E’ risaputo che Rossini fosse poco soddisfatto del suo Sigismondo. Celebre l’aneddoto che vede il compositore invitare al fischio un pubblico fin troppo indulgente con questa sua fatica seria, l’ultima in ordine cronologico prima dei trionfi napoletani. Eppure, Sigismondo, composto per il medesimo duo protagonistico del Ciro in Babilonia (il soprano Elisabetta Manfredini Guarmani e il contralto Maria Marcolini), è un’opera che non merita, di per sé, fischi e tanto meno merita il disinteresse assoluto di cui l’hanno finora onorata studiosi (manca la versione critica e non ci sono all’orizzonte progetti in tal senso) ed esecutori (appena due edizioni discografiche). Certo, come tutti i titoli seri del primo Ottocento (e in particolare quelli rossiniani), Sigismondo necessita di esecutori esperti e attenti, anche se non necessariamente virtuosi di prima sfera. E questo vale, a maggior ragione, per il direttore d’orchestra.
Già, perché la Sinfonia, in parte derivata da quella del Turco in Italia e che Rossini riutilizzerà per aprire l’Otello, è tutt’altro che una passeggiata per il concertatore, specie nella stretta conclusiva, come ci hanno dimostrato recenti esecuzioni della medesima. Altra difficoltà che non sempre – o meglio: assai di rado – i moderni battisolfa colgono è il carattere di questa musica, che, seppur brillante, non può suonare come un’allegra fanfara da banda di paese. Si consideri, a questo proposito, che i temi della Sinfonia ritorneranno nel corso dell’opera a segnare alcuni punti cruciali.
Fin dall’introduzione emerge con forza il personaggio di Ladislao, il “villain” della situazione: il primo interprete, Claudio Bonoldi, aveva preso parte alla prima della Pietra del Paragone e sarebbe stato, in seguito, il primo Contareno nel Bianca e Falliero. Nel quadro di un’Introduzione corale di carattere arcadico, non dissimile in questo da quella di Tancredi, si staglia il primo dei tre assoli del tenore, regolarmente bipartito. La parte è marcatamente centrale, ma arricchita da ampi balzi che comunicano l’instabilità e la paranoia del personaggio, oppresso quanto il Re dal fantasma della Regina ritenuta defunta. La cabaletta, “Della pace il bel sereno”, esaspera il virtuosismo già presente nel cantabile: da notare che il motivo è composto da un’idea che tornerà nell’aria di Norfolk nell’Elisabetta (“Non ha cuore chi non sente”) e da una reminiscenza dell’aria di Fanny dalla Cambiale di matrimonio (“Ah nel sen di chi s’adora”).
Re Sigismondo entra con una Scena di pazzia prossima al declamato e punteggiata dagli interventi dell’oboe solista, trovando solo nella cabaletta “Voce che tenera” (motivo derivato da un’aria alternativa per Tancredi) fioriture minimamente consistenti. La parte, ancora una volta gravitante sul centro della voce, si presta assai a “rinforzi” atti ad aumentarne l’interesse, in primis per una primadonna che sia tale non solo di nome. Rossini si prende la rivincita con la sortita di Aldimira, che riporta al clima idilliaco dell’introduzione con una grande scena bipartita, punteggiata dagli interventi dei fiati. E’ questa la prima pagina dell’opera in cui si manifesti compiutamente il genio rossiniano, con un ritratto di donna offesa e ancora innamorata, parente stretta (non solo vocalmente) di Amenaide e Isabella dell’Inganno felice.
Dopo un Coro di cacciatori che tornerà nella Cenerentola a commentare l’esame da “cantiniero” di Don Magnifico, è la volta del secondo assolo del tenore, che dopo un recitativo scortato da archi agitatissimi e un cantabile assai poco cantabile si concede una cabaletta fitta di trilli e quartine da sgranarsi rigorosamente di forza, onde esprimere il turbamento estremo del vassallo infedele alla vista della rediviva Aldimira. Dopo un duettino fra soprano e contralto che tornerà, rielaborato, nel “Soave non so che” della Cenerentola e l’aria (alquanto sorbettosa) del basso Zenovito, è la volta del duetto fra soprano e tenore, ben più elaborato di quello destinato ai due coniugi, a ribadire la centralità del personaggio tenorile, in un’opera in cui al contralto compete un ruolo piuttosto statico anche dal punto di vista vocale. Fra l’altro il duetto include uno dei più celebri crescendo di Rossini, destinato a scortare Desdemona alla tomba e Don Basilio nella descrizione degli effetti della maldicenza. Compete ovviamente al direttore il differenziare con opportune scelte ritmiche e coloristiche i differenti momenti drammatici cui la musica, supremamente “assoluta”, si riferisce. Come osserva Stendhal parlando della Sinfonia “in comune” fra Aureliano, Elisabetta e Barbiere: “Il minimo cambiamento di tempo basta spesso a dare all’aria più gaia l’accento della più profonda malinconia”.
Altra gemma è il lungo finale primo, in cui finalmente Sigismondo ha modo di esibirsi in un cantabile spiegato e in cui si riascolta, opportunamente modificato, il sublime concertato “Ah che il cor non m’ingannava” del Turco in Italia. Il crescendo ripreso dalla Sinfonia guida alla conclusione dell’atto.
Un coro di cortigiani, destinato a essere ripreso per le viuzze di Siviglia all’alba, apre il secondo atto, finendo per inglobare la voce di Aldimira con un effetto che ricorda quello di Tancredi portato in trionfo dai cavalieri siracusani. Segue, finalmente, un duetto in grande stile (ancora una volta il modello è Tancredi) per i due sposi, una pagina di solido mestiere in cui domina un equilibrato dosaggio dei toni eroici e di quelli patetici.
L’aria della seconda donna, peraltro nient’affatto banale e finemente strumentata, soffre un po’ della prossimità con il terzo assolo del tenore, preceduto da un recitativo accompagnato che conferisce al brano una grande solennità. Il cantabile assegna un ruolo di spicco all’oboe solista, mentre la cabaletta passerà, testo e musica, nell’Elisabetta, trasformandosi nella seconda parte dell’aria di Matilde. A ulteriore conferma del fatto che la musica rossiniana esprime, se è lecito utilizzare questo abusatissimo termine, prima di tutto un affetto, in questo caso il timore: che a provare questo sentimento sia una principessa in incognito oppure un occulto persecutore, poco, anzi nulla cambia.
La tempra di Elisabetta Manfredini doveva essere molto salda (o almeno così doveva considerarla il compositore, malgrado il malore che aveva funestato la prima di Tancredi), perché dopo l’aria di sortita e svariati duetti, Aldimira ha da affrontare una grande aria con coro che fa pensare alla Zenobia dell’Aureliano e che, se opportunamente affrontata, è il veicolo ideale per mettere in mostra le virtù di una voce di soprano assoluto estesa (almeno) fino al do.
E finalmente, dopo un quartetto finemente elaborato nel cui tempo di mezzo ritorna il secondo tema della Sinfonia, anche Sigismondo ha la sua grande scena, in parte derivata dall’Aureliano in Palmira. La cabaletta, di grande effetto, ritornerà in coda all’aria aggiunta al Barbiere per Joséphine Fodor-Mainvielle. Strategicamente collocato alla fine dell’opera, il brano permette all’interprete (non certo provata da una parte né disumana né interminabile) di dare il meglio di sè nelle variazioni della ripresa, guadagnandosi abbastanza facilmente gli applausi del pubblico, prima del finaletto in forma di couplet che un po’ troppo banalmente conclude lo sconclusionato dramma di Giuseppe Foppa.
Opera “da crociera” per il contralto (poco contraltile e piuttosto mezzosopranile, per la verità), più impegnativa per il soprano (ma oggi come oggi è più facile trovare un bravo soprano assoluto piuttosto che un soprano Colbran o un vero contralto profondo), veramente ardua solo per il tenore (ma nulla vieta di tagliare una delle tre arie), il Sigismondo meriterebbe decisamente una maggiore considerazione da parte dei nostri teatri. Certo, a patto di avere un direttore esperto di Belcanto almeno la metà di Richard Bonynge, artefice e vero protagonista dell’allestimento dell’Opera Giocosa (1992 – 2 CD Bongiovanni GB 2131/2-2) di questo negletto titolo rossiniano.
Già, perché la Sinfonia, in parte derivata da quella del Turco in Italia e che Rossini riutilizzerà per aprire l’Otello, è tutt’altro che una passeggiata per il concertatore, specie nella stretta conclusiva, come ci hanno dimostrato recenti esecuzioni della medesima. Altra difficoltà che non sempre – o meglio: assai di rado – i moderni battisolfa colgono è il carattere di questa musica, che, seppur brillante, non può suonare come un’allegra fanfara da banda di paese. Si consideri, a questo proposito, che i temi della Sinfonia ritorneranno nel corso dell’opera a segnare alcuni punti cruciali.
Fin dall’introduzione emerge con forza il personaggio di Ladislao, il “villain” della situazione: il primo interprete, Claudio Bonoldi, aveva preso parte alla prima della Pietra del Paragone e sarebbe stato, in seguito, il primo Contareno nel Bianca e Falliero. Nel quadro di un’Introduzione corale di carattere arcadico, non dissimile in questo da quella di Tancredi, si staglia il primo dei tre assoli del tenore, regolarmente bipartito. La parte è marcatamente centrale, ma arricchita da ampi balzi che comunicano l’instabilità e la paranoia del personaggio, oppresso quanto il Re dal fantasma della Regina ritenuta defunta. La cabaletta, “Della pace il bel sereno”, esaspera il virtuosismo già presente nel cantabile: da notare che il motivo è composto da un’idea che tornerà nell’aria di Norfolk nell’Elisabetta (“Non ha cuore chi non sente”) e da una reminiscenza dell’aria di Fanny dalla Cambiale di matrimonio (“Ah nel sen di chi s’adora”).
Re Sigismondo entra con una Scena di pazzia prossima al declamato e punteggiata dagli interventi dell’oboe solista, trovando solo nella cabaletta “Voce che tenera” (motivo derivato da un’aria alternativa per Tancredi) fioriture minimamente consistenti. La parte, ancora una volta gravitante sul centro della voce, si presta assai a “rinforzi” atti ad aumentarne l’interesse, in primis per una primadonna che sia tale non solo di nome. Rossini si prende la rivincita con la sortita di Aldimira, che riporta al clima idilliaco dell’introduzione con una grande scena bipartita, punteggiata dagli interventi dei fiati. E’ questa la prima pagina dell’opera in cui si manifesti compiutamente il genio rossiniano, con un ritratto di donna offesa e ancora innamorata, parente stretta (non solo vocalmente) di Amenaide e Isabella dell’Inganno felice.
Dopo un Coro di cacciatori che tornerà nella Cenerentola a commentare l’esame da “cantiniero” di Don Magnifico, è la volta del secondo assolo del tenore, che dopo un recitativo scortato da archi agitatissimi e un cantabile assai poco cantabile si concede una cabaletta fitta di trilli e quartine da sgranarsi rigorosamente di forza, onde esprimere il turbamento estremo del vassallo infedele alla vista della rediviva Aldimira. Dopo un duettino fra soprano e contralto che tornerà, rielaborato, nel “Soave non so che” della Cenerentola e l’aria (alquanto sorbettosa) del basso Zenovito, è la volta del duetto fra soprano e tenore, ben più elaborato di quello destinato ai due coniugi, a ribadire la centralità del personaggio tenorile, in un’opera in cui al contralto compete un ruolo piuttosto statico anche dal punto di vista vocale. Fra l’altro il duetto include uno dei più celebri crescendo di Rossini, destinato a scortare Desdemona alla tomba e Don Basilio nella descrizione degli effetti della maldicenza. Compete ovviamente al direttore il differenziare con opportune scelte ritmiche e coloristiche i differenti momenti drammatici cui la musica, supremamente “assoluta”, si riferisce. Come osserva Stendhal parlando della Sinfonia “in comune” fra Aureliano, Elisabetta e Barbiere: “Il minimo cambiamento di tempo basta spesso a dare all’aria più gaia l’accento della più profonda malinconia”.
Altra gemma è il lungo finale primo, in cui finalmente Sigismondo ha modo di esibirsi in un cantabile spiegato e in cui si riascolta, opportunamente modificato, il sublime concertato “Ah che il cor non m’ingannava” del Turco in Italia. Il crescendo ripreso dalla Sinfonia guida alla conclusione dell’atto.
Un coro di cortigiani, destinato a essere ripreso per le viuzze di Siviglia all’alba, apre il secondo atto, finendo per inglobare la voce di Aldimira con un effetto che ricorda quello di Tancredi portato in trionfo dai cavalieri siracusani. Segue, finalmente, un duetto in grande stile (ancora una volta il modello è Tancredi) per i due sposi, una pagina di solido mestiere in cui domina un equilibrato dosaggio dei toni eroici e di quelli patetici.
L’aria della seconda donna, peraltro nient’affatto banale e finemente strumentata, soffre un po’ della prossimità con il terzo assolo del tenore, preceduto da un recitativo accompagnato che conferisce al brano una grande solennità. Il cantabile assegna un ruolo di spicco all’oboe solista, mentre la cabaletta passerà, testo e musica, nell’Elisabetta, trasformandosi nella seconda parte dell’aria di Matilde. A ulteriore conferma del fatto che la musica rossiniana esprime, se è lecito utilizzare questo abusatissimo termine, prima di tutto un affetto, in questo caso il timore: che a provare questo sentimento sia una principessa in incognito oppure un occulto persecutore, poco, anzi nulla cambia.
La tempra di Elisabetta Manfredini doveva essere molto salda (o almeno così doveva considerarla il compositore, malgrado il malore che aveva funestato la prima di Tancredi), perché dopo l’aria di sortita e svariati duetti, Aldimira ha da affrontare una grande aria con coro che fa pensare alla Zenobia dell’Aureliano e che, se opportunamente affrontata, è il veicolo ideale per mettere in mostra le virtù di una voce di soprano assoluto estesa (almeno) fino al do.
E finalmente, dopo un quartetto finemente elaborato nel cui tempo di mezzo ritorna il secondo tema della Sinfonia, anche Sigismondo ha la sua grande scena, in parte derivata dall’Aureliano in Palmira. La cabaletta, di grande effetto, ritornerà in coda all’aria aggiunta al Barbiere per Joséphine Fodor-Mainvielle. Strategicamente collocato alla fine dell’opera, il brano permette all’interprete (non certo provata da una parte né disumana né interminabile) di dare il meglio di sè nelle variazioni della ripresa, guadagnandosi abbastanza facilmente gli applausi del pubblico, prima del finaletto in forma di couplet che un po’ troppo banalmente conclude lo sconclusionato dramma di Giuseppe Foppa.
Opera “da crociera” per il contralto (poco contraltile e piuttosto mezzosopranile, per la verità), più impegnativa per il soprano (ma oggi come oggi è più facile trovare un bravo soprano assoluto piuttosto che un soprano Colbran o un vero contralto profondo), veramente ardua solo per il tenore (ma nulla vieta di tagliare una delle tre arie), il Sigismondo meriterebbe decisamente una maggiore considerazione da parte dei nostri teatri. Certo, a patto di avere un direttore esperto di Belcanto almeno la metà di Richard Bonynge, artefice e vero protagonista dell’allestimento dell’Opera Giocosa (1992 – 2 CD Bongiovanni GB 2131/2-2) di questo negletto titolo rossiniano.
Spera, o Sommo Antonio, spera… hai visto mai…
Cara mia… ‘na parola!!!
Deduco tu non abbia visto il pre-programma del ROF XXX edizione. Per quanto riguarda direttore ed esecutori non si sa niente, ma il Sigismondo ci sarà, regia di Damiano Micheletto.
Direttore ed esecutori si fa più fatica a trovarli del regista, è evidente… ma in fondo, qual è l’elemento centrale per allestire un’opera? Certo non i cantanti o il direttore! 😉
Eh, ma che pignolo… ^^