli) ed il gusto vigente ha provato interesse per una musica tutta ideale ed astratta.
Ma anche quando erano in carriera quei cantanti (due delle quali con autentico mio stupore hanno scatenato una autentica, interessantissima polemica in un precedente post) mai si pensò di poter allestire nella stessa stagione due titoli napoletani, che prevedessero due soprani Colbran, due contralti e ben tre tenori protagonisti.
Si può addomesticare il pubblico, ricorrere alla damnatio memoriae dei cantanti del recente (glorioso!) passato, instillare il dubbio che quella precedente generazione non fosse autenticamente rossiniana, si può fare ricorso ai media, all’ansia ed ai pettegolezzi da retropalco, ma alla fine si manderà in scena una esecuzione dal carente tasso rossiniano, si instillerà nel pubblico neofita l’idea di un autore noioso e inutilmente difficile; insomma non si servirà alcuna causa culturalmente valida, si potrà, nella migliore delle ipotesi, far cassetta per qualche anno, propiziare la carriera di qualche protégé, ma alla fine il corso e ricorso storico avrà la meglio e scenderà, immeritato ma giustificato, l’oblio sui vari Assedio, Maometto, Semiramide.
È solo una questione di scelte: una, quella fatta e perseguita per il presente o al più per l’immediato futuro; l’altra , più difficile più costosa e meno immediatamente remunerativa per il lungo termine. Anche i festival sono un’azienda in fondo!!!
Rossini: Maometto II – Sorgete: in sì bel giorno…Duce di tanti eroi – Samuel Ramey (1985)
Sono perfettamente d´accordo con voi.Come festival privo di senso aggiungerei anche Torre del Lago…Comunque mi viene in mente un vecchio articolo di Fedele D´Amico dove il grande critico paragonava giustamente il festival a un salotto,nel senso che il salotto di una casa si apre quando le altre stanze sono in funzione da un pezzo.A furia di festival,in Italia siamo ai quattro giovedí e tre domeniche,come nel paese dei balocchi di Pinocchio.