Approfittiamo della recente presentazione del cartellone dell’Opera di Roma per fare il punto della situazione sulle stagioni 2008-09, che ancora non avevamo commentato. Puntualmente i teatri italiani – non dissimili, in questo, da quelli al di fuori dell’ausonio suolo – dimostrano scarsa fantasia e ancora minore capacità di valutazione delle risorse disponibili. Un parco cantanti come quello che popola la scena lirica attuale dovrebbe indurre a elaborare cartelloni nutriti di Piccinni e Paisiello più comici che tragici, con qualche sporadica incursione in territorio mozartiano e rossiniano (e precisiamo: il Rossini delle farse). Siffatti autori brillano piuttosto per assenza.
Inoltre, i teatri paiono divertirsi a mettere in scena sempre gli stessi titoli: Bohème, Tosca e Butterfly über alles, tanto per non dimenticare che siamo in clima di ricorrenze puccianiane, ma in quanto a originalità e varietà non scherzano neppure Traviata, Aida e Rigoletto da una parte, Elisir e Lucia di Lammermoor dall’altra. Un po’ meglio va a Wagner, che vede allestite, accanto al consueto Tannhäuser, addirittura due giornate della Tetralogia. Anche nelle stagioni ante 1950, quelle che superficialmente si definiscono veriste, le proposte erano ben maggiori e più articolate. Almeno una Francesca o un’Iris non venivano salutate come una ripresa di un titolo desueto e fuori repertorio. Destino più gramo è riservato ad autori “mono-opera” come Händel (Agrippina a Venezia nel terzo centenario della prima assoluta), Bellini, Gounod e Richard Strauss, che si aggiungono agli abituali Mascagni e Leoncavallo, questi ultimi per giunta separati, ché a Venezia alla Cavalleria è unita un’opera di Janacek, mentre Pagliacci fanno spettacolo – breve – a sé, tanto a Firenze quanto a Roma. Con quale sollazzo del pubblico pagante è facile immaginare. Così come è facile indovinare a quale titolo – presto in scena anche alla Scala di Milano – compete l’onore e l’onere di rappresentare lo spumeggiante mondo dell’operetta. Come se la produzione di una forma di spettacolo al capolavoro di Lehár si potesse limitare.
In realtà protagonista dei cartelloni di Venezia e Roma è l’opera contemporanea. Venezia, più prudente, punta su Korngold e Janacek, stemperando il tutto con un pizzico di Nino Rota e associando a titoli bene o male già rodati una sola novità assoluta, “Il killer di parole” (sic!) di Claudio Ambrosini su soggetto di Daniel Pennac (scelta efficacissima: in effetti, siamo senza parole). Roma, assai audacemente, propone Le Grand Macabre di Ligeti (con un cast di pensionati o pensionandi), Pelléas et Mélisande (con Monica Bacelli: dal Belcanto in salsa baroccara alla declamazione postwagneriana), Jacob Lenz di Rihm e altre novità assolute o per lo meno europee. Tutto bene, anzi benissimo, se le opere di repertorio non fossero, in tutto questo fiorire di postavanguardia, semplicemente messe da parte: le solite ovvie, banali, fruste Tosca e Carmen a Caracalla, Aida, Pagliacci, Tannhäuser e Traviata al Costanzi, la sola Iphigénie en Aulide a spezzare la monotonia (ma temiamo molto per la presenza del controtenore Franco Fagioli in una tragédie lyrique, opera in cui il tipo del falsettista non ha ragione di esistere – a meno di non volergli affidare la parte di Clitennestra, o meglio ancora quella di Diana). Le perplessità aumentano quando pensiamo che un titolo un tempo popolarissimo e sempre di grande impatto quale Andrea Chénier trova a stento collocazione in uno soltanto dei cartelloni esaminati.
E del Maggio fiorentino che dire? Un festival nato per riproporre titoli desueti o comunque non strettamente di repertorio non sente il bisogno di allestire non dico il Dibuk o la Morte di Frine ma una “semplice” Iris o Wally. Ecco quindi il Comunale di Firenze ospitare, accanto al completamento del Ring (un Ring iniziato, giova ricordarlo, due anni fa), la prima edizione, assai belcantista, del Macbeth verdiano affidata a un cast assai più adatto alla Katia Kabanova, un’opera nuova di Matteo D’Amico, l’haendeliano Trionfo del Tempo (cast ovviamente da definire) e il Billy Budd con quel che resta di Samuel Ramey.
Quando, poi, passiamo a esaminare i cast radunati per le singole produzioni, le forze vengono meno. Siamo onesti: la centrale del consenso, i manutengoli delle agenzie hanno distrutto la reattività del pubblico e ne hanno forgiato (plagiato?) orecchie ed occhi. A rischio di essere giudicati prevenuti e incontentabili a prescindere, non possiamo non chiederci quale giovamento possa trarre da una parte centrale come Stuarda un soprano dalla voce ormai opaca e fibrosa e dai centri spesso e volentieri spampanati, e come possa un soprano corto, tendente all’ululato in alto e affogato in basso, tratteggiare un’Elisabetta altera e perfida come Storia tramanda e Donizetti prescrive. All’estremo opposto si collocano casi di tenuta ultradecennale (in assoluto e nel singolo ruolo) che testimoniano, senza tema di smentita, l’importanza di una solida base professionale, ma che rivelano, una volta di più, l’assenza di un plausibile ricambio generazionale, atteso che voci fresche, gagliarde e in alcuni casi anche ampie e belle preferiscono seguire altre e assai più perigliose vie. E a poco servono le volenterose Accademie che dovrebbero fungere da serbatoio vocale per i secondi cast (e talvolta anche per i primi). A volte accade, però, che le metaforiche nevi del crine non riescano a placare le ansie del cuore: assistiamo così a debutti tardivi, se non improbabili, che non mancheranno di suscitare l’approvazione dei fan, incondizionali per definizione ed essenza, e di quelli che “tanto non c’è niente di meglio”. Ed è a questi ultimi che dedichiamo gli ascolti che seguono.
Inoltre, i teatri paiono divertirsi a mettere in scena sempre gli stessi titoli: Bohème, Tosca e Butterfly über alles, tanto per non dimenticare che siamo in clima di ricorrenze puccianiane, ma in quanto a originalità e varietà non scherzano neppure Traviata, Aida e Rigoletto da una parte, Elisir e Lucia di Lammermoor dall’altra. Un po’ meglio va a Wagner, che vede allestite, accanto al consueto Tannhäuser, addirittura due giornate della Tetralogia. Anche nelle stagioni ante 1950, quelle che superficialmente si definiscono veriste, le proposte erano ben maggiori e più articolate. Almeno una Francesca o un’Iris non venivano salutate come una ripresa di un titolo desueto e fuori repertorio. Destino più gramo è riservato ad autori “mono-opera” come Händel (Agrippina a Venezia nel terzo centenario della prima assoluta), Bellini, Gounod e Richard Strauss, che si aggiungono agli abituali Mascagni e Leoncavallo, questi ultimi per giunta separati, ché a Venezia alla Cavalleria è unita un’opera di Janacek, mentre Pagliacci fanno spettacolo – breve – a sé, tanto a Firenze quanto a Roma. Con quale sollazzo del pubblico pagante è facile immaginare. Così come è facile indovinare a quale titolo – presto in scena anche alla Scala di Milano – compete l’onore e l’onere di rappresentare lo spumeggiante mondo dell’operetta. Come se la produzione di una forma di spettacolo al capolavoro di Lehár si potesse limitare.
In realtà protagonista dei cartelloni di Venezia e Roma è l’opera contemporanea. Venezia, più prudente, punta su Korngold e Janacek, stemperando il tutto con un pizzico di Nino Rota e associando a titoli bene o male già rodati una sola novità assoluta, “Il killer di parole” (sic!) di Claudio Ambrosini su soggetto di Daniel Pennac (scelta efficacissima: in effetti, siamo senza parole). Roma, assai audacemente, propone Le Grand Macabre di Ligeti (con un cast di pensionati o pensionandi), Pelléas et Mélisande (con Monica Bacelli: dal Belcanto in salsa baroccara alla declamazione postwagneriana), Jacob Lenz di Rihm e altre novità assolute o per lo meno europee. Tutto bene, anzi benissimo, se le opere di repertorio non fossero, in tutto questo fiorire di postavanguardia, semplicemente messe da parte: le solite ovvie, banali, fruste Tosca e Carmen a Caracalla, Aida, Pagliacci, Tannhäuser e Traviata al Costanzi, la sola Iphigénie en Aulide a spezzare la monotonia (ma temiamo molto per la presenza del controtenore Franco Fagioli in una tragédie lyrique, opera in cui il tipo del falsettista non ha ragione di esistere – a meno di non volergli affidare la parte di Clitennestra, o meglio ancora quella di Diana). Le perplessità aumentano quando pensiamo che un titolo un tempo popolarissimo e sempre di grande impatto quale Andrea Chénier trova a stento collocazione in uno soltanto dei cartelloni esaminati.
E del Maggio fiorentino che dire? Un festival nato per riproporre titoli desueti o comunque non strettamente di repertorio non sente il bisogno di allestire non dico il Dibuk o la Morte di Frine ma una “semplice” Iris o Wally. Ecco quindi il Comunale di Firenze ospitare, accanto al completamento del Ring (un Ring iniziato, giova ricordarlo, due anni fa), la prima edizione, assai belcantista, del Macbeth verdiano affidata a un cast assai più adatto alla Katia Kabanova, un’opera nuova di Matteo D’Amico, l’haendeliano Trionfo del Tempo (cast ovviamente da definire) e il Billy Budd con quel che resta di Samuel Ramey.
Quando, poi, passiamo a esaminare i cast radunati per le singole produzioni, le forze vengono meno. Siamo onesti: la centrale del consenso, i manutengoli delle agenzie hanno distrutto la reattività del pubblico e ne hanno forgiato (plagiato?) orecchie ed occhi. A rischio di essere giudicati prevenuti e incontentabili a prescindere, non possiamo non chiederci quale giovamento possa trarre da una parte centrale come Stuarda un soprano dalla voce ormai opaca e fibrosa e dai centri spesso e volentieri spampanati, e come possa un soprano corto, tendente all’ululato in alto e affogato in basso, tratteggiare un’Elisabetta altera e perfida come Storia tramanda e Donizetti prescrive. All’estremo opposto si collocano casi di tenuta ultradecennale (in assoluto e nel singolo ruolo) che testimoniano, senza tema di smentita, l’importanza di una solida base professionale, ma che rivelano, una volta di più, l’assenza di un plausibile ricambio generazionale, atteso che voci fresche, gagliarde e in alcuni casi anche ampie e belle preferiscono seguire altre e assai più perigliose vie. E a poco servono le volenterose Accademie che dovrebbero fungere da serbatoio vocale per i secondi cast (e talvolta anche per i primi). A volte accade, però, che le metaforiche nevi del crine non riescano a placare le ansie del cuore: assistiamo così a debutti tardivi, se non improbabili, che non mancheranno di suscitare l’approvazione dei fan, incondizionali per definizione ed essenza, e di quelli che “tanto non c’è niente di meglio”. Ed è a questi ultimi che dedichiamo gli ascolti che seguono.
Rossini: Il Turco in Italia
Per piacere alla signora – Enzo Dara & Luciana Serra (1987)
Bellini: I Capuleti e i Montecchi
Eccomi in lieta vesta…O quante volte – Magda Olivero (1980)
Donizetti: Maria Stuarda
Deh, l’accogli – Ángeles Gulín & Viorica Córtez (1976)
Verdi: La Traviata
Ah, fors’è lui – Maria Caniglia (1939)
Sempre libera – Mafalda Favero (con Beniamino Gigli) (1940)
Gounod: Roméo et Juliette
Ah, lève-toi, soleil – Jussi Björling (1940)
Bizet: Carmen
La fleur que tu m’avais jetée – Ferruccio Tagliavini (1954)