Spettacolo deputato a salvare il bilancio di un Festival Verdi in affanno, questo Rigoletto era fondato, come sempre, sulle esperte e popolari spalle del settantenne Leo Nucci, protettore, trascinatore e dispensatore di bis seriali, mentre il resto delle prime parti, in mano alle nuove leve, consisteva in un famoso soprano di modeste qualità tecniche e in una voce maschile idonea alla musica folk. E’ bastato il blasone del Grande Vecchio protagonista, opportunamente collocato nell’antica produzione di Samaritani, lussuosa e tradizionalissima, ad infiammare il teatro di Parma alla fine della serata, trasformando in un assoluto successo un ripresa davvero mediocre dal punto di vista musicale. Ma mediocre molto!
Per Leo Nucci il discorso è identico a quello fatto per Bruson. Con l’aggravante ( per il teatro odierno ) che l’inossidabile Leo continua ad assumere su di sé ruoli protagonistici. Bruson scippa furbescamente la serata ai giovani, colpevoli perché incapaci di sopravanzarlo artisticamente; Nucci, invece, la serata la regge proprio da solo, prendendo i giovani per mano e mettendoli entrambi, Duca e Gilda, sotto il mantello del buffone dopo il prevedibile bis della Vendetta, e dirigendo il favore del pubblico verso gli…. apprendisti cantanti. E l’ovazione dei “tarallucci e vino” si è trasferita irragionevolmente ieri sera sui due che proprio non la meritavano, né per canto né per carriera. L’uomo di teatro è così, sa come si fa a stare sulla scena, come si reagisce al clima della sala, come si governa il pubblico: ieri Nucci ha dispiegato la sua arte vera, meramente extravocale, portando il pubblico dove si voleva, ad applaudire tutto e tutti. Il suo cachet comprende anche in questo: cantare senza più la voce e garantire il successo, facendo il Patriarca della serata. Bravo Leo!…bis!
L’analisi del suo Rigoletto è quasi inutile, perché tutti almeno una volta lo hanno sentito. Gli acuti ormai sono pura risonanza di maschera ma priva di timbro. Il centro è duro e legnoso, con un legato non di prima qualità e che lo penalizza nel lato patetico del personaggio ( penso alla sezione “miei signori, perdono pietade” del Cortigiani vil razza..o al duetto con Gilda, dove la voce proprio non girava…); stupendo quasi più oggi che in giovinezza il Pari siamo, dove la senescenza vocale adesso scompare sotto la forza del fraseggio, dove ogni parola, una dopo l’altra, sono scandite con accento e colore diverso, come accade agli artisti maturi e consumati; terribilmente berciato ( come in passato.. ) il canto di slancio concitato, dai Cortigiani vil razza dannata al Si vendetta tremenda vendetta, che il loggione di Parma, che per tradizione atavica ama sintéir sbraièr, ha ovviamente chiesto di bissare. Il personaggio è scenicamente efficace, bello, stra-iper-rodato….quindi? che si pretende di più da questo signore?? Bravo, bis….un bis richiesto anche al Cortigiani a dire il vero, ma che ha suscitato un preoccupato alzar di sopracciglia…” no, eh! Questo no perché è davvero troppo..!!” mi è parso il senso dell’espressione. Giustamente.
La Gilda di Desireè Rancatore mi ha suscitato una impressione opposta a quella della sua Lucia bolognese. Il personaggio qui mi è parso convincente, o comunque di buon livello, soprattutto scenico. La qualità del canto, invece, nettamente regredita. Ho risentito, purtroppo, la Rancatore della Scala, vocalmente periclitante in tutta la gamma, compresi i mitici sopracuti, che ieri sera le sono venuti solo in chiusa al bis della Vendetta. La signorina canta con poco volume ( ricordavo una voce francamente più sonora ), il centro aperto e querulo, fuor di maschera quasi sempre, a detrimento della nobiltà del personaggio: le peggiori Gilde a fine carriera della storia hanno talvolta esibito questo difetto marchiano. Dico talvolta, perché quando la voce è messa così, eseguire il passaggio di registro inferiore e superiore diventa davvero complicato. La cantante, infatti si arrangicchia maldestramente quando scende, dove tuba i suoni in modo poco utile ( penso a come sono parse difficili frasi come l’attacco del Caro nome che il mio cuor…), e stenta a salire, dove già i primi acuti sono stonati, al primo atto in modo particolare, o falsettanti, o calanti ( penso all’incertezza evidente mostrata nel duetto con Rigoletto, da cui ne è uscita a fatica ).
L’aria, prototipo di vocalità da coloratura leggero quale è la Rancatore, è stata disbrigata con sicurezza solo nelle frasi finali, mentre la prima sezione pareva chissà quale inumana scrittura. La sofferenza vocale è stata evidente persino nell’esecuzione di staccati e picchettati, che dovrebbero essere il pane quotidiano delle voci leggere e che costituiscono la parte più facile del canto di coloratura…..( vengono anche ai sopranini a fine carriera!!). Soprattutto la difficoltà sul passaggio superiore le ha precluso un canto facile e di slancio nel duetto con il tenore e nell’esecuzione della bissata Vendetta. Quanto ai suoi blasonati sopracuti, ripeto, è stato degno della notorietà della cantante solo quello in chiusa al bis. Gli altri davvero faticosi, per via della posizione sempre troppo bassa della voce. Il pubblico l’ha premiata con un buon applauso al Caro nome ed un applauso intenso, secondo solo a quello di Nucci, all’uscita finale.
Il Duca era Francesco Demuro, giovane scoperta della Soprintendenza del Teatro di Parma. Già inopinatamente collocato sul secondo cast della Miller (un ruolo veramente troppo basso per lui e che lo aveva sfiancato in un atto e mezzo ), il giovane tenore ha mostrato tutte le sue carte, ossia una dote naturale bella, per timbro e per estensione naturale. Ma da qui all’essere un tenore vero ve ne corre molto. Idem per essere un Duca davvero cantante. La voce nel primo atto non pareva nemmeno impostata, le salite all’acuto fatte senza nemmeno abbozzare il passaggio di registro. Di qui la scarsa dinamica, perché se non è nella maschera la voce non può essere agilmente manovrata. Ha tentato numerosi piani, pianissimi e smorzature,che gli sono uscite falsettanti e piatte, talora sporche ed incerte. Non c’è respirazione professionale; non c’è appoggio della voce. Il volume è modesto, tanto che a volte non passa la buca; non c’è proiezione del suono. Che devo dire? Scenicamente è carino, un omino di bell’aspetto e buone intenzioni, che ispira simpatia. Un ragazzo che ha davanti a sé o una lunga via di studio serio o una carriera minima. Ha retto l’entrata con la freschezza; ha cantato da dilettante il duetto d’amore ( il punto più basso dell’intera serata ); ha cantato l’aria con gli acuti indietro, sempre più piccoli e la voce evidentemente vibrata perché priva di sostegno; è sparito all’ultimo atto, in una Donna è mobile di poco suono ed un quartetto per lui davvero enorme. Un esponente del presente pazzesco che viviamo, dove si và in scena del tutto acerbi per intraprendere una carriera. Il pubblico lo ha premiato in modo misurato , al pari delle seconde parti.
La Maddalena di Stefanie Iranyi l’ho udita poco, per via di una voce modesta, poco proiettata ma evidentemente diseguale. La sua concezione del canto è abbastanza ordinaria e volgare, almeno su questo personaggio, dove per essere donne di strade dal canto sbracato ( ma Maddalena canta davvero sbracato ???) bisogna almeno avere la voce. E di quelle grosse!
Lo Sparafucile di Marco Spotti è stata la cosa migliore della serata. Altissimo, con un trucco che gli ha tramutato il volto in teschio ed i capelli lunghissimi, hanno tolto a Sparafucile l’immagine da Mangiafuoco che tante volte abbiamo visto. Pareva uno spettro! La voce di Spotti è da vero basso, di buon volume. Talora la infossa artificiosamente, come fece malamente a Milano in Aida, ma quando non si fa prendere da questo modo di cantare e cerca di mantenere il suono alto e proiettato, canta in modo apprezzabile e con gusto. Ieri sera mi è parso il migliore.
La direzione di Zanetti è stata un po’ a due binari. Veloce, intensa e drammatica quando cantava Nucci, per il quale ha prodotto velocità e sonorità idonee a sorreggere le mende vocali del cantante anziano. Incolore, o comunque anodino, nel resto della serata, dove ha correttamente accompagnato i resto del cast.
Riallestito riccamente il vecchio spettacolo di Samaritani, efficace e collaudata cornice per una rappresentazione tradizionale.
Si è chiusa così la successione delle prime del Festival Verdi ( del Nabucco reggiano vi diremo poi ). Un Festival di grandi ambizioni ma di poca sostanza artistica vera. Avremo modo nei prossimi giorni di ciarlare su questo, di assenza di voci, di scelte artistiche, di gusto e prassi loggionistica in quel di Parma. Diciamo solo che questo Rigoletto pareva la vera prima del Festival, con tanto di politici, Ricciarelli, Sgarbi e sciccherie parmigiane varie, perché il Rigoletto, sebbene fosse un “povero Rigoletto” , è sempre attrattiva popolar mondana ben più di un titolo da anni di Galera
Signora Grisi, lei dice che l’aria di Gilda è per una vocalità di coloratura. Adesso non ricordo esattamente dove (cercherò di ritrovare la fonte), ma ho letto che in realtà la prima Gilda non fu esattamente un soprano leggero di coloratura, come la tradizione ci ha invece abituati ad intendere. Mi pare che addirittura il Mi bemolle picchiettato sia un’aggiunta ormai tradizionale ma non previsto dalla parte originale. Vorrei che approfondisse un po’ questa faccenda, riportando, per quanto può, notizie storiche, nomi, prassi esecutive, ecc.
Grazie mille.
Ciao. Hai ragione. A rigore il coloratura nasce dopo, mentre è nella tradizione esecutiva che il ruolo è diventato dominio pressochè esclusivo dei coloratura. E ti ringrazio della puntualizzazione, che mi darà modo di specificare il punto, anche circa la questione staccati-picchettati, abbassata etc…….
A scrivere in velocità accade di essere imprecisi….
A dopo il lavoro
……………meglio ancora.
Ripensandoci, dato che non è argomento breve faremo un post apposito, per parlare delle prime Gilde, Brambilla, Frezzolini…, il momento di passaggio al coloratura, etc…
Grosso modo si inserirà nel nostro planning attorno al 20 ottobre, dopo i festival.
Spero ti sia cosa gradita……..e grazie per l’idea!
Perfetto! grazie mille!
Il problema della Rancatore, secondo me, non è tanto il poco volume, che di voci piccole ma in grado di passare benissimo un’orchestra ce ne sono sempre state, quanto più il fatto che canti tutto indietro dal grave al sopracuto, alla ricerca, forse, di un’ampiezza e di un colore che non le sono propri, evitando di cercare invece quella “punta” necessaria per un sopranino leggero come lei.
Ciao Orbazzano.
Beh, non passare l’orchestra è grave perchè è sinonimo di manacanza di proiezione della voce. In questo caso in una zona che non è esattamente estranea alla sua voce ( mica sono nonte da contralto!). Comunque è vero ciò che dici circa le sue note basse. Diversamente da te, però, intepreto questo fatto come un arrangiarsi in qualche modo. Scurisce il suono ma questo non fa la nota, la simula. Per certi aspetti mi pare che anche tenti una imitazione di certi suoni della Devia ma….con risultati assai diversi!!