Attualmente a Pesaro sono di turno le repliche dei titoli operistici , i concerti di canto ( fungono da prova per i futuri cantanti per le future produzioni operistiche di Pesaro?) oltre agli immancabili Stabat Mater e Viaggio a Reims dei giovani. Come se, tanto per principiare le polemiche, un titolo, scritto e pensato per le stelle del des Italiens, possa essere affidato a principianti in via di formazione. Comportamento e scelta, però, connotante queste ultime edizioni del Festival, che hanno visto perigliosi ed incerti debuttanti in ruoli di assoluta difficoltà.
Le critiche, rivolte al Festival, dalla critica ufficiale piuttosto che sui fori, precipuamente di lingua francese o spagnola, non sono stati affatto lusinghieri. Anzi. E con fondamento, aggiungiamo.
Le riflessione riferite al ROF sono le stesse da tempo. Per parte nostra sin dall’inizio o quesi della manifestazione.
Lo scopo, ab origine, anno 1980, era fondato e nobile: proporre sistematicamente tutti i titoli del maestro pesarese, oltre a quelli consueti comici ed ai pochi seri, che intraprendenti direttori artistici ( fra cui il solito Rodolfo Celletti in quel di Martina Franca) o primedonne alle ricerca di mezzi, che ne esaltassero l’arte, proponevano.
Questo primo scopo statutario è stato portato a termine. Abbiamo compreso appieno, o quasi, la genialità di Rossini e che il suo catalogo è fra i più interessanti e di livello nella storia dell’opera.
A sostegno dell’operazione dovevano essere le edizioni critiche del catalogo ed una perfetta o, quanto meno, coerente esecuzione. Vocale in primis. Talvolta l’edizione critica è più differente a realizzarsi e necessaria per titoli di prolungata circolazione come Barbiere, che non per alcuni di limitata o nulla circolazione come Ermione. In altri casi, invece, è inutile e strumentale come quella italiana, riferita più di tutto alla traduzione, del Tell, atteso che la traduzione, che sempre aveva circolato ed era stata rappresentata nei teatri per oltre un secolo era quella voluta ed approvata da Rossini.
E qui, però, con i problemi di congrua rappresentazione, nascono i problemi di corretta e coerente applicazione della filologia.
A lato pratico abbiamo assistito a risistemazioni di spartiti, che sembrano essere la negazione di una coerente rappresentazione della volontà dell’autore, come accadde con la parte di Corinna del Viaggio, scritta per un soprano centrale come la Pasta e adattata per un soprano leggero senza acuti come la Gasdia. Altre volte l’operazione è stata seria e ben realizzata. Ma si trattava di Marilyn Horne nei panni di Falliero.
E questa è stata la prima deviazione del ROF, in nome di quel dovere di “andare in scena, sempre e comunque”. Dovere, che non dimentichiamolo, è proficuo e redditizio.
Perché, poi, oltre ad esecuzioni poco rispettose del dettato vocale o riadattate malamente in assenza (reale o derivata da scelte poco oculate degli esecutori) di interpreti degni, il ROF – ed è l’attualità da più edizioni- è giunto a rinnegare i propri principi e le proprie scelte del recente passato. Da qualche edizione il problema investe ed in maniera preoccupante anche i direttori d’orchestra, inidonei tanto o più dei cantanti.
Sia chiaro il canto rossiniano richiede supreme doti tecniche, mancando le quali non si è né esecutore né interpreti (ed a Rossini piacevano questi), richiede anche studio ed applicazione costante, nessuna o minimale frequentazione di stabilimenti balneari e struscio festivaliero. Inoltre spesso il repertorio rossiniano mal si concilia, per sue caratteristiche vocali in primis e poetiche, poi, con i repertori successivi compresi i finitimi Donizetti e primo Verdi. A conforto che l’opinione non è il delirio di vociomani sia che nell’800 allorchè Giulia Grisi ritornò al des italiens,dopo otto anni di assenza, con il suo titolo, Semiramide, e dopo molte cantanti di altrettanta fama e levatura, la critica osservò che il tempo era passato, ma la vocalizzazione il virtuosismo e la bellezza del suono (ossia i cardini del canto rossiniano) erano intatti.
Il virtuosismo portato all’estremo, l’intervento costante e copioso ogni qual volta il testo musicale lo richieda, la scelta di versioni consone ai cantanti scritturati (perché un Festival per essere tale deve proporre quello che non propongono i teatri come il Tancredi della Pasta, la versione napoletana della Gazza Ladra o la Semiramide trasformata in grand-opéra per le Marchisio) non sono edonismo, vocio mania sono semplicemente mezzi per servire Rossini, come Rossini ed il gusto suo proprio voleva. Non dimentichiamo che Rossini è l’autore che, con risultati drammatici e musicali felicissimi, traslocava interi passi da lavori comici a tragici e viceversa, autorizzava o provvedeva lui stesso ad auto impresti e si prendeva la briga di ritoccare le parti per il cantante di turno o addirittura di ringraziare quello (nel caso Henriette Sontag) che aveva inserito una azzeccata cadenza.
E, al contrario, siccome le disponibilità vocali sono misere e le scelte sono pari, incoerenti, spesso strumentali a ragioni metartistiche abbiamo dovuto sentire la storiella di un Rossini diverso da quello dei grandi rossiniani, meno acrobatico, ma più drammatico ed interpretato, con la presunzioni che queste striminzite esecuzioni siano le autentiche rossiniane.
Scusate, ma sembra di sentire le teorie dei barocchismi o baroccari, che non voglio rendersi conto di quel che si scriveva sui trattati di canto, per il semplice fatto che non sono in grado di cantare con la tecnica di quei cantanti e di quei trattati.
Parlando di un Ciro in Babilonia parigino, sotto l’egida di autentica ispirazione baroccara di Malgoire e dello strazio e dell’antistoricità delle esecuzioni di Cencic abbiamo rilevato che ormai anche per Rossini erano arrivate le esecuzione vandaliche dei baroccari.
Però sopranini corti ed alle prime armi; contralti, ormai alla fine ed anche nel momento di sanità vocale poco preparati tecnicamente e, quindi, scarsamente rossiniani; bassi buffi che scimmiottano per sistema zia Fidalma o madame De l’Haltiere; tenori di mezzo carattere investiti di ruoli tragici, baritenori, che sarebbero tenori lirici ( se sapessero cantare o se non fossero decotti..), e soprattutto il ritenere indispensabile al Festival ed alla sua “rossinianità” un cantante che funzionerebbe nell’Opéra Comique ante Ory; direttori incapaci di condurre in porto l’orchestra ( di mettere mano allo spartito o capire qualcosa di voci non è il caso nemmeno di parlare…); esecuzioni letterali o quasi, con riduzione a zero della meraviglia, del magniloquente, dell’aulico che sono la sigla interpretativa più autentica di Rossini (e del suo periodo storico) sono quanto a vandalismo identiche a quelle dei baroccari che invadano l’Europa.
Sarà la terza generazione dei cantanti rossiniani, ma per noi è la scuola della crisi e del grido e, quindi, non possiamo, per l’amore e la venerazione verso il maestro pesarese, che continuare a ritenere il vero Rossini, confortati anche dagli esegeti a lui contemporanei, quello dei misconosciuti, talora dimenticati, maltrattati Merritt, Blake, Horne, Dupuy, Anderson, Ramey, Cuberli, Matteuzzi e pochi altri.
Le critiche, rivolte al Festival, dalla critica ufficiale piuttosto che sui fori, precipuamente di lingua francese o spagnola, non sono stati affatto lusinghieri. Anzi. E con fondamento, aggiungiamo.
Le riflessione riferite al ROF sono le stesse da tempo. Per parte nostra sin dall’inizio o quesi della manifestazione.
Lo scopo, ab origine, anno 1980, era fondato e nobile: proporre sistematicamente tutti i titoli del maestro pesarese, oltre a quelli consueti comici ed ai pochi seri, che intraprendenti direttori artistici ( fra cui il solito Rodolfo Celletti in quel di Martina Franca) o primedonne alle ricerca di mezzi, che ne esaltassero l’arte, proponevano.
Questo primo scopo statutario è stato portato a termine. Abbiamo compreso appieno, o quasi, la genialità di Rossini e che il suo catalogo è fra i più interessanti e di livello nella storia dell’opera.
A sostegno dell’operazione dovevano essere le edizioni critiche del catalogo ed una perfetta o, quanto meno, coerente esecuzione. Vocale in primis. Talvolta l’edizione critica è più differente a realizzarsi e necessaria per titoli di prolungata circolazione come Barbiere, che non per alcuni di limitata o nulla circolazione come Ermione. In altri casi, invece, è inutile e strumentale come quella italiana, riferita più di tutto alla traduzione, del Tell, atteso che la traduzione, che sempre aveva circolato ed era stata rappresentata nei teatri per oltre un secolo era quella voluta ed approvata da Rossini.
E qui, però, con i problemi di congrua rappresentazione, nascono i problemi di corretta e coerente applicazione della filologia.
A lato pratico abbiamo assistito a risistemazioni di spartiti, che sembrano essere la negazione di una coerente rappresentazione della volontà dell’autore, come accadde con la parte di Corinna del Viaggio, scritta per un soprano centrale come la Pasta e adattata per un soprano leggero senza acuti come la Gasdia. Altre volte l’operazione è stata seria e ben realizzata. Ma si trattava di Marilyn Horne nei panni di Falliero.
E questa è stata la prima deviazione del ROF, in nome di quel dovere di “andare in scena, sempre e comunque”. Dovere, che non dimentichiamolo, è proficuo e redditizio.
Perché, poi, oltre ad esecuzioni poco rispettose del dettato vocale o riadattate malamente in assenza (reale o derivata da scelte poco oculate degli esecutori) di interpreti degni, il ROF – ed è l’attualità da più edizioni- è giunto a rinnegare i propri principi e le proprie scelte del recente passato. Da qualche edizione il problema investe ed in maniera preoccupante anche i direttori d’orchestra, inidonei tanto o più dei cantanti.
Sia chiaro il canto rossiniano richiede supreme doti tecniche, mancando le quali non si è né esecutore né interpreti (ed a Rossini piacevano questi), richiede anche studio ed applicazione costante, nessuna o minimale frequentazione di stabilimenti balneari e struscio festivaliero. Inoltre spesso il repertorio rossiniano mal si concilia, per sue caratteristiche vocali in primis e poetiche, poi, con i repertori successivi compresi i finitimi Donizetti e primo Verdi. A conforto che l’opinione non è il delirio di vociomani sia che nell’800 allorchè Giulia Grisi ritornò al des italiens,dopo otto anni di assenza, con il suo titolo, Semiramide, e dopo molte cantanti di altrettanta fama e levatura, la critica osservò che il tempo era passato, ma la vocalizzazione il virtuosismo e la bellezza del suono (ossia i cardini del canto rossiniano) erano intatti.
Il virtuosismo portato all’estremo, l’intervento costante e copioso ogni qual volta il testo musicale lo richieda, la scelta di versioni consone ai cantanti scritturati (perché un Festival per essere tale deve proporre quello che non propongono i teatri come il Tancredi della Pasta, la versione napoletana della Gazza Ladra o la Semiramide trasformata in grand-opéra per le Marchisio) non sono edonismo, vocio mania sono semplicemente mezzi per servire Rossini, come Rossini ed il gusto suo proprio voleva. Non dimentichiamo che Rossini è l’autore che, con risultati drammatici e musicali felicissimi, traslocava interi passi da lavori comici a tragici e viceversa, autorizzava o provvedeva lui stesso ad auto impresti e si prendeva la briga di ritoccare le parti per il cantante di turno o addirittura di ringraziare quello (nel caso Henriette Sontag) che aveva inserito una azzeccata cadenza.
E, al contrario, siccome le disponibilità vocali sono misere e le scelte sono pari, incoerenti, spesso strumentali a ragioni metartistiche abbiamo dovuto sentire la storiella di un Rossini diverso da quello dei grandi rossiniani, meno acrobatico, ma più drammatico ed interpretato, con la presunzioni che queste striminzite esecuzioni siano le autentiche rossiniane.
Scusate, ma sembra di sentire le teorie dei barocchismi o baroccari, che non voglio rendersi conto di quel che si scriveva sui trattati di canto, per il semplice fatto che non sono in grado di cantare con la tecnica di quei cantanti e di quei trattati.
Parlando di un Ciro in Babilonia parigino, sotto l’egida di autentica ispirazione baroccara di Malgoire e dello strazio e dell’antistoricità delle esecuzioni di Cencic abbiamo rilevato che ormai anche per Rossini erano arrivate le esecuzione vandaliche dei baroccari.
Però sopranini corti ed alle prime armi; contralti, ormai alla fine ed anche nel momento di sanità vocale poco preparati tecnicamente e, quindi, scarsamente rossiniani; bassi buffi che scimmiottano per sistema zia Fidalma o madame De l’Haltiere; tenori di mezzo carattere investiti di ruoli tragici, baritenori, che sarebbero tenori lirici ( se sapessero cantare o se non fossero decotti..), e soprattutto il ritenere indispensabile al Festival ed alla sua “rossinianità” un cantante che funzionerebbe nell’Opéra Comique ante Ory; direttori incapaci di condurre in porto l’orchestra ( di mettere mano allo spartito o capire qualcosa di voci non è il caso nemmeno di parlare…); esecuzioni letterali o quasi, con riduzione a zero della meraviglia, del magniloquente, dell’aulico che sono la sigla interpretativa più autentica di Rossini (e del suo periodo storico) sono quanto a vandalismo identiche a quelle dei baroccari che invadano l’Europa.
Sarà la terza generazione dei cantanti rossiniani, ma per noi è la scuola della crisi e del grido e, quindi, non possiamo, per l’amore e la venerazione verso il maestro pesarese, che continuare a ritenere il vero Rossini, confortati anche dagli esegeti a lui contemporanei, quello dei misconosciuti, talora dimenticati, maltrattati Merritt, Blake, Horne, Dupuy, Anderson, Ramey, Cuberli, Matteuzzi e pochi altri.
Alimento volentieri il blog, anche perché, sul ROF, ho pareri diversi dai vostri. E visto che auspicate un principio di polemica, scrivo….
Mi si permettano innanzitutto alcune considerazioni a carattere generale.
I festival sono ormai inflazionati oltre il lecito. Un tempo avevano una vocazione particolare: quella di consentire a fruitori di musica colta di godere di produzioni musicali anche d’estate, in luoghi magari gradevoli; oppure, principalmente, di onorare la memoria di compositori particolari. Pensiamo a Salisburgo (nato sotto la stella di Mozart negli anni ’20) oppure al festiva di Marlboro (in tutt’altro contesto ma con un preciso orientamento artistico) o, ancora, a quello di Martina Franca dell’era Celletti. Oggi, intenti del genere sono praticamente andati smarriti. Trattasi perlopiù di kermesse di vario genere, ove troviamo di tutto e di più. La qualità delle produzioni è raramente un concetto distintivo e, spesso, quanto vi si può vedere non si differenzia molto da quanto in scena nei teatri di tutto il mondo. Lasciamo perdere poi il merchandising esacerbato di un Salisburgo.
In questo contesto, a mia conoscenza, due festival si distinguono. Uno è Bayreuth (ma solo per forza di cosa: eseguire al Festpielhaus opere non wagneriane sarebbe risentito come una profanazione, mentre gli spettacoli sono spesso raccapriccianti) e l’altro è, appunto, Pesaro.
Ora, non tutto quello che si vede e si sente a Pesaro è memorabile. L’Otello dell’anno scorso era inguardabile e mediocre dal punto di vista vocale. La Gazza Ladra (che pure ha mietuto consensi) era a mio parere vergognosa con una regia brutta (ma proprio brutta, nel senso etimologico del termine) e squilibratissima nella parte vocale (con una protagonista pessima), oltre che diretta in modo plumbeo e fracassone. Quest’anno le cose sono andate meglio, anche se non perfettamente.
Tuttavia, a Pesaro, a differenza degli altri luoghi di produzione teatrale, vi è coerenza dal punto di vista stilistico. E’ vero, voci potranno essere inadeguate, troppo giovani, usurate. Ma tutto ciò in misura ben minore rispetto a quanto si può udire altrove. Non solo, ma cadute stilistiche e/o di gusto, tali da far decadere Rossini al rango di un compositore di serie B, non ci sono mai (al riguardo vi raccomando certi spettacoli dell’area tedesca o americana). Mi direte: ciò non basta. E’ vero. Ma è già qualche cosa. Non si può sempre avere o auspicare spettacoli perfetti. Lo diceva lo stesso Celletti: fra quanto si immagina o si pianifica e quanto va poi in scena, vi sono discrepanze che possono inficiare il risultato finale. Non solo, ma ditemi voi, nella vostra esperienza di spettatori/ascoltatori, quanti spettacoli perfetti avete sentito ? per quanto mi concerne, nessuno. E gli spettacoli che oggi ricordo come entusiasmanti (sono vent’anni che seguo assiduamente cose musicali) sono forse quattro o cinque, non di più. A questo punto, dovremmo rinunciare a mettere in scena spettacoli ove non tutto sarà perfetto ? se sì, è un dato di fatto che i teatri chiuderanno. Quantomeno quindi, a Pesaro, abbiamo spettacoli generalmente (generalmente) decenti, spesso buoni, con una resa vocale buona, in ogni caso superiore alla media. E’ giusto criticare certe scelte, ma è pur sempre opportuno guardare a) quello che c’è in giro e b) quello che è possibile fare. Il passato, poi, è fondamentale come termine di paragone e per quello che ci offre (registrazioni), ma è pur sempre passato e non deve essere invocato per rimpiangere il presente. Diversamente saremo sempre tutti orfani di qualche cosa e perennemente scontenti di quello che sentiamo: ogni volta che sento le Comte Ory mi manca la Devia; ogni opera di Verdi mi fa rimpiangere Bergonzi; e Florez confrontato a Schipa…. lasciamo perdere. Così non va: occorre sempre tentare di fare il meglio con quanto c’è a disposizione. E Pesaro, secondo me, in quest’ottica, è sicuramente a posto: senza ombra di dubbio, in media, vi si sente il miglior Rossini oggi sul mercato; che qualche punta di diamante sommersa emerga qua e là ogni tanto, è possibile. Ma quantomeno Pesaro ha un’anima e un indirizzo artistico chiaro. Se poi vuole sfruttare il viaggio a Reims come banco di prova per giovani cantanti, a me sta bene, a patto che lo faccia dichiaratamente con questo intento, senza che nessuno abbia ad equivocare sulla vera natura dello spettacolo.
Cari saluti a tutti.
Emanuele
Il passato, poi, è fondamentale come termine di paragone e per quello che ci offre (registrazioni), ma è pur sempre passato e non deve essere invocato per rimpiangere il presente.
Sono 100% d’accordo con Emanuele (tuttavia mi piaciono molto le critiche di Giulia 😉 )
Cari saluti!
Concordo con quanto riferito da Emanuele… Consiglierei ai compilatori del blog la lettura di alcuni testi del grande Ernesto de Martino: la costruzione di un mito non è altro che un procedimento di destorificazione, che serve ad assicurare alla crisi uno sbocco, proprio per non soccombere definitivamente di fronte al rischio di annullamento della presenza…
Non tutto quello che circola nei teatri è l’optimum… Ci mancherebbe altro!!!! Ma ricordo come anche quello che ci proviene dal passato non sia altro che una selezione di quanto avveniva sui palcoscenici del mondo di allora, e che di certo il “passato” tout court non può essere illustrato completamente dalle parziali registrazioni e documentazioni che ci sono pervenute… Il passato è, per sua natura, inattingibile nella sua più intima essenza (e questo lo sanno bene gli storici e i filologi veri… E’ un’ingenuità imperdonabile ritenere che una ricostruzione storica, per quanto accurata, possa rappresentare la VERA immagine del passato… E’ e rimarrà sempre una ricostruzione, dato che il passato è, per definizione, PASSATO…). E’ inevitabile che l’immagine del passato che abbiamo sia filtrata dal presente: e di quel passato – nel momento in cui cerchiamo di ripresentarlo o di additarlo come modello da perseguire – non facciamo altro che fornire una rilettura ermeneutica che – proprio trasfigurandolo inevitabilmente nel mito – lo snatura, se non altro proprio perchè cerca di ripresentificarlo; il passato, quando era presente, non trascorreva con questo intento, almeno principalmente… E’ giustissimo conservare le memorie, è giustissimo farle conoscere, propagarle (e i compilatori di questo blog fanno opera più che meritoria, direi straordinaria!), è più che legittimo criticare motivatamente, cercare di discorrere con cognizione di causa, portare avanti le proprie ragioni con pacatezza e acribia filologica… Ma lo scotto da pagare allora è duro… Una volta la Grisi in una discussione ha detto di non essere pronta all’estinzione dell’arte operistica (supponendo che io lo fossi…); credo che un atteggiamento di “crisi costante”, proprio perchè il passato funge da paradigma costante e perenne, conduca inevitabilmente a questo… A meno che i compilatori del blog non diventino al più presto sovrintendenti di qualche teatro o direttori artistici di qualche festival o rassegna musicale, tanto da poter gestire stagioni, programmi, cantanti, direttori d’orchestra, ecc.
Ho frequentato assiduamente Pesaro fin dalla Gazza Ladra del suo avvio : con Gavazzeni che, con gran fatica, povero vecchio, riusciva a tenere un’orchestra abborracciata. Poi, per tutti gli anni ’80: come non ricordare quell’attimo spettrale della musica di Tancredi, che vola via in un soffio verso l’eternità, Gelmetti la bacchetta in alto, i cantanti impietriti come statue, il gelo dell’emozione in una sala rabbrividita. . . Ho un nastro di quell’edizione in qualche baule: non ho mai potuto ascoltarlo perchè mi rubarono il mio Revox, mai più ricomperato. Credo anch’io che le voci udite allora (Ramey stava nell’hotel accanto al mio e non si faceva mai mancare un po’ di spiaggia!) siano state di superiore levatura, ma bisogna considerare anche la freschezza delle novità proposte e il fatto che il rapporto di fruizione non dipende solo dalla bontà dell’emissione della voce e connessi, ma anche dalla capacità di chi ascolta di saper discernere. Naturalmente chi, come voi, è preparato in materia può meglio giudicare e quindi la lezione che si trae dalle vostre critiche è sempre utile e aiuta a un approccio tecnico e di stile di superiore qualità. Ma chi gli strumenti del mestiere non li possiede, deve per forza affidarsi alle sue orecchie e all’emozione che prova di fronte all’esecuzione. Se i cantanti e l’orchestra riescono a dartela bene, tutto funziona. Pur con quell’orchestra, Gavazzeni trasse dalla grande scena del giudizio della Gazza un climax che non mi è più riuscito di provare le altre volte che poi sono andato ad ascoltare opere in giro per l’Europa. Ma mi domando, quanto quel climax dipendesse dalla bravura del maestro concertatore e quanto dalle mie orecchie vergini e senza termini di paragone. Forse oggi sottolinerei questa o quella sfasatura e mi darebbe fastidio. Insomma quello è un tempo perduto, valido in quel momento e irripetibile. Recuperarlo sarà impossibile, perché esso è figlio della mia ingenua predisposizione di allora. Con questo non voglio affatto sminuire i cantanti e la bontà del bel canto. Caspita i nomi che Lei, Signora Grisi, cita in coda al suo articolo (ci aggiungerei Cuberli e Valentini) li ho visti e sentiti tutti. E’ vero, sono stati di un’altra categoria, ma non sono riusciti a fare scuola e nemmeno hanno imposto l’imitazione del loro gusto. Bisognerà aspettare i risultati dell’insegnamento di qualcuno di loro? Ma il mondo va in fretta e travolge tutto verso altre e più drammatiche direzioni. Non credo ci sarà più lo spazio per una nuova renaissance.
Caro Velluti,
carissimi tutti che ci scrivete,
da persona assolutamente ignoirante et illetterata con termini quali acribia o destoricizzazione o peggio ancora con saggi che non partono da dati oggettivi e letterali ho rapporti a dir poco pessimi. Identici a quelli che ho con l’attuale Malcanto spacciato per grande canto di scuola. Rossiniana, soprattutto.
Io credo però che i miti non siano qualcosa cui aggrapparsi acriticamente, ma nascano invece dal raffronto fra ciò che dovrebbe essere ed in un determinato momento è stato e quello che è il magro e striminzito presente. Preciso anche che il cattivo rapporto o meglio ancora il contrasto perenne con il Festival di Pesaro nasce proprio dal fatto che coloro i quali sono o sarebbero deputati alla rivalutazione e rappresentazione dell’autore, dopo aver enunciato principi validissimi ed inoppugnabili, li abbiano dapprima sistematicamente disattesi e poi addirittura rinnegati. L’esempio a me più evidente fu il preferire l’Anna Erisso di Cecilia Gasdia a quella di Lella Cuberli (o se si avesse avuto veramente il coraggio di proporre un Colbran quantomeno verisimile, a quella di Martine Dupuy) ed oggi di non sapere o volere ricercare quanto di meglio il mercato possa ancora offrire proponendoci, invece, soprani russi o di provenienza consimile ben lontane da tecnica, gusto ed estetica rossiniane. Ma forse lontane dal canto professionale, come l’ultima Shirley Temple proposta in tandem con Florez ha inesorabilmente dimostrato.
Scusatemi se sono monotono, ma il canto e l’estetica rossiniana, ahiloro, non cambia.
Carissimo Donzelli,
non so a cosa fa riferimento quando parla di “saggi che non partono da dati oggettivi e letterali”; spero non si riferisca a de Martino, dato che le sue sono indagini etnografiche, e che quindi, ahilei!, partono proprio da dati oggettivi… Sul mito la risposta se l’è data da solo; la funzione del mito è proprio questa: creare un appiglio al presente che deflagra!!!! Questo è un meccanismo fondamentale dell’essere umano, oserei dire quasi inconscio… Da qui nascono le ideologie, le credenze, le superstizioni, le religioni, e, per l’appunto, i miti… Tutto ciò, grazie ad uno sguardo gettato nel passato, cerca di rendere possibile l’esistenza quando questa è messa in discussione! Carissimo, di certo l’estetica e il canto rossiniano non cambiano; però purtroppo cambiano gli individui che fruiscono di un determinato prodotto artisitico…. E’ questa la vera crisi a cui ci si cerca di opporre rifugiandosi nel mito… Il problema non sono le varie russe o turche o greche o italiane ignare di tecnica e stile rossiniani (quelle ci sono sempre state!!!); il problema è che c’è chi le apprezza, molto più che in passato… Non voglio giungere al solito cane che si morde la coda (chi ha creato questo gusto? E’ chiaro che siamo in processo osmotico…): me è indubbio che oggi una maggiore “democraticizzazione” del teatro operistico, nel senso che molti riescono a fruire di opera più facilmente, con in più le associazioni tra divismo pop e divismo operistico (due fenomeni entrambi censurabili dal mio punto di vista), non può non comportare notevoli cambiamenti nel gusto e nel modo di percepire l’opera.
Scusa Velluti, ma i divi sono sempre esistiti. Solo che cantavano in altro modo e, quando malcantavano, il pubblico si comportava di conseguenza. E loro lo sapevano.
Il fatto è, a mio avviso, che oggi si va all’opera e, quel che è peggio, si _fa_ l’opera senza conoscere il passato e spesso addirittura ignorandolo deliberatamente, quasi fosse un fardello di cui sbarazzarsi.
Ciò che dice Tamburini è vero: il passato, per un gran parte del pubblico e – cosa molto più grave – della critica, è cosa semplicemente ignota. Eppure, come dicevo nel mio primo intervento, è fondamentale come termine di paragone. Come si fa – soprattutto come critica – ad elogiare senza limiti per esempio un Alagna ? si veda l’Aida scaligera. si è letto di tutto, soprattutto in positivo, sui maggiori quotidiani del paese. Ma, allora, se egli è davvero così grande, nello stesso ruolo, come dobbiamo definire Bergonzi, Corelli, Lauri Volpi, Pertile, Roswaenge e qualche altro ? Qui sì che il passato diventa importante: per relativizzare ed apprezzare in modo credibile il presente L’esempio ora fatto è estremo. Ci sono molte situazioni intermedie, ove basterebbe definire “onesto”, “decoroso”, “accettabile”, “corretto” un cantante per evitare di fare figure. Ma, purtroppo, sembra quasi che l’iperbole o l’encomio siano elementi di valuazione necessari.
In questo contesto, poi, ha purtroppo un peso importante il condizionamento dovuto al battage publicitario: non è fenomeno nuovo. Ma ancora una volta molta critica non riesce a staccarsi dal binomio fama=bravura. Credo che uno dei grandi punti di forza di un ascoltatore o di un critico debba essere proprio questo: ascoltare e sentire con le proprie orecchie, senza pregiudizi ed essere in grado di valutare in base a criteri semplici ed oggettivi, quali la qualità del canto (una cosa quasi “scientifica”), la proprietà stilistica ed il talento interpretativo. Così facendo, si dovrebbe più o meno sempre giungere a giudizi quantomeno ragionevoli e sostenibili. Fra l’altro, è quello che – ogni tanto – manca ad critico quale Elvio Giudici, che spesso tira in ballo il gusto o, meglio, il gusto odierno. Ma il gusto è proprio quanto di più soggettivo vi sia, varia da persona a persona. E assolutamente inadatto a fondare critiche, se preso autonomamente e non innestato su considerazioni oggettive. Cosa che almeno consente a chi legge di differenziare la qualità effettiva dell’artista da quanto egli piaccia – o non piaccia – a chi lo valuta.
Scusate queste variazioni sul tema, ma lo spunto di tamburini era troppo interessante per lasciarlo perdere.
Cordiali saluti a tutti.
Emanuele