Strani tempi quelli in cui ci troviamo a vivere! In un mondo – quello dell’opera lirica – che non riesce a rappresentare titoli che fino agli anni ’70 del secolo appena trascorso erano “di repertorio” in tutti i teatri del mondo (penso a Dinorah, a Gioconda, al Verdi della maturità, per non parlare di Donizetti e Bellini o al grand-opéra, ma anche certi titoli della “giovane scuola” oggi praticamente spariti: da Francesca da Rimini all’Adriana, da Iris a Wally), vuoi per effettiva mancanza di voci adeguate, vuoi – soprattutto – per mancanza di una politica culturale rispettosa di tradizioni e interessi del pubblico e in cui Il Trovatore o I Vespri Siciliani divengono “eventi”, in una tale situazione – dicevo – si assiste alla inusuale presenza in teatri, sale da concerto e mercato discografico, di titoli e autori risalenti all’epoca tardo rinascimentale e prebarocca.
Non si tratta della doverosa programmazione dei lavori di Haendel o degli altri astri dell’Opera Seria metastasiana (da Porpora a Telemann a Hasse), la cui continua e persistente mancanza dai palcoscenici è una autentica vergogna per le nostre istituzioni musicali, bensì di autori ormai lontanissimi dalla nostra sensibilità e concezione dell’opera lirica: sia per ciò che ne concerne la fruizione, sia per la sua stessa esecuzione. Tali titoli – legati a determinate occasioni mondane, concepiti a celebrazione di una precisa ricorrenza o personaggio, pensati per una certa tipologia di luoghi (più raccolti e intimi di una moderna sala teatrale), destinati ad un pubblico assai diverso dal nostro e che mentre ascoltava musica faceva tutt’altro (o forse sarebbe più corretto dire che mentre faceva tutt’altro ascoltava anche un po’ di musica), eseguiti, infine, non su partiture complete (come le intendiamo noi oggi), ma lasciati alla contingenza della disponibilità strumentale e all’estro dei suonatori (ché non vi era alcun direttore d’orchestra o figure assimilabili) – vengono oggi proposti in spazi molto più ampi e costruiti differentemente e ad un pubblico il cui atteggiamento è radicalmente diverso, necessitando, oltre tutto, di un complesso lavoro di realizzazione della partitura che sulla carta esiste solo come linea vocale e accompagnamento di basso numerato, mancando sia di indicazione di organico che di strumentazione (ed essendo oggi inconcepibile la sua improvvisazione estemporanea). Si aggiunga ancora il fatto che un repertorio del genere andrebbe affidato a compagini di specialisti con approccio necessariamente “museale”, poichè gli strumenti adatti ad eseguire quella musica sono oggi spariti del tutto oppure si sono evoluti in forme non assimilabili agli originali (con tutti i problemi in termini di acustica e percezione del suono). Infine i cantanti, la cui tecnica è (o dovrebbe) essere plasmata sulle conquiste vocali del belcanto (suono immascherato etc..) laddove nel recitar cantando il suono è funzionale e secondario rispetto alla comprensione e recitazione del testo poetico. La somma di questi problemi (aggravati, lo ribadisco, dagli spazi che vengono impiegati oggi) rischia di trasformare l’opera in una ricerca archeologica e lo spettacolo in una specie di dotta “notte al museo”, magari affascinante e dagli alti contenuti artistici ed estetici, ma che non tiene conto delle differenti condizioni di ascolto e di fruizione. Se però fino a qualche tempo fa, tali titoli venivano circoscritti a festival dedicati o ad occasioni celebrative (che permettevano l’utilizzo di spazi e compagini più adatte allo scopo, al di fuori, cioè, dell’ambito della normale programmazione operistica generalista) oggi iniziano ad essere inseriti nelle ordinarie stagioni liriche: nulla di male in astratto e se si dovessero presentare 30 o 40 spettacoli all’anno, qualche perplessità in più laddove vengano rappresentati in una stagione che fatica ad arrivare a 10 titoli annuali. Vi è poi il problema dell’orchestra: quasi tutti i teatri dispongono di orchestre, stabili o meno, fatte di strumenti moderni e, giustamente, poco avvezze al modo antiquo o a certi strumenti ormai non più in uso. L’alternativa è quindi la trascrizione per compagini contemporanee con le loro sonorità e i loro timbri (soluzione che avrebbe il vantaggio di ovviare ai problemi di acustica nei larghi spazi usati, ma che suona come una bestemmia agli orecchi del “purista” e che, in effetti, porterebbe ad un certo snaturamento dell’originale) oppure affidarle ad ensemble specializzati, magari ospitate dall’ente teatrale di turno (soluzione auspicabile in termini di rispetto e correttezza esecutiva per questa particolare musica, ma che non risolve i problemi di sonorità: il moderno teatro d’opera non è assimilabile al salone di una corte rinascimentale o al teatrino privato di qualche ricco mercante veneto).
In questa complessa e confusa situazione ecco spuntare sui palcoscenici e negli scaffali dei negozi di dischi, oltre a Monteverdi (la cui conoscenza è doverosa e sacrosanta per tanti motivi), il nome di Francesco Cavalli. Parafrasando Manzoni verrebbe da dire: Cavalli! Chi era costui? Domanda lecita, poichè al di là della citazione del nome nei salotti più à la page della lirica o nei cenacoli più squisiti di intellettuali et similia (ma che non testimoniano certo una reale e diffusa conoscenza), credo che la figura artistica del nostro sia perfettamente sovrapponibile alla fama di un qualsiasi Carneade, il cui nome si incontra scorrendo per caso l’elenco dei personaggi notevoli della sua epoca (quando non ci si imbatte in esso, ahimè, nel compulsare nervosamente la toponomastica stradale di qualche cittadina del lombardo-veneto). Pier Francesco Caletti-Bruni nacque a Crema (allora estrema propaggine occidentale della Serenissima Repubblica) nel 1602 e, trasferitosi ancora giovinetto a Venezia, assunse il nome del suo protettore – Federico Cavalli (già governatore di Crema) – per omaggiarlo dei favori ricevuti. Nel 1617 venne ammesso quale cantore nella celebre cappella di San Marco e lì fu allievo di Claudio Monteverdi, con il quale, si dice (ma non vi sono prove in merito) collaborò nella stesura dell’Incoronazione di Poppea, ultima opera del maestro cremonese. Morì appagato a Venezia nel 1676, dopo aver onestamente percorso tutto il cursus honorum che lo portò all’ambita carica di maestro della cappella ducale nel 1668. Autore molto prolifico (si conoscono circa 40 titoli) compose quasi esclusivamente per i teatri veneziani (anche 3 o 4 opere all’anno), salvo qualche sporadica e poco fortunata commissione estera (memorabile nel 1660, il fiasco del suo Xerses a Parigi, dovuto probabilmente alla scarsa dimestichezza dei francesi con il recitar cantando italiano e alla diversa strada che già stava imboccando il teatro francese). L’opera di Cavalli si pone a mezza via tra barocco e prebarocco, in quel particolare momento storico del passaggio tra opera di corte (festa teatrale) a opera scritta per un pubblico più vasto, pagante, composto anche da borghesi e da ricchi mercanti, e svincolata dalla contingenza di occasioni celebrative. Anche se non ancora assimilabile all’imminente rivoluzione dell’Opera Seria (sia nella struttura formale, sia nell’esecuzione, sia nella fruizione), si inizia ad assistere proprio in quel periodo al distacco dell’opera dal ristretto ambito nobiliare e al definitivo tramonto del recitar cantando e del concetto tutto monteverdiano dell’harmonia serva de l’oratione. Il percorso che porterà alle astrazioni dell’opera barocca comincia proprio negli anni in cui Cavalli si trova a vivere. Suo modello, tuttavia, è ancora Monteverdi e delle opere del maestro manterrà intatta la struttura: nonostante, infatti, una maggiore cura nel delineare e separare l’episodio solistico (ma solo nei lavori più tardi) che porterà poi alla definizione del numero chiuso e all’aria tripartita, le sue opere restano un lungo susseguirsi di recitativi e di declamati inframezzati da ritornelli e da qualche cantabile. I soggetti – preceduti e conclusi da prologo ed epilogo privi di reale connessione con la vicenda – resteranno ispirati alla mitologia classica e pastorale, con la costante della suddivisione del testo in due livelli: quello alto affidato ai personaggi tragici (storici e mitici) a cui è affidata la vicenda principale (spesso una lacrimevole serie di abbandoni e conseguenti lamenti – qualcuno parla delle opere di Cavalli con l’espressione ironica di belpianto); e quello basso e comico – immancabile – ai cui personaggi grotteschi e triviali, sono affidate divagazioni dal contenuto spesso osceno (con riferimenti sessuali più o meno espliciti), nell’intento di spezzare la monotonia dei lamenti dei protagonisti “seri” e di alleggerire l’estenuante lunghezza delle rappresentazioni integrali. Cavalli come tutti i musicisti precedenti e coevi non stende compiutamente la sua musica, ma si limita alla linea di canto (anche solo abbozzata) indicando solamente il basso numerato e, poche volte a dire il vero, annotando a margine quali strumenti impiegare. Probabilmente a dare veste esecutiva all’opera erano gli strumentisti con largo uso di improvvisazione, limitandosi l’autore a poche e non vincolanti indicazioni, dopo averne constatato il numero e la varietà. Quel che ci resta dunque, è solo un’ombra priva di definizione che genera non pochi problemi testuali all’esecutore moderno: essendo necessario un lavoro di realizzazione vera e propria per far assumere all’opera una forma rappresentabile. Il motivo di questa lunga premessa e divagazione è dato dall’imminente esecuzione al Teatro alla Scala di Milano, della Didone – terza delle opere di Cavalli, appunto – per la cui compiuta analisi si rimanda alla recensione che seguirà allo spettacolo (programmato per il 20 e il 22 di questo mese). Non è certo mia intenzione quella di contestare le scelte della sovrintendenza, liberissima di rivolgersi ad ogni piega del repertorio operistico, tuttavia mi permetto di rilevare tutte le perplessità già esposte (relative a spazi, esecuzione e fruizione), che verranno rese esplicite durante le prossime rappresentazioni. La Scala è teatro di una certa ampiezza, costruito nel XVIII secolo e per il genere di spettacolo sviluppatosi in quel periodo (cioè l’opera come noi la conosciamo, pur con tutte le evoluzioni successive). Gli organici ridotti, le sonorità scarne, gli strumenti originali e le voci poco proiettate, dell’ensemble di specialisti scritturato per l’esecuzione (in realtà in tournée dalla Fenice di Venezia), mostreranno tutta la loro inadeguatezza (a meno di improbabili e assai poco filologici rimpolpi d’organico). Già in passato ho assistito a lavori di Monteverdi, Marco da Gagliano e Peri, in teatri tradizionali (assai più piccoli e raccolti, come il Ponchielli di Cremona) e, a meno di trovarsi nelle prime file di platea o nei palchi appena sopra l’orchestra, la percezione musicale era abbastanza ridotta. Non voglio poi aprire il capitolo relativo all’affluenza di pubblico per un titolo di questo genere (privo di grandi attrattive musicali e di cast, e che si allestisce addirittura in forma scenica, con i relativi aggravi di costi e spese): sarebbe troppo facile constatare lo spreco di risorse (senza alcuna certezza di ritorno economico) nell’ambito di una stagione fatta di titoli risicati, poche repliche (e che spesso saltano a causa di scioperi – peraltro già annuncitati nel corso di tutta la stagione prossima ventura) e, cosa che è più grave, pochissime idee.Cavalli – Donzelle fuggite – Edmond Clément
Non si tratta della doverosa programmazione dei lavori di Haendel o degli altri astri dell’Opera Seria metastasiana (da Porpora a Telemann a Hasse), la cui continua e persistente mancanza dai palcoscenici è una autentica vergogna per le nostre istituzioni musicali, bensì di autori ormai lontanissimi dalla nostra sensibilità e concezione dell’opera lirica: sia per ciò che ne concerne la fruizione, sia per la sua stessa esecuzione. Tali titoli – legati a determinate occasioni mondane, concepiti a celebrazione di una precisa ricorrenza o personaggio, pensati per una certa tipologia di luoghi (più raccolti e intimi di una moderna sala teatrale), destinati ad un pubblico assai diverso dal nostro e che mentre ascoltava musica faceva tutt’altro (o forse sarebbe più corretto dire che mentre faceva tutt’altro ascoltava anche un po’ di musica), eseguiti, infine, non su partiture complete (come le intendiamo noi oggi), ma lasciati alla contingenza della disponibilità strumentale e all’estro dei suonatori (ché non vi era alcun direttore d’orchestra o figure assimilabili) – vengono oggi proposti in spazi molto più ampi e costruiti differentemente e ad un pubblico il cui atteggiamento è radicalmente diverso, necessitando, oltre tutto, di un complesso lavoro di realizzazione della partitura che sulla carta esiste solo come linea vocale e accompagnamento di basso numerato, mancando sia di indicazione di organico che di strumentazione (ed essendo oggi inconcepibile la sua improvvisazione estemporanea). Si aggiunga ancora il fatto che un repertorio del genere andrebbe affidato a compagini di specialisti con approccio necessariamente “museale”, poichè gli strumenti adatti ad eseguire quella musica sono oggi spariti del tutto oppure si sono evoluti in forme non assimilabili agli originali (con tutti i problemi in termini di acustica e percezione del suono). Infine i cantanti, la cui tecnica è (o dovrebbe) essere plasmata sulle conquiste vocali del belcanto (suono immascherato etc..) laddove nel recitar cantando il suono è funzionale e secondario rispetto alla comprensione e recitazione del testo poetico. La somma di questi problemi (aggravati, lo ribadisco, dagli spazi che vengono impiegati oggi) rischia di trasformare l’opera in una ricerca archeologica e lo spettacolo in una specie di dotta “notte al museo”, magari affascinante e dagli alti contenuti artistici ed estetici, ma che non tiene conto delle differenti condizioni di ascolto e di fruizione. Se però fino a qualche tempo fa, tali titoli venivano circoscritti a festival dedicati o ad occasioni celebrative (che permettevano l’utilizzo di spazi e compagini più adatte allo scopo, al di fuori, cioè, dell’ambito della normale programmazione operistica generalista) oggi iniziano ad essere inseriti nelle ordinarie stagioni liriche: nulla di male in astratto e se si dovessero presentare 30 o 40 spettacoli all’anno, qualche perplessità in più laddove vengano rappresentati in una stagione che fatica ad arrivare a 10 titoli annuali. Vi è poi il problema dell’orchestra: quasi tutti i teatri dispongono di orchestre, stabili o meno, fatte di strumenti moderni e, giustamente, poco avvezze al modo antiquo o a certi strumenti ormai non più in uso. L’alternativa è quindi la trascrizione per compagini contemporanee con le loro sonorità e i loro timbri (soluzione che avrebbe il vantaggio di ovviare ai problemi di acustica nei larghi spazi usati, ma che suona come una bestemmia agli orecchi del “purista” e che, in effetti, porterebbe ad un certo snaturamento dell’originale) oppure affidarle ad ensemble specializzati, magari ospitate dall’ente teatrale di turno (soluzione auspicabile in termini di rispetto e correttezza esecutiva per questa particolare musica, ma che non risolve i problemi di sonorità: il moderno teatro d’opera non è assimilabile al salone di una corte rinascimentale o al teatrino privato di qualche ricco mercante veneto).
In questa complessa e confusa situazione ecco spuntare sui palcoscenici e negli scaffali dei negozi di dischi, oltre a Monteverdi (la cui conoscenza è doverosa e sacrosanta per tanti motivi), il nome di Francesco Cavalli. Parafrasando Manzoni verrebbe da dire: Cavalli! Chi era costui? Domanda lecita, poichè al di là della citazione del nome nei salotti più à la page della lirica o nei cenacoli più squisiti di intellettuali et similia (ma che non testimoniano certo una reale e diffusa conoscenza), credo che la figura artistica del nostro sia perfettamente sovrapponibile alla fama di un qualsiasi Carneade, il cui nome si incontra scorrendo per caso l’elenco dei personaggi notevoli della sua epoca (quando non ci si imbatte in esso, ahimè, nel compulsare nervosamente la toponomastica stradale di qualche cittadina del lombardo-veneto). Pier Francesco Caletti-Bruni nacque a Crema (allora estrema propaggine occidentale della Serenissima Repubblica) nel 1602 e, trasferitosi ancora giovinetto a Venezia, assunse il nome del suo protettore – Federico Cavalli (già governatore di Crema) – per omaggiarlo dei favori ricevuti. Nel 1617 venne ammesso quale cantore nella celebre cappella di San Marco e lì fu allievo di Claudio Monteverdi, con il quale, si dice (ma non vi sono prove in merito) collaborò nella stesura dell’Incoronazione di Poppea, ultima opera del maestro cremonese. Morì appagato a Venezia nel 1676, dopo aver onestamente percorso tutto il cursus honorum che lo portò all’ambita carica di maestro della cappella ducale nel 1668. Autore molto prolifico (si conoscono circa 40 titoli) compose quasi esclusivamente per i teatri veneziani (anche 3 o 4 opere all’anno), salvo qualche sporadica e poco fortunata commissione estera (memorabile nel 1660, il fiasco del suo Xerses a Parigi, dovuto probabilmente alla scarsa dimestichezza dei francesi con il recitar cantando italiano e alla diversa strada che già stava imboccando il teatro francese). L’opera di Cavalli si pone a mezza via tra barocco e prebarocco, in quel particolare momento storico del passaggio tra opera di corte (festa teatrale) a opera scritta per un pubblico più vasto, pagante, composto anche da borghesi e da ricchi mercanti, e svincolata dalla contingenza di occasioni celebrative. Anche se non ancora assimilabile all’imminente rivoluzione dell’Opera Seria (sia nella struttura formale, sia nell’esecuzione, sia nella fruizione), si inizia ad assistere proprio in quel periodo al distacco dell’opera dal ristretto ambito nobiliare e al definitivo tramonto del recitar cantando e del concetto tutto monteverdiano dell’harmonia serva de l’oratione. Il percorso che porterà alle astrazioni dell’opera barocca comincia proprio negli anni in cui Cavalli si trova a vivere. Suo modello, tuttavia, è ancora Monteverdi e delle opere del maestro manterrà intatta la struttura: nonostante, infatti, una maggiore cura nel delineare e separare l’episodio solistico (ma solo nei lavori più tardi) che porterà poi alla definizione del numero chiuso e all’aria tripartita, le sue opere restano un lungo susseguirsi di recitativi e di declamati inframezzati da ritornelli e da qualche cantabile. I soggetti – preceduti e conclusi da prologo ed epilogo privi di reale connessione con la vicenda – resteranno ispirati alla mitologia classica e pastorale, con la costante della suddivisione del testo in due livelli: quello alto affidato ai personaggi tragici (storici e mitici) a cui è affidata la vicenda principale (spesso una lacrimevole serie di abbandoni e conseguenti lamenti – qualcuno parla delle opere di Cavalli con l’espressione ironica di belpianto); e quello basso e comico – immancabile – ai cui personaggi grotteschi e triviali, sono affidate divagazioni dal contenuto spesso osceno (con riferimenti sessuali più o meno espliciti), nell’intento di spezzare la monotonia dei lamenti dei protagonisti “seri” e di alleggerire l’estenuante lunghezza delle rappresentazioni integrali. Cavalli come tutti i musicisti precedenti e coevi non stende compiutamente la sua musica, ma si limita alla linea di canto (anche solo abbozzata) indicando solamente il basso numerato e, poche volte a dire il vero, annotando a margine quali strumenti impiegare. Probabilmente a dare veste esecutiva all’opera erano gli strumentisti con largo uso di improvvisazione, limitandosi l’autore a poche e non vincolanti indicazioni, dopo averne constatato il numero e la varietà. Quel che ci resta dunque, è solo un’ombra priva di definizione che genera non pochi problemi testuali all’esecutore moderno: essendo necessario un lavoro di realizzazione vera e propria per far assumere all’opera una forma rappresentabile. Il motivo di questa lunga premessa e divagazione è dato dall’imminente esecuzione al Teatro alla Scala di Milano, della Didone – terza delle opere di Cavalli, appunto – per la cui compiuta analisi si rimanda alla recensione che seguirà allo spettacolo (programmato per il 20 e il 22 di questo mese). Non è certo mia intenzione quella di contestare le scelte della sovrintendenza, liberissima di rivolgersi ad ogni piega del repertorio operistico, tuttavia mi permetto di rilevare tutte le perplessità già esposte (relative a spazi, esecuzione e fruizione), che verranno rese esplicite durante le prossime rappresentazioni. La Scala è teatro di una certa ampiezza, costruito nel XVIII secolo e per il genere di spettacolo sviluppatosi in quel periodo (cioè l’opera come noi la conosciamo, pur con tutte le evoluzioni successive). Gli organici ridotti, le sonorità scarne, gli strumenti originali e le voci poco proiettate, dell’ensemble di specialisti scritturato per l’esecuzione (in realtà in tournée dalla Fenice di Venezia), mostreranno tutta la loro inadeguatezza (a meno di improbabili e assai poco filologici rimpolpi d’organico). Già in passato ho assistito a lavori di Monteverdi, Marco da Gagliano e Peri, in teatri tradizionali (assai più piccoli e raccolti, come il Ponchielli di Cremona) e, a meno di trovarsi nelle prime file di platea o nei palchi appena sopra l’orchestra, la percezione musicale era abbastanza ridotta. Non voglio poi aprire il capitolo relativo all’affluenza di pubblico per un titolo di questo genere (privo di grandi attrattive musicali e di cast, e che si allestisce addirittura in forma scenica, con i relativi aggravi di costi e spese): sarebbe troppo facile constatare lo spreco di risorse (senza alcuna certezza di ritorno economico) nell’ambito di una stagione fatta di titoli risicati, poche repliche (e che spesso saltano a causa di scioperi – peraltro già annuncitati nel corso di tutta la stagione prossima ventura) e, cosa che è più grave, pochissime idee.Cavalli – Donzelle fuggite – Edmond Clément
Innanzitutto ringrazio per i commenti (e per l’attenzione dimostrata) poichè mi permettono di fare alcune considerazioni.
1) Innanzitutto voglio sgomberare il campo da un equivoco, generato dalla necessità di contenere l’intervento entro uno spazio accettabile (circostanza che non permette, a volte, di esprimere compiutamente ed in modo esauastivo il proprio pensiero): non voglio assolutamente contestare la scelta di rappresentare Cavalli. Tutt’altro. Cavalli ha svolto un ruolo importantissimo nel momento di passaggio tra recitar cantando e opera seria. La sua conoscenza è devorosa e i soldi spesi per celebrarlo non saranno mai sprecati. Il punto è il modo: non sarebbe forse meglio dedicare a questa particolarissima musica spazi più adatti, piuttosto che inserire due date nelle pieghe ultime della stagione in un periodo morto? E poi gli spazi. L’esecuzione. I problemi testuali.
Concordo sull’inadeguatezza di rappresentare un certo repertorio nei teatri nati per o adattati all’opera dell’Ottocento, ma d’altra parte in quali spazi si può promuovere questo repertorio? In chiesa “apriti cielo”, se non è sacro non si può; di teatri del Seicento è rimasto ben poco di fruibile; di sale palatine… forse, ma si usano (per qualche motivo oscuro) per lo più per le registrazioni; a questo punto, visto che è doveroso che nomi del calibro di Cavalli non restino nell’oblio di cui qui si scrive, le fondazioni liriche e i teatri di tradizione hanno l’imperativo morale di portare avanti una delle loro missioni: diffondere e tutelare il patrimonio culturale-musicale. Diventa perciò un problema secondario quello dello spazio inadeguato (e poi anche la nostra sensibilità percettiva è diversa da quella del Seicento, quindi certi paragoni lasciano il tempo che trovano… non possiamo ricreare in noi sensazioni seicentesche, settecentesche e, con Vostra buona pace, neanche ottocentesche); del tutto ininfluente è invece il discorso relativo ai costi e alle spese: il teatro non ha come scopo far soldi, concludere bilanci in attivo ecc., nonostante molti li intendano oggi come aziende alla pari della mediaset e co… se per non far sparire il nome di Cavalli dalla memoria della cultura europea si devono spendere fior di quattrini, saranno comunque soldi ben spesi; se i bilanci sono passivi Amen, se sono in pareggio… meglio; ma un sovrintendente che conclude un bilancio in attivo non ha portato a termine il suo compito: cioè sfruttare appieno le risorse per raggiungere gli scopi dell’istituzione di cui è responsabile.
Un’ultima cosa: ma se Cavalli non è Barocco… allora chi lo è? Forse per Barocco intendete Scarlatti o Vivaldi o Bach o Handel e così via? Non è una polemica, perché ci sono davvero diverse scuole di pensiero (io stesso ancora non sono ben sicuro per quale propendere) che dilatano o restringono l’ambito di questa denominazione. Volevo solo sapere la Vostra posizione, per capire meglio quanto scrivete.
Grazie per l’interessante digressione seicentesca.
Alcune considerazioni:E´ vero che certe opere escono male nell´esecuzione in spazi teatrali di grande dimensione.Pensate solo all´Orfeo di Monteverdi,concepito per essere suonato nel salone di un palazzo.In questo caso,la Scala paga la decisione stupida,presa anni fa,di aver demolito la Piccola Scala,che era stata pensata proprio per spettacoli del genere.Poi,a riprova delle giustezza del vostro discorso,secondo il quale certe “feste teatrali” non reggono all´ascolto concentrato al quale oggi siamo abituati,basterebbe citare l´esecuzione de “L´Europa riconosciuta” datasi alla Scala nel 2004.Vi ricordate che mattone si é rivelato?
Sul discorso del repertorio,credo che a volte certe scelte siano un obbligo dettato dalle circostanze.Le voci adatte per certe opere stanno sparendo o non esistono proprio piú,e quindi si va in cerca di cose del genere,oltretutto garantendosi dal rischio del fiasco perché il pubblico in gran parte ha scarsa conoscenza di questo repertorio e non possiede la competenza per emettere giudizi di merito.
Ciao
Dimenticavo: il barocco esprime la meraviglia non solo attraverso la voce, ma anche attraverso gli strumenti. Le partiture di Cavalli sono per lo più prive di strumentazione essendo segnato il solo basso numerato. Pare poi, da ricerche musicologiche affidabili, che all’epoca le “orchestre” non superassero i 12 atrumentisti…
Veramente il recitar cantando è proprio il frutto dell’estetica barocca, così come la polifonia madrigalistica di quella rinascimentale. E poi l’importanza dell’alternanza di elementi diversi, così evidente in Cavalli, è altra espressione tipica del Barocco. Infine sulla strumentazione siamo più prossimi alle congetture che alle certezze, e il fatto che le partiture siano solo delle sintesi non vuol dire che non potessero realizzarsi strumentazioni più ricche ove possibile; la partitura del Seicento (e a volte anche del Settecento), come saprà bene, è un oggetto d’uso estremamente funzionale e duttile.
Trovo molto barocco anche il tipo di spettacolo veneziano del XVII sec., tutto fatto di marchingegni scenici e popolato di personaggi mitici o eroici che destano certamente la meraviglia di cui parlate appropriatamente. Se nel Settecento prevale la meraviglia vocale è perchè ci si era un po’ assuefatti a quella dei soggetti, delle scene, della varietà a tutti i costi, così come nell’Ottocento, stanchi della meraviglia vocale, ci si emoziona di fronte all’impeto e al fragore e come oggi stanchi della sola musica si rimanga (purtroppo) più affascinati da personaggi di bell’aspetto, quasi divi del cinema. In fondo, pur cambiando le sue modalità, il teatro d’opera resta sempre il luogo della meraviglia… e questa è la grande vittoria dell’estetica barocca sul tempo…
E Cavalli non è poi così minore come lo si presenta spesso…
P.S. Io vivo a Palermo e i luoghi per festival barocchi ci sarebbero: fino a qualche anno fa c’era lo splendido Festival Scarlatti, che sfruttava sia il Teatro Massimo per le opere, sia luoghi più raccolti e opportuni per la musica sacra e concertistica; i luoghi più adatti sarebbero il Teatro Bellini, ex Teatro Carolino, ex Teatro S. Lucia, ora adibito a pochi spettacoli di prosa e circondato da una pizzeria, e il Teatro S. Cecilia, primo teatro di Palermo, oggi abbandonato quale magazzino. Sarebbe un sogno riesumare questo Festival e allestire gli spettacoli in questi luoghi, ma…
Ho premesso che non credo molto nelle classificazioni, tuttavia ritengo che Cavalli si possa collocare in un periodo di passaggio, tra barocco e pre barocco. Penso poi che il recitar cantando abbia preparato l’avvento dell’opera barocca, ma converrete con me che le premesse estetiche sono quasi opposte: nell’opera seria vi è la centralità del canto e dei suoi virtuosismi in una struttura rigidamente separata (recitativo, ove l’azione si sviluppa – aria, ove non c’è azione); nel recitar cantando al centro vi è la parola (seppur cantata), nella prospettiva – che discende dal rinascimento e dall’umanesimo – di far rinascere la tragedia greca: e questo si riflette nella struttura che tendenzialmente non distingue tra recitativo e cantabile. Due generi dunque, secondo me, differenti con punti comuni certo.
E se, come scrisse il grande musicologo Manfred Bukofzer “la musica barocca non esiste”? Intendendo naturalmente che non si può racchiudere entro un rigido schema un universo così vario come la musica tra ‘600 e ‘700, fatta di 1000 aspetti e sfaccettature…
Ps: vedo però, che al di là del merito classificatorio tutti conveniamo sul fatto che tale musica (barocca o pre barocca che sia) necessiti di spazi diversi e più adeguati…
…………..la Piccola Scala era uno spazio adeguatissimo a suo tempo. Oggi è un adeguato…deposito!…che avrebbe potuto essere contemplato nelle faraoniche ristrutturazioni recenti, non vi pare?
La Piccola Scala sarebbe stato sì uno spazio adeguato (e in effetti venne a lungo utilizzato a tale scopo, quando in Scala si allestiva Haendel, Cimarosa, lo stesso Monteverdi – quello con la regia di Ponnelle – purtroppo non ho fatto in tempo a fruirne), poi venne trasformato in deposito.
Purtroppo, però, oggi non è più nemmeno un deposito (almeno sarebbe stato recuperabile), poichè negli sciagurati lavori di ristrutturazione del 2000/04 venne del tutto demolito e distrutto per inglobarlo nel faraonico (e inutile) palcoscenico. La cosa curiosa è che hanno fatto un palco enorme per produrre spettacoli come l’ultimo Don Giovanni con scena vuota, 2 cubi e una vespa… Complimenti alla’amministrazione milanese…
Tante chiacchiere sul niente: lo spettacolo della DIDONE di Cavalli visto alla Scala è stato molto bello, avvincente e affascinate. L’ultima Adriana data al Piermarini invece, pur con un “gran nome” come protagonista, era una noia mortale e uno spettacolo “fanè”. La Favorite di Bergamo, benchè in edizione originale, una roba dilettantesca. E chi parla di Piccola Sacla (proprio perchè non ci ha mai messo piede) non sa che cosa fosse l’acustica orrenda. Si sentivano le voci giusto perchè era…Piccola. E poi ci si stupisce che a cantare (male) Monteverdi e Cavalli siano gli stranieri! Certo che il pubblico in gran parte ha scarsa conoscenza di questo repertorio, ma nel momento in cui lo si propone ci si imbatte in diatribe di questo tipo…
Alla resa dei fatti un bla-bla sterile, il vostro: magari avessimo ancora altre proposte di questo livello di intelligenza!
Ad maiora! per tutte le opere barocche, pseudo-barocche, pre-barocche e che dir si voglia…
Caro Rubini,
non vedo che c’entri l’Adriana ( vuol dirci che siamo dei melomani ignoranti amanti della musica incolta??? prego, lo dica pure !!!), o la Favorite, che mi pare abbiamo stroncato con chiarezza ( non è chiaro o non ha letto??).
La Piccola Scala aveva una buona acustica: lei è il primo che se ne lamenta. Non sarà forse perchè là dentro chiunque lei abbia mai sentito cantava un filo meglio dei baroccari odierni….??? Non so…
Forse Duprez voleva stigmatizzare l’atteggiamento moderno verso ogni genere di barocco o pseudobarocco che il pubblico par disposto a digerire con una gioja che talora sfiora…la moda?! Perchè non si può non ammettere che oggi fa “culturale”, “intellettuale” mostrar di apprezzare anche prodotti seriali, o di terza scelta perchè questa è la new wave, e mostrar disprezzo verso parte di quello che un tempo fu il repertorio popolare.
Non mi permetto alcun giudizio su Cavalli, e la sua Didone, anzi. Ben vengano riprese di ogni genere, anche per concludere, magari, che era musica di terza scelta.Però non posso non notare una certa “esterofilia” implicita quando lei afferma che non ci si stupisce che siano gli stranieri a cantare questo repertorio. E questa non la condivido, e credo gli altri autori del blog con me: mai come in questo momento dall’estero è arrivata tanta sottocultura presuntuosa, malcanto, senso greve del teatro, noia incartata con la filologiacome adesso e da non poterne più. E la Scala mai come ora mi è parsa un protettorato straniero.
Mi spiace, ma continuo a pensare che non sia esistito mai nulla di meglio della tradizione italiana del canto lirico, del nostro gusto e della nostra tecnica di canto. Perchè anche i grandi virtuosi barocchi, quelli con la V maiuscola, hanno sempre dichiarato di ispirarsi a noi.
Avrei comunque molto da dire anche su un allestimento mnimalista in Cavalli….
saluti
carissimo rubini,
alla piccola scala vi ho messo piede più volte ed anche orecchio.
L’acustica non era affatto pessima e non credo per le dimensioni dello spazio.
Quanto alla Didone di Cavalli non posso che dissentire e non perchè la Lecouvreur di Daniela Dessy fosse bella o perchè alla fine la Favorite bergamasca era dilettantesca tanto quanto la più parte degli allestimenti scaligeri, che solo batage pubblicitario ad hoc fanno vedere belli e di rilevanza.
Certe chicche tipo le ombre che blocano Creusa nella fuga, che sembrano vestiti come i famosi Gufi ( forse non sei abbastanza in età per sapere chi fossero), i vestiti che sono il trionfo del trovarobato da recita dell’oratorio, oltre che l’elisione per tutta quella parte dello spettacolo che destava la meraviglia del pubblico ossia enchiclemata, il continuo andare e venire fra terricoli e celicoli (dove una di queste era vestita da mantenuta di seconda scelta del regime e aveva tale cognizione del personaggio da lasciarsi andare a moine e mossette che con la regina e madre degli dei non azzeccano) mal si conciliano con realizzazioni brechtiane.
non capire questo e blaterare sul nostro bla bla (sai il famoso non vedere il trave nel proprio occhio per vedere la pagliuzza nell’altrui) mi fondano il dubbio che per certo non ti se interrogato sulla poetica e sull’estetica, che stanno alla base dell’opera veneziana fra cavalli e pollarolo.
scusa ma un povero contadino bergamasco quale domenico donzelli, con estetica e poetica ha rapporti difficili, ma qualche conversazione con il Maestro Rossini l’ha fatta pure lui.
ciao Domenico
Caro Rubini, scrivere che "lo spettacolo della DIDONE di Cavalli visto alla Scala è stato molto bello, avvincente e affascinate" equivale, per mio conto, a scrivere nulla. Non perchè mi senta in qualche modo "offeso" dal tuo gusto, quanto perchè nelle categorie del "bello", "avvincente" e "affascinante" può entrarci tutto ed il suo contrario. Naturalmente diverso (e utile ad una qualche discussione) sarebbe stato scrivere il perchè. Ma mi rendo conto quanto sia più comodo non motivare i giudizi. Se tu lasciassi perdere slogan e parole d'ordine alla moda (che fanno la fortuna del barocco dei baroccari) e ti degnassi di spiegare in cosa ritieni la Didone di Cavalli opera straordinaria e dove, lo spettacolo scaligero (indegno), sia stato affascinante, sarebbe tutto molto più semplice. Temo però che dovrò aspettare alungo per un tuo riscontro.
Sul Monteverdi eseguito da stranieri non mi dilungo: è pessimo e basta. Strano che un amante della filologia baroccara come dimostri di essere non si renda conto dell'importanza della dizione e della padronanza della prosodia italiana per il recitar cantando (dove la comprensione e la resa drammatica del testo è fondamentale), strano che ci si curi sino alla spasmo della corda di budello o del puntale dei celli, mentre non ci si accorge dello scempio linguistico dei cantanti. Ma dimentico che di questo l'industria baroccara e i suoi fedeli clienti, non si cura…in fondo il denaro nelle casse di costoro non ha pronuncia intelleggibile…
Per chiarire, caro Rubini, adoro Monteverdi, ma eseguito come Biondi & C. hanno trattato Cavalli, me lo renderebbe intollerabile…
Poi il pubblico vada avanti ad applaudire (ha pagato il suo costoso biglietto e la sala del Piermarini è così bella e poi si incontra tanta gente intelliggggggente a questi spettacoli e poi vuoi mettere che bella figura il giorno dopo nei cenacoli più chic o nelle aule universitarie più radical…), ma non si pretenda di scambiare quella "roba" per musica… Sarebbe un'indecenza
La Trimurti ha sentenziato: inani conversari…
Perle: a)…”Mi spiace, ma continuo a pensare che non sia esistito mai nulla di meglio della tradizione italiana del canto lirico, del nostro gusto e della nostra tecnica di canto. Perchè anche i grandi virtuosi barocchi, quelli con la V maiuscola, hanno sempre dichiarato di ispirarsi a noi…” (Lapalisse docet!!!!)
b)…E la Scala mai come ora mi è parsa un protettorato straniero… (La Didone era un’ospitalità della Fenice, limitiamoci a DIDONE)
c)…sembrano vestiti come i famosi Gufi ( forse non sei abbastanza in età per sapere chi fossero)…(Aspettavo Lei per sentirmelo dire, visto che dall’aldilà vede tutto…)
d)…scusa ma un povero contadino bergamasco quale domenico donzelli, con estetica e poetica ha rapporti difficili…(Ogni opinione è degna di rispetto!)
e)…Sul Monteverdi eseguito da stranieri non mi dilungo: è pessimo e basta…(E chi ha mai sostenuto il contrario? Solo che gli italiani si “schifano” di eseguirlo e quando lo fanno nessuno va ad ascoltarli o si dice che non cantano come si dovrebbe e lo lascimao in mano agli stranieri…)
f)…Poi il pubblico vada avanti ad applaudire (ha pagato il suo costoso biglietto e la sala del Piermarini è così bella e poi si incontra tanta gente intelliggggggente a questi spettacoli e poi vuoi mettere che bella figura il giorno dopo nei cenacoli più chic o nelle aule universitarie più radical…): (…ma che c’entrano questi discosi demagogici???? Io vado a teatro per sentire musica e BASTA.Il resto sono solo discorsi vacui…)
g)…(dove una di queste era vestita da mantenuta di seconda scelta del regime e aveva tale cognizione del personaggio da lasciarsi andare a moine e mossette che con la regina e madre degli dei non azzeccano) mal si conciliano con realizzazioni brechtiane…(qualcun altro ci ha visto BURRI, quindi tutto e il contrario di tutto…)
h)…il dubbio che per certo non ti se interrogato sulla poetica e sull’estetica, che stanno alla base dell’opera veneziana fra cavalli e pollarolo…(Per favore il Pollarolo no! e poi avete il coraggio di scrivere: verrebbe da dire: Cavalli! Chi era costui? Domanda lecita, poichè al di là della citazione del nome nei salotti più à la page della lirica o nei cenacoli più squisiti di intellettuali et similia (ma che non testimoniano certo una reale e diffusa conoscenza), credo che la figura artistica del nostro sia perfettamente sovrapponibile alla fama di un qualsiasi Carneade, il cui nome si incontra scorrendo per caso l’elenco dei personaggi notevoli della sua epoca!
e, dulcis in fundo:
… Non mi permetto alcun giudizio su Cavalli, e la sua Didone, anzi. Ben vengano riprese di ogni genere, anche per concludere, magari, che era musica di terza scelta… (ah, ecco dove stà l’odio!)
Assez, mi arrendo…
Caro Rubini…la rete è piena di spazi ove poter sfogare le proprie frustrazioni, le proprie rabbie represse o anche le opinioni più bizzarre e confuse (fatico a trovare un filo logico in ciò che ha scritto qui). Se vuole le do l’indirizzo web di alcuni siti dove potrà scrivere per righe e righe e righe senza dir nulla, e dove troverà colleghi che per puro spirito di contraddizione vanno sostenendo le astruserie più astruse. Come lei disprezzano alquanto la vocalità all’italiana, come lei vanno in sollucchero con strumenti antichi et similia, come lei snobbano la provincia italica, come lei cercano nell’opera ogni cosa possibile fuorchè il canto, la voce e il suono, e come lei, infine, non lesinano in insulti e offese nei confronti di tutti coloro che hanno convinzioni diverse dalle loro. La invito dunque a rivolgere le vele verso quei lidi a lei più ridenti, visto che mal sopporta l’aria che si respira qui. Non la rimpiangeremo di certo.
Ps: un altro commento di questa natura non verrà più pubblicato. Lei può dire tutto quel che vuole, tranne insultare o irridere. Se vuole proseguire a intervenire qui sopra, si faccia un robusto ripasso di buone maniere, educazione e civiltà. Lei qui è ospite, e come tale è pregato di comportarsi decentemente. Altrimenti può accomodarsi alla porta. Ripeto, non la rimpiangerà nessuno.