Il nostro tradizionale commento musicale, rimesso alla signora Ebe Stignani e tratto dal Matrimonio segreto si impone per la direzione artistica che ha allestito questi Puritani il cui solo ed esclusivo elemento di interesse è configurato dalla protagonista femminile. Andar dichiarando che verrà eseguita l’edizione critica, costata lavoro e danaro per, poi, farne “orrendo scempio” anzi incongruente scempio, offendendo gli studiosi, che vi hanno lavorato ed il pubblico che, crede e si illude di avervi assistito.
Perché questi Puritani sono stati malamente tagliati e rabberciati, peggio che nelle esecuzioni di provincia. Cito le peggiori incongruenze e non credo siano tutte. La polacca di Elvira ridotta della metà, il terzetto delle versione napoletana, predisposto per la presente (mancando nell’autografo quello parigino) dove il tenore, che dovrebbe “tirarlo” tace per i quattro quinti dell’esecuzione ed, ad un certo punto, si odono i soli “pedali” (ossia Enrichetta e Riccardo), che cantano da soli, la romanza del terzo atto di Arturo, eseguita per la sola seconda strofe, il duetto Arturo/Elvira nella versione ridotta tradizionale e, per giunta, abbassato di un tono e, poi, beffa per il pubblico l’esecuzione di una strofa del finale del “Sento oh mio bell’angelo” a due voci come si suppone (vedi saggio del prof della Seta) eseguita a Parigi alla prima del 1835. Ma ci prendono per cretini !!!!!
Non vale quale scusante la scelta all’ultimo del protagonista, che sostituiva il previsto cantante.
La colpa non è del prescelto o del sostituto, ma di una direzione artistica che attua determinate scelte. Le copiose disapprovazioni non vanno all’indirizzo dell’esecutore del ruolo di Arturo. Vanno all’indirizzo della direzione artistica, che sceglie un titolo come i Puritani, che impone quale condicio sine qua non un grande tenore, e lo affida ad un cantante inadeguato che, poi, lascia od è costretto a lasciare, sostituito da altro, indegno; che dichiara una scelta artistica per, poi, ridurla, ridicolizzarla ed umiliarla e con lei l’autore, il revisore ed il pubblico, che offeso e arrabbiato zittisce e contesta. E siccome l’improntitudine di questa direzione è senza limiti ordina alle povere maschere di presidiare il loggione e la platea e di sostituirsi alla claque. Vergogna e reiterata vergogna perché queste operazioni vengono fatte con il danaro pubblico, quello, che in periodo di pacifica recessione viene dai prelievi fiscali dei contribuenti-spettatori e dovrebbe essere speso ed utilizzato con specifica attenzione per la contingenza.
Onestà impone di dire che l’allestimento assolutamente oleografico e tradizionale di Michele della Cioppa, scenografo, e Simona Morresi, costumista, è azzeccato e risponde ad un’efficace rappresentazione del lavoro i cui valori preponderanti stanno altrove. Dissentiamo, però, dal carretto siciliano, che accompagna il finale primo ed il finale dell’opera, come dal pasticcio registico compiuto con il velo di Elvira.
Il peggio è il lato musicale, affidato alla direzione di Marcello Rota: metronomica, pesante, tendenzialmente lenta, con orchestra e coro (a partire dal coro dell’ingresso) spesso fuori tempo e scollegate. Tacciamo delle copiose stecche dei fiati al terzo atto. In un titolo, che mescola eredità rossiniane e presagi del futuro, dalla strumentazione raffinata, come Parigi imponeva, dove convivono l’elemento elegiaco più tipicamente belliniano con quello cavalleresco, non si possono tollerare esecuzioni monotone e accompagnamenti privi di guizzi e fantasia, nonché incapacità di accompagnare l’unico elemento del cast degno del titolo. Dalla stessa compagine orchestrale in Favorita abbiamo potuto percepire ben altro.
Intendiamoci bene, e lo abbiamo già scritto: i Puritani richiedono quattro fuoriclasse, come furono al Teatro degli Italiani Giulia Grisi, Rubini, Tamburini e Lablache. Per rendersene conto, tralasciando gli amorosi, basta ascoltare i passi acrobatici previsti per Riccardo alla cavatina di sortita, piuttosto che quelli che chiudono il famoso duetto “Suoni la tromba”.
Sia Roberto Accurso (Riccardo) che Enrico Giuseppe Iori sono stati molto pallidi rispetto alle esigenze dello spartito. Il primo, pur con qualche intenzione di nobiltà nel fraseggio non riesce ad emettere acuti decenti, pasticcia e raggiusta malamente i passi acrobatici della cabaletta “bel sogno beato” e l’ampiezza è limitata; il secondo dal timbro molto poco da basso suona ingolato e per nulla vario nel fraseggio. Tenuto conto che Bellini gli affida una splendida cantilena “ Cinta di fiori” ovvio tirare le conseguenze.
Quanto a Giorgio Casciarri per rispetto alla persona si impone un doveroso silenzio. Fare una disamina dei difetti del cantante (la parola interprete non deve essere profferita) è cattivo ed impietoso.
Ma le riprovazioni, gli zittii ed i commento del pubblico, allibito ed annichilito, sono dovuti e doverosi. E, ripetiamo, lo sono più per la direzione artistica che è discesa a questo e che per questo deve essere pesantemente riprovata, più che per l’esecutore.
In mezzo a tutto questo Jessica Pratt. Jessica Pratt ha ventott’anni e di fatto calca il palcoscenico da uno. Ha dato prova di un professionismo da cantante esperta e sicura, a maggior ragione se si tiene conto della situazione in cui è finita e della circostanza che debuttasse il ruolo.
Si è risparmiata al duetto con Giorgio, salvo svettare nei sovracuti, la polacca eseguita in versione ridotta non le conviene, poi è arrivato il finale primo dove le interpolazioni di tradizione portano alle stelle la voce di Elvira. E qui Jessica Pratt è stata meravigliosa, reggendo senza sforzo le difficoltà della parte, esibendo un timbro stilizzato e purissimo che è la caratteristica delle più complete belcantiste E puntuale è scattato l’applauso, ovazione del pubblico, che, finalmente, si era rifatto le orecchie. Ovvio che se abbiamo sentito una bella pazzia è soprattutto per la sorprendente facilità della gamma acuta, che è ancora più apprezzabile perché la parte di Elvira non è propriamente acutissima, anzi. E soprattutto non ha avuto nessun aiuto dal direttore d’orchestra, che ha staccato un tempo lentissimo per la cabaletta, munita di intelligenti variazioni.
L’atto migliore di questa protagonista è stato il terzo. In difficoltà per l’abbassamento del duetto, dettato dal protagonista maschile, ha cantato con eleganza, dolcezza e linea di canto oltre che i soliti acuti facilissimi e sonori, di cui un bellissimo re, ha chiuso lo spettacolo.
Dall’ascolto, con le tare sopradette, sorge il dubbio che oggi le parti più consono a Jessica Pratt siano quelle di tessitura acuta ed astratte, tipo la Zenobia dell’Aureliano in Palmira o la Lucia di Lammermoor. Ma una cosa è certa: il finale primo di Jessica Pratt è di quelli che fanno saltare sulla seggiola.
Perché questi Puritani sono stati malamente tagliati e rabberciati, peggio che nelle esecuzioni di provincia. Cito le peggiori incongruenze e non credo siano tutte. La polacca di Elvira ridotta della metà, il terzetto delle versione napoletana, predisposto per la presente (mancando nell’autografo quello parigino) dove il tenore, che dovrebbe “tirarlo” tace per i quattro quinti dell’esecuzione ed, ad un certo punto, si odono i soli “pedali” (ossia Enrichetta e Riccardo), che cantano da soli, la romanza del terzo atto di Arturo, eseguita per la sola seconda strofe, il duetto Arturo/Elvira nella versione ridotta tradizionale e, per giunta, abbassato di un tono e, poi, beffa per il pubblico l’esecuzione di una strofa del finale del “Sento oh mio bell’angelo” a due voci come si suppone (vedi saggio del prof della Seta) eseguita a Parigi alla prima del 1835. Ma ci prendono per cretini !!!!!
Non vale quale scusante la scelta all’ultimo del protagonista, che sostituiva il previsto cantante.
La colpa non è del prescelto o del sostituto, ma di una direzione artistica che attua determinate scelte. Le copiose disapprovazioni non vanno all’indirizzo dell’esecutore del ruolo di Arturo. Vanno all’indirizzo della direzione artistica, che sceglie un titolo come i Puritani, che impone quale condicio sine qua non un grande tenore, e lo affida ad un cantante inadeguato che, poi, lascia od è costretto a lasciare, sostituito da altro, indegno; che dichiara una scelta artistica per, poi, ridurla, ridicolizzarla ed umiliarla e con lei l’autore, il revisore ed il pubblico, che offeso e arrabbiato zittisce e contesta. E siccome l’improntitudine di questa direzione è senza limiti ordina alle povere maschere di presidiare il loggione e la platea e di sostituirsi alla claque. Vergogna e reiterata vergogna perché queste operazioni vengono fatte con il danaro pubblico, quello, che in periodo di pacifica recessione viene dai prelievi fiscali dei contribuenti-spettatori e dovrebbe essere speso ed utilizzato con specifica attenzione per la contingenza.
Onestà impone di dire che l’allestimento assolutamente oleografico e tradizionale di Michele della Cioppa, scenografo, e Simona Morresi, costumista, è azzeccato e risponde ad un’efficace rappresentazione del lavoro i cui valori preponderanti stanno altrove. Dissentiamo, però, dal carretto siciliano, che accompagna il finale primo ed il finale dell’opera, come dal pasticcio registico compiuto con il velo di Elvira.
Il peggio è il lato musicale, affidato alla direzione di Marcello Rota: metronomica, pesante, tendenzialmente lenta, con orchestra e coro (a partire dal coro dell’ingresso) spesso fuori tempo e scollegate. Tacciamo delle copiose stecche dei fiati al terzo atto. In un titolo, che mescola eredità rossiniane e presagi del futuro, dalla strumentazione raffinata, come Parigi imponeva, dove convivono l’elemento elegiaco più tipicamente belliniano con quello cavalleresco, non si possono tollerare esecuzioni monotone e accompagnamenti privi di guizzi e fantasia, nonché incapacità di accompagnare l’unico elemento del cast degno del titolo. Dalla stessa compagine orchestrale in Favorita abbiamo potuto percepire ben altro.
Intendiamoci bene, e lo abbiamo già scritto: i Puritani richiedono quattro fuoriclasse, come furono al Teatro degli Italiani Giulia Grisi, Rubini, Tamburini e Lablache. Per rendersene conto, tralasciando gli amorosi, basta ascoltare i passi acrobatici previsti per Riccardo alla cavatina di sortita, piuttosto che quelli che chiudono il famoso duetto “Suoni la tromba”.
Sia Roberto Accurso (Riccardo) che Enrico Giuseppe Iori sono stati molto pallidi rispetto alle esigenze dello spartito. Il primo, pur con qualche intenzione di nobiltà nel fraseggio non riesce ad emettere acuti decenti, pasticcia e raggiusta malamente i passi acrobatici della cabaletta “bel sogno beato” e l’ampiezza è limitata; il secondo dal timbro molto poco da basso suona ingolato e per nulla vario nel fraseggio. Tenuto conto che Bellini gli affida una splendida cantilena “ Cinta di fiori” ovvio tirare le conseguenze.
Quanto a Giorgio Casciarri per rispetto alla persona si impone un doveroso silenzio. Fare una disamina dei difetti del cantante (la parola interprete non deve essere profferita) è cattivo ed impietoso.
Ma le riprovazioni, gli zittii ed i commento del pubblico, allibito ed annichilito, sono dovuti e doverosi. E, ripetiamo, lo sono più per la direzione artistica che è discesa a questo e che per questo deve essere pesantemente riprovata, più che per l’esecutore.
In mezzo a tutto questo Jessica Pratt. Jessica Pratt ha ventott’anni e di fatto calca il palcoscenico da uno. Ha dato prova di un professionismo da cantante esperta e sicura, a maggior ragione se si tiene conto della situazione in cui è finita e della circostanza che debuttasse il ruolo.
Si è risparmiata al duetto con Giorgio, salvo svettare nei sovracuti, la polacca eseguita in versione ridotta non le conviene, poi è arrivato il finale primo dove le interpolazioni di tradizione portano alle stelle la voce di Elvira. E qui Jessica Pratt è stata meravigliosa, reggendo senza sforzo le difficoltà della parte, esibendo un timbro stilizzato e purissimo che è la caratteristica delle più complete belcantiste E puntuale è scattato l’applauso, ovazione del pubblico, che, finalmente, si era rifatto le orecchie. Ovvio che se abbiamo sentito una bella pazzia è soprattutto per la sorprendente facilità della gamma acuta, che è ancora più apprezzabile perché la parte di Elvira non è propriamente acutissima, anzi. E soprattutto non ha avuto nessun aiuto dal direttore d’orchestra, che ha staccato un tempo lentissimo per la cabaletta, munita di intelligenti variazioni.
L’atto migliore di questa protagonista è stato il terzo. In difficoltà per l’abbassamento del duetto, dettato dal protagonista maschile, ha cantato con eleganza, dolcezza e linea di canto oltre che i soliti acuti facilissimi e sonori, di cui un bellissimo re, ha chiuso lo spettacolo.
Dall’ascolto, con le tare sopradette, sorge il dubbio che oggi le parti più consono a Jessica Pratt siano quelle di tessitura acuta ed astratte, tipo la Zenobia dell’Aureliano in Palmira o la Lucia di Lammermoor. Ma una cosa è certa: il finale primo di Jessica Pratt è di quelli che fanno saltare sulla seggiola.
Ebe Stignani commenta le scelte della Direzione artistica del Festival Donizetti
Ho assistito alla prova generale di cotanto scempio e devo dire che confermo quanto qui recensito.
Riconosco alla Pratt un timbro molto bello da vero lirico di coloratura che, peraltro, si espande in volume e brillantezza man mano che la voce scala il pentagramma fino all’emissione di RE e MI bemolli rotondi morbidi ed ampi, ma, ahimé, ho riscontrato una totale mancanza di “legato” (cosa che già avevo percepito nella sua Lucia, ma che in Bellini proprio fatico a tollerare).
Transeo sul resto del cast.
Ciao!
….ieri sera non così senza legato come dici tu. Alla polacca ho sentito questo..lì si.
A presto!!!
Io non ho rilevato questa assenza di legato. Anzi: la Pratt ha gestito magnificamente la scena della pazzia, nonostante i tempi letargici staccati dal direttore d’orchestra (tempi che avrebbero messo a dura prova chiunque). Del resto l’ambiente in cui la Pratt si è ritrovata a dover cantare non era certo dei più “facili”. E solo lei ha sostenuto lo spettacolo. Inoltre considera che “grazie” agli abbassamenti pretesi dal tenore (?) la Pratt ha di fatto cantato da mezzo soprano almeno nell’atto III… Sul resto davvero non varrebbe la pena soffermarsi, se si fosse trattato di spettacolo amatoriale: purtroppo era a pagamento e ha percepito denari pubblici. Ecco perchè non si può e non si deve tacere. Il rispetto per Casciarri come uomo (che non viene a mancare certo) non deve consentire però di sorvolare sul livello assolutamente infimo della sua performance: il fin troppo buono Domenico Donzelli ha preferito soprassedere (e bene, in un certo senso, ha fatto), tuttavia dopo averlo sentito mi è venuta una voglia impellente di fermarmi al cimitero di Romano di Lombardia e portare un fiore sulle spogle mortali del grande Rubini (ché lì riposa) e rendere omaggio al suo “cenere muto” oltraggiato da questa vergognosa esibizione. Stonature, raucedine, apnea, mancanza di fiato, incapacità totale di legato, voce più che traballante, disordine nell’emissione, incertezza, ricorso al falsetto (!!!!!!)…e chi più ne ha più ne metta. Davvero troppo in una voce sola e in una sola serata. Qualcuno tra gli spettatori, dopo una ignobile “A te o cara”, credeva di essersi trovato coinvolto in uno scherzo di cattivo gusto. Era tutto vero invece…e purtroppo!
Una nota a margine: molti spettatori si sono alzati prima del “credeasi misera” per non ascoltare lo scempio che poi, puntualmente, è stato fatto.
Ecco: è vero quel che dice la divina Grisi sulla polacca. Mi viene da chiedere però: ma disponendo della Pratt (l’unica – ripeto – che ha salvato l’opera) che senso ha avuto tagliare i 3/4 del “Son vergin vezzosa” (trasformata in uno scampolo per soprano solo)? Così come mi chiedo il senso – visto il livello indecoroso del tenore – di far cantare “Ah sento o mio bell’angelo” (o meglio un breve accenno di questo) a entrambi e non alla sola Elvira: completo e variato – come faceva la Sutherland – concludendo così l’opera in bellezza???